Roberto_Pinto(1)Cresce l’attesa per la prossima Biennale di Venezia. A meno di un mese e mezzo dall’inaugurazione ci è dunque sembrato interessante rivolgere qualche domanda a Roberto Pinto, decisamente in anteprima, sull’edizione che sta per aprire i battenti, ma anche, più in generale, sul ruolo e sul significato oggi delle grandi esposizioni internazionali.


D. Per cominciare una domanda sul curatore della mostra principale della Biennale: la scelta di Massimiliano Gioni ti sembra appropriata?

R. In sintesi direi di sì. Si tratta certamente di una persona molto intelligente e attenta a tutto quello che succede di significativo sulla scena artistica globale: un eccellente talent-scout, tra l’altro. Quanto al tema, confesso che mi sorprende un po’ questo approccio più trasversale e antropologico alle immagini ma soprattutto questo ricorrere alla metafora del palazzo enciclopedico, per quanto piuttosto coerente con alcune precedenti esperienza curatoriali di Gioni (penso a una Biennale di Gwangju di pochi anni fa, costruita proprio sull’idea dell’accumulo di immagini), nelle quali si trovava già espressa l’idea dell’arte contemporanea come porzione del più complesso sistema iconico che ci circonda, e degli artisti di oggi come non esclusivi legittimi creatori di immagini ma come una componente fra le varie all’interno di questo sistema.
La mia maggiore perplessità riguarda, in effetti, la possibilità di adattare le premesse naturali di una grande esposizione internazionale al format concettuale del “Palazzo enciclopedico”, un filo conduttore non nuovo, che presuppone un legame organico con una molteplicità di radici storiche che devono necessariamente essere esplicitate e portate a galla.

Biennale_padiglione_centrale(1)Gioni, peraltro, ha sempre dimostrato nel suo lavoro (mi viene in mente l’attività legata alla Fondazione Trussardi di Milano) una grande attenzione tanto alle opere quanto ai contesti in cui venivano presentate: possiede, dunque, le carte in regola per realizzare una buona Biennale. Sicuramente è un critico che sa guardare le opere e sa parlare e interagire con gli artisti, cercando di corrispondere alle loro esigenze per permettergli di esprimere al meglio le loro potenzialità. Su questo versante Gioni è uno dei curatori che in Italia ha saputo lavorare con maggiore profitto.

Quello che deve dimostrare con questa Biennale è semmai la capacità di fornire un’interpretazione generale, non limitata a un singolo artista, o a pochi artisti, ma capace di restituire la complessità della scena internazionale.
Vista l’impostazione, il pericolo è quello di puntare troppo in alto, nel senso che dare una visione enciclopedica si presenta oggi come un’impresa particolarmente rischiosa per la difficoltà sempre maggiore di dare ordine e trovare un bandolo rispetto alla straripante sovrabbondanza dell’informazione, offrendo delle letture adeguate senza ridurre la pluralità e articolazione del contesto all’accumulo quantitativo del materiale o a scelte troppo personalistiche.

Del resto, il problema della Biennale di Venezia, e in fondo di tutte le biennali, è che oggi in realtà esse finiscono per rendere conto principalmente, quando non esclusivamente, delle preferenze del curatore. Ma se ci si deve aspettare solo questo, ossia la semplice selezione operata dal curatore degli artisti che egli reputa più interessanti, prescindendo da una visione complessiva dei fenomeni artistici in corso (beninteso, anche per l’oggettiva difficoltà di render conto in termini panoramici ed esaurienti di uno scenario variegato e frammentato come quello odierno), rischia allora, paradossalmente, di risultare più soddisfacente l’immagine che viene restituita dalle grandi fiere d’arte, per esempio Basilea, dove perlomeno al punto di vista esclusivo del curatore si sostituisce quello di centinaia di gallerie di primo piano…


Personalmente vorrei vedere una Biennale in cui si colga il tentativo e persino la pretesa di fornire una lettura generale, che possa anche tagliare fuori delle cose importanti, ma che riesca a articolare selettivamente il panorama secondo un angolo di osservazione critico, così da permettere al visitatore di reagire e intervenire dialogicamente con l’insieme dei materiali proposti: laddove le ultime Biennali sono state soprattutto dei grandi contenitori senza una vera linea-guida.


D. Secondo il tuo punto di vista quale dovrebbe essere oggi il compito di una grande esposizione universale?

R. Non è più tanto semplice capirlo, in effetti. Una volta le Biennali servivano a stabilire il termometro della situazione: per così dire, i musei storicizzavano e le grandi esposizioni colmavano il buco relativo alla stretta contemporaneità, al presente in atto. Oggi questo compito in buona misura è già assolto dagli stessi musei, oltreché, ovviamente, dalle gallerie private, che svolgono la loro funzione preziosa, ma naturalmente senza l’ambizione di offrire sintesi o letture di ampio respiro. E’ quest’ultimo, dunque, che dovrebbe diventare l’obiettivo e lo spazio critico peculiare delle Biennali, declinato secondo un taglio specifico in grado di farci capire perché quel certo artista o quella certa opera sono importanti.

Biennale_padiglione_Italia(1)D. Abbiamo potuto scorrere l’elenco dei tantissimi artisti che saranno presenti con loro opere alla Biennale. Che idea ti sei fatto della rappresentanza selezionata? E ancora, inevitabilmente, come valuti il padiglione italiano a cura di Bartolomeo Pietromarchi?

R. Prendendo visione dei partecipanti ci si rende conto di quanto Gioni sia attento alle novità anche ultime e capillarmente aggiornato su tutto quanto avvenga di interessante nel mondo, rivolgendosi meritoriamente anche ad artisti molto giovani e ancora semi-sconosciuti. Non mi sorprende, quindi, di trovare nomi che conosco appena e anche nomi che non conosco affatto. Sono curioso di verificare alla prova dell’esperienza reale dell’esposizione se l’insieme di questi nomi sia adeguato all’idea esplicitata dal titolo, se regga l’impianto progettuale del “Palazzo enciclopedico”, perché molti degli artisti selezionati evidentemente potrebbero essere chiamati in causa altrettanto efficacemente per sostenere tutt’altra prospettiva critica e tutt’altro tipo di mostra.

Quanto al padiglione italiano, la prima cosa che viene da dire è che si è tornati a un’idea più “normale”, nel senso che normalmente nei padiglioni delle nazione principali i curatori non vengono chiamati direttamente dal ministro, com’è invece successo nelle ultime due edizioni con Sgarbi e prima con Luca Beatrice, i quali hanno fatto del loro disinteresse per il contemporaneo una bandiera e uno strumento per buttare dentro all’esposizione tanta brutta arte, e il cui operato sembrava mosso dalla finalità di rendere manifesto come l’arte di oggi non avesse alcun senso (peraltro, rendendo in tal modo insensato anche il fatto di spendere tanti soldi per esporla).


Dunque, dicevo, innanzitutto si è tornati fortunatamente alla normalità, in cui è il direttore di un museo importante a decidere la selezione degli artisti che lui reputa appropriati per rappresentare una nazione. Quello che mi lascia perplesso è che, mentre i padiglioni, tanto per dire, di Francia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti, Germania si concentrano su uno o su pochi artisti, il nostro finisce per corrispondere sempre alla logica della mostra collettiva, senza peraltro avere il coraggio di definirla tale. Nella fattispecie, con il titolo di “viceversa”, che recupera una idea di Giorgio Agamben, si intende istituire una sorta di dialogo e di ideale collaborazione tra 7 piccoli gruppi di 2 artisti ciascuno, i cui lavori dovrebbero corrispondere a 7 coppie oppositive di parole-chiave: ma ovviamente la mostra non è il frutto di un vera collaborazione (tra l’altro, due degli artisti sono morti), quanto esclusivamente di una suggestione critica (inevitabilmente arbitraria), sulla base della quale con questa formula si crea un fil rouge un po’ forzato e fittizio, che serve essenzialmente a dare una maggiore legittimazione critica e progettuale alla selezione operata [I quattordici artisti sono Francesco Arena, Massimo Bartolini, Gianfranco Baruchello, Elisabetta Benassi, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Piero Golia, Francesco Grilli, Marcello Maloberti, Fabio Mauri, Giulio Paolini, Marco Tirelli, Luca Vitone, Sislej Xhafa. Le "coppie" sono le seguenti: Ghirri e Vitone, Mauri e Arena, Golia e Xhafa, Maloberti e Favelli, Paolini e Tirelli, Bartolini e Grilli, Baruchello e Benassi, n.d.r.].


Devo dire che mi sembra una non-scelta, un approccio ecumenico che ti fa vedere cose certo significative, ma corrisponde a una logica che, se funzionerebbe in un museo o una galleria, ha poco senso nel padiglione nazionale della Biennale. Per chiarire meglio, avrei preferito che si fosse optato per una sola coppia di artisti, decidendo che quella contrapposizione fosse particolarmente significativa e dando a quei due artisti l’opportunità di esplorare in modo approfondito il contrasto di poetiche individuato. In qualche modo, l’operazione di Pietromarchi mi sembra creare una sorta di piccola Biennale “italiana” dentro la grande Biennale. In questo modo, però, almeno sulla carta, la proposta critica risulta meno incisiva e in difetto di audacia.

D. Quale o quali artisti avresti scelto come curatore del padiglione Italia?

R. Per restare nella logica delle coppie, avrei chiamato Adrian Paci, che è albanese ma vive in Italia da tanti anni e a mio giudizio è uno degli artisti “italiani” più interessanti, e poi un artista più giovane come Francesco Arena (presente anche nella selezione di Pietromarchi). Entrambi lavorano sul racconto della “storia” e credo che il confronto delle loro opere istituirebbe un dialogo molto fertile e stimolante.

Biennale_Logo(1)Luca Bortolotti, 15/04/2013