Giovanni Cardone  Maggio 2022
Fino al 29 Agosto 2022 si potrà ammirare presso Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino la mostra Invito a Pompei curata dal Parco Archeologico di Pompei e da Palazzo Madama. La mostra, con il Patrocinio del Ministero della cultura, è dunque un invito a una visita immersiva a 360 gradi negli ultimi giorni di vita di Pompei. La mostra è organizzata con la Glocal Project Consulting, si inserisce nel solco delle grandi iniziative espositive promosse dalla Fondazione Torino Musei. Una ricca selezione di oltre 120 opere, tra arredi, statue, gioielli, bronzi, vetri e apparati decorativi, è presentata al visitatore in un itinerario tra gli spazi domestici (l’atrio, il triclinio, il peristilio con il giardino, le stanze da letto), che termina con i drammatici calchi di alcune vittime. L’esposizione vuole essere un “invito” a entrare nelle case di Pompei a scoprire quali erano le atmosfere come erano arredate, quali oggetti erano usati quotidianamente dai suoi abitanti, come erano decorate e abbellite, attraverso un viaggio nel mondo pompeiano.  Come dichiara Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Pompei : “Ogni casa racconta la storia personale e intima di una famiglia, dei suoi abitanti, ma è anche microcosmo di una società e di un’epoca, con le loro abitudini espresse attraverso gli oggetti, gli arredi e le architetture. La domus romana, in particolare, aggiunge al racconto la straordinarietà e la bellezza di pitture e mosaici da ammirare. E le mostre ci consentono di raggiungere pubblici lontani e permettere, non solo a coloro che vengono in visita a Pompei, di fruirne. Quando trovano una cornice di prestigio come Palazzo Madama di Torino, l’esperienza di conoscenza e piacere è completa.” Mentre afferma Giovanni Carlo Federico Villa direttore di Palazzo Madama : “Quasi due millenni or sono giungeva ad Augusta Taurinorum la notizia dell’eruzione del Vesuvio. E delle lettere di Plinio il Giovane a Tacito si discusse forse nella Porta Decumana di un Palazzo Madama, che tanta memoria conserva della formidabile stagione artistica riscoperta in epoca illuminista con gli scavi di Pompei. Siamo profondamente grati al Parco Archeologico e al Ministero della Cultura per averci ora consentito di presentare opere di raro significato e importanza in un contesto tanto evocativo. Ogni visitatore, uscendo dalla mostra, ripercorrerà quella torre romana ove gli avvenimenti di Pompei echeggiarono nei primi secoli della nostra storia.” Il percorso espositivo, nella maestosa Sala del Senato, dove si è fatta l’Italia, si snoda attraverso gli ambienti maggiormente rappresentativi delle case più lussuose della Pompei del I secolo d.C. La domus romana, per la prima volta a Torino, spalanca le sue porte ai visitatori, accogliendoli nell’intimità domestica e mostrando loro la normalità della vita quotidiana alle pendici del Vesuvio. Un tuffo nel passato, che offre l’occasione di aggirarsi in quegli ambienti in cui l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. spense d’un colpo la vita dei suoi abitanti. La Pompei di oggi non è che lo scheletro della città antica, prosciugata di ogni forma di vita dalla calamità naturale e svuotata di quegli oggetti che consentirebbero di immaginarla così com’era. Apre la mostra il bel plastico di fine Ottocento della Casa del Poeta Tragico, una di quelle che più hanno stimolato l’immaginario di viaggiatori e artisti del Grand Tour, tanto da essere l’ambientazione di molte scene del romanzo Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton, a cui si ispira l’opera di Federico Maldarelli Ione e Nidia della GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, che chiude il percorso. Da un mio Saggio scritto a quattro mani con Marco Scarfiglieri Viandanti Itinerario, Storico Cultuale e Mitologico alla scoperta del Mezzogiorno edito da LFA Publisher all’interno del volume abbiamo dedicato un intero capitolo a Pompei apriamo il saggio dicendo :  La data del 24 agosto è condivisa da gran parte dei filologi, in particolare tedeschi, ma non più accreditata tra i ranghi della comunità scientifica. Pompei si sarebbe inabissata in autunno, quando il clima campano è più gradevole e la vita langue come il vino nelle botti.
La presenza del mosto nelle otri è stata tra le prove che hanno consentito la datazione del tragico evento. L’indagine, avviata dalla ricerca di qualsiasi indizio nella scrittura esposta e presente su muri, incisioni e affreschi, si è spinta fino alla cucina e alla tavola. Briciole e avanzi di cibo come tracce, testimonianze alimentari: Pompei è stata coperta dalla lava nel mese di ottobre. Dagli scavi sono emersi resti di frutta autunnale: melograni, fichi secchi e, come accennato, poco distante, a Boscoreale, le botti erano piene di mosto. Non poteva che essere ottobre. A sostegno di tali ipotesi anche alcuni bracieri di bronzo che sono stati rintracciati al centro delle case, prova del loro utilizzo. Il 16 ottobre 2018, la prova provata: una frase in carboncino scoperta nella Casa con Giardino dove, alcuni giorni prima dell’esplosione, si stavano effettuando dei lavori. È una sorta di data di avvio cantiere, il giorno fatidico è il 17 ottobre del 79 d. C., a distanza di una settimana, la catastrofe. A Pompei nulla precipita nell’oblio. Si può raccontare ogni cosa, persino i pensieri e le ambizioni di un liberto o di uno schiavo. Il vulcano travolge e custodisce, distrugge, serba e rigenera. C’è chi afferma che non vi sia stata città più morta che meglio abbia custodito la vita. La tremenda eruzione è la prima nella storia a essere stata documentata in presa diretta, il reportage di una catastrofe a cura di una grande firma del tempo, Plinio il Giovane. La comunità scientifica, che per sua natura è sempre rigorosa e cauta prima di proclamare una qualsiasi verità, su Pompei si è prima divisa per poi ricongiungersi. Plinio, dunque, “si sbagliava”. Per molto tempo, come accennato, si è creduto che la violenta esplosione fosse avvenuta il 24 agosto del 79 d. C. La data è stata dedotta dallo scambio di lettere fra Tacito e Plinio il Giovane, testimone sul campo del dramma, dove si parla di nonum kal semptembres, varrebbe a dire nove giorni prima delle calende di settembre, ossia il 24 agosto. Nessuna certezza vi è sull’originalità delle lettere, le quali potrebbero essere fonti di rimaneggiamento o, peggio, di errori di copiatura. La data più quotata, dopo le recenti scoperti, come si diceva, sarebbe allora il 24, sì, ma di ottobre. Via dell’Abbondanza è il decumano della città e si interseca con la via Stabiana. La pianta ortogonale tutela da ogni smarrimento: a Pompei non ci si perde, poiché due rette, una orizzontale e una verticale, tagliano la città e la suddividono in quartieri razionali e squadrati. La suddivisione che si vede oggi è stata messa a punto nel XIX secolo, quelli di oggi non sono i veri nomi delle vie. I pompeiani non usarono i numeri civici, si orientarono grazie ai cognomi e ai graffiti, che campeggiavano sui muri di ogni abitazione. I cognomi più diffusi erano Ceii, Vettii, Proculo. Si contavano circa 20mila abitanti, un dato ricavato attraverso un’analisi alquanto originale: osservando e calcolando i posti a sedere a teatro. Pompei fu dunque una città di medie dimensioni ma posta nel cuore del traffico commerciale del Mediterraneo: una sorta di corridoio per gli abitanti di Nola, Acerra e Nocera, tappa intermedia per giungere al porto di Pozzuoli, centro di stoccaggio per le merci in arrivo dall’Egeo. Eva Cantarella e Luciana Jacobelli, nel loro Pompei è viva (edito da Feltrinelli), sfatano i tabù e i pregiudizi che a lungo hanno dipinto Pompei come crocevia libertino: il centro campano era simile a tutti gli altri, con la sola differenza che lì le tracce e le memorie si sono conservate infinitamente meglio. Sempre proseguendo per via dell’Abbondanza ci si imbatte nei thermopolia, osterie e bar del tempo. Luoghi di socialità, ma anche spazi riservati alla propaganda politica. La maggior parte dei thermopolium sponsorizzava con graffiti, dal carattere tipografico modernissimo, la corsa alla carica pubblica dei candidati. A Pompei si votava ogni anno. Il potere politico si ripartiva tra due uomini, i duoviri, mentre quello amministrativo spettava agli edili. L’elezione poteva aver luogo in base al reddito, verificato ogni quinquennio proprio dai duoviri. Frequentate anche le fullonica, ovvero le lavanderie e tintorie dell’epoca. Curiosità, i Romani non si servivano di sapone, ma si affidavano all’urina, piuttosto ricca di ammoniaca. Gli affreschi, inoltre, testimoniano anche il loro guardaroba. Gli uomini prediligevano tessuti dai colori sobri mentre le donne sfoggiavano indumenti dalle calde tonalità, rosso o arancio, sebbene il “rosso pompeiano” in principio forse era ocra. Nel 79 d. C. Pompei era florida, viva, una città in cui i liberti erano arrivati al potere speculando grazie ai commerci, ma anche per via delle ricostruzioni seguite ai vari terremoti verificatisi in precedenza. Ad abitarla uomini raffinati, individui in grado di acquistare la mobilia messa all’asta a Roma e appartenuta niente meno che a un cesaricida. È nella casa di Casca Longus che è possibile ammirare il tavolo requisito a uno dei Romani coinvolti nella congiura delle Idi di Marzo. Come le altre residenze pompeiane anche questa ha in comune l’atrio e il tablino (sala del ricevimento). I pavimenti si caratterizzano per i marmi policromi, mentre anguste ed elevate sono le camere da letto, strette ma aggraziate da decorazioni mirabili: scene di caccia, amplessi, miti omerici, con il trionfo dell’azzurro ottenuto con la pietra di lapislazzulo. Nell’hortus, il giardino, venivano coltivate le erbe officinali. Nei pressi della dimora del Sacerdos vi è un vetro di ossidiana appeso a una parete: era uno specchio. I tempietti in miniatura posti agli angoli degli edifici erano invece cappelle. Qui erano custodite le statue dei Lari, le divinità dei focolai domestici. Nella casa degli Epidi a emozionare ecco che dentro una teca di vetro riposa il calco di gesso di una donna, come se fosse il corpo di una sirena che respira. Il merito è di una tecnica ottocentesca, impiegata ancora oggi. I vuoti nella roccia lasciati dai corpi decomposti hanno conservato la forma delle vittime, l’impronta sulla cenere. Il vuoto va riempiendosi con il gesso liquido (oggi sostituito dalla resina) fino a ottenere le parvenze della vita che prima si era decomposta. Colti nel momento in cui stavano esalando l’ultimo respiro rapiti da una morte infame: al centinaio di persone e animali, investiti dalla nube bollente di lapilli e gas, non rimane che l’agonia, impressa proprio in quei calchi. Una tecnica sperimentata in origine da Giuseppe Fiorelli, primo direttore ad aprire al pubblico il sito archeologico, era il 1861. Quel giorno morirono in mille, la vita persa si tradusse in immortalità. Il 24 ottobre del 79 d. C., nel suo ultimo giorno il primo. Gli scavi ebbero inizio nel 1748. Il primo a trovarsi di fronte a vecchi muri e qualche moneta fu l’architetto Domenico Fontana, ma non poté badarvi troppo, suo scopo era concludere un canale che avrebbe dovuto condurre l’acqua dal fiume Sarno ai pastifici del conte Muzio Tuttavilla, nei pressi di Torre Annunziata. Trascorsi 150 anni, era il 1748, furono gli ingegneri militari borbonici, incaricati di esaminare il terreno per la realizzazione di un’opera idrica, a prendere coscienza che nella zona della cosiddetta Civita si celasse una città sepolta. Brama di ogni nascente o rodato archeologo, per il re non fu altro che un déjà vu. Carlo non era un grande estimatore d’arte e di antichità, ma, complice la scoperta di Ercolano, dieci anni prima, era ben consapevole che per dare a Napoli lustro di capitale occorreva affidarsi al mecenatismo. Sul colle della Civita fu allora invitato l’ingegnere militare Roque Joaquìn de Alcubierre, già alla guida degli scavi nell’altra città sepolta: lo spagnolo scoprì pareti affrescate e parte di un anfiteatro. I reperti non furono stimati come abbastanza preziosi per la collezione privata borbonica: fu così che il militare decise di ricoprire tutto e tornarsene a Ercolano. Johann Winckelmann riferendosi al povero Alcubierre, lo definì come «un uomo che si intende di archeologia come la luna dei gamberi». Va detto, a chi se ne intendesse fin dal primo istante questa atlantide sommersa da cenere e lapilli si rivelò non solo una straordinaria finestra sul passato, ma anche un’opportunità speciale che, nei secoli a venire, avrebbe stimolato il sorgere dell’archeologia moderna e dei suoi metodi di ricerca, tutela e conservazione. Ma per ora ci si doveva accontentare di archeologi alla “viva il parroco”, proprio come il poco fortunato Alcubierre e il suo corpo militare di ingegneri. Loro mansione era quella di vigilare su capomastri e operai armati di picconi, punteruoli di ferro, carriole e seghe per l’estrazione dei dipinti murali. Più che studiosi si sarebbero potuti definire tombaroli. Il loro opinabile metodo, che procedeva con lo scavo di lunghe gallerie sotterranee (i celebri “cunicoli borbonici”), era dettato dal volere del sovrano: recuperare reperti e opere d’arte da accumulare nel Museo della Villa Reale di Portici. Quel che non serviva lasciato sul posto e ricoperto. Questo sistema fu adoperato anche nella zona della Civita, quando le ricerche ripresero nel 1754, sull’onda dell’entusiasmante ritrovamento della Villa dei Papiri a Ercolano. Ci vollero nove anni per comprendere la realtà: quella che si aveva di fronte era la città di Pompei e non Stabia. Il nuovo direttore degli scavi, l’architetto Francesco La Vega, si rivelò una sorta di sovraintendente moderno ante litteram, attento non solo ai reperti, ma anche alla tutela e alla conservazione degli edifici. Si deve a lui e alla passione per le antichità di Maria Carolina, la moglie del nuovo re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, il fatto che le strutture riemerse cominciassero a essere lasciate a vista, invece che reinterrate. In seguito ai primi ritrovamenti, l’Europa fu percorsa da un delirio di entusiasmo: studiosi, intellettuali e monarchi accorsero in gran numero alle città vesuviane, ma i permessi per le visite agli scavi, dispensati dal re, erano piuttosto rari e sui reperti vigeva il più stretto riserbo. Insomma: anche se l’iscrizione posta all’ingresso recitava che il Museo di Portici fosse destinato agli amatori delle antichità, di fatto a molti di loro fu impedito di studiare, disegnare e persino osservare la preziosa raccolta. L’esposizione era specchio di una prestigiosa manifestazione di potere. Nell’ottica dei regnanti di Napoli, Pompei era, e rimase fino al 1860, una sorta di museo privato, meta dei viandanti del Grand Tour, dei tanti e snobbati intellettuali romantici, ma anche di teste coronate e di aristocratici europei. A loro erano riservate visite ad hoc: si pensi alla cena e ai fuochi di artificio fra le donne in omaggio al principe di Danimarca nel 1821 o la “magnifica colazione” nella caserma dei gladiatori, approntata, nel 1829, per la granduchessa Elena di Russia, il tutto pochi giorni dopo la “cena con scavo” di Ludovico I re di Baviera. In questa circostanza, munito di zappa e piccone, l’appassionato sovrano disseppellì diversi oggetti, poi “graziosamente donatigli” dal re di Napoli. Il generale francese Jean étienne Championnet, che nel 1799 conquistò Napoli alla testa dell’Armée d’Italie, costringendo alla fuga Ferdinando IV e proclamando la breve Repubblica napoletana, non fu da meno. Le sue premure non furono poi così nobili: migliaia di braccia fresche arruolate con il fine di recuperare quante più opere d’arte possibile, imballarle e spedirle in Francia. Non tutti i francesi ebbero le stesse cattive intenzioni. Nel 1808, dopo la breve parentesi Borbone, sul trono di Napoli si sedette il francese Gioacchino Murat, cognato di Napoleone: sua moglie Carolina era un’appassionata di archeologia e prese a cuore le indagini. Andò aumentando il numero degli operai e “zappatori”, incentivati con laute e frequenti ricompense. Intanto, il nuovo direttore, Michele Arditi, sostituì alla tecnica dei “buchi a caso” in ricerca di rarità, un piano di scavo razionale, che seguisse le strade, casa per casa, dalla Porta Ercolano verso l’interno della città. L’archeologo sul campo arrivò nel 1860, quando il re Vittorio Emanuele II affidò l’incarico di direttore degli scavi a Giuseppe Fiorelli (1823-1896). Il numismatico napoletano introdusse quella che oggi definiremmo una moderna ricerca programmata, trasformando quel parco giochi per cacciatori di tesori in un laboratorio di ricerca e studio all’avanguardia, applicando nuove tecniche di scavo e recupero: in primis il metodo “stratigrafico”. Un modus operandi alla base di qualsiasi indagine archeologica: questo sistema procede raschiando dall’alto verso il basso singoli strati di materiali. A Fiorelli si devono anche la divisione della città in Regiones e Insulae e l’uso del metodo dei calchi in gesso per ricostruire le fattezze delle vittime dell’eruzione. Unificò inoltre i vecchi cantieri, fino ad allora divisi da montagne di terra smossa, realizzando un percorso unitario per i visitatori del sito, che finalmente venne aperto al pubblico: un biglietto che costava due franchi aveva sostituito il raro privilegio di un lasciapassare del re. La sbrigativa caccia al tesoro del periodo borbonico con i suoi “metodi briganteschi” giungeva al termine. Pompei divenne un moderno scavo archeologico: sul finire dell’Ottocento ecco la pubblicazione di tutti i diari di scavo dal 1748 al 1860, la realizzazione della prima mappa dell’area e un plastico in scala 1:100 dell’intero sito (oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Pompei proseguì la sua lotta per la sopravvivenza: le bombe Alleate durante il secondo conflitto mondiale, il terremoto dell’Irpinia, le cattive e imprudenti politiche di scavo. Pompei, però, è nata per risorgere, desiderio di qualunque aspirante o navigato archeologo. Vi sono domande sulla quotidianità di Roma che trovano risposta solo a Pompei. Come era fatta una chiave di casa? In che modo i candidati facevano propaganda elettorale? L’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. e la conseguente tragedia lasciano in eredità ai posteri un vero e proprio museo a cielo aperto, una sorta di passe-partout temporale che ci proietta direttamente nella quotidianità romana del tempo.
L’esplosione di cenere e lapilli che inghiottì la città, ne scattò una istantanea a dir poco unica su uomini, cose e gesti. Come sosteneva Stendhal, quello a Pompei è un salto indietro nel tempo. Solo qui è possibile camminare su di una vera strada cittadina dell’antica Roma, si pensi a via dell’Abbondanza, costeggiando case, botteghe, taverne con banconi di pietra dove gli osti mescevano il vino, passeggiando pare allora che si sentano gli odori di quel mondo antico o magari di incontrare Plinio il Vecchio, cittadino onorario o quasi di quella città. Una cittadina dove gli edifici sono ancora integri, con pareti, tetti e decorazioni. Un luogo dove si può accedere alla stessa maniera di chi ci ha preceduto. Girovagando per il sito si scopre quanto fossero grette e spartane le dimore dei popolani, formate di un’unica e buia stanza, piuttosto differenti dalle ampie e colorate residenze dei ricchi. A Pompei si riscontra, più che in ogni altro luogo della romanità, una vivacità di colori altrove andata perduta per le ingiurie del tempo. L’importanza di questo piccolo centro è data da un altro elemento fondamentale: Siamo abituati a conoscere la civiltà romana attraverso la grande mole di testimonianze che si trovano a Roma. L’Urbe, però, era la capitale, quindi una realtà fuori dall’ordinario. Pompei fornisce dunque uno spaccato più autentico del mondo romano. Qui scopriamo come veramente viveva chi popolava le cittadine di provincia che punteggiavano i domini dell’Impero. (Federica Guida, Museo Civico Archeologico di Bologna). L’eruzione del Vesuvio, quindi, non ha cancellato domus, templi, strade e preziosi affreschi. Leggendo i numerosi graffiti che sono stati rinvenuti, merito dei muri delle case che si sono conservati nei secoli, si può notare come tante siano le cose che nel tempo non sono cambiate. Gli amore, ad esempio: «Auge ama Allotenus», «Celado fa sospirare le ragazze». Non mancano frasi al di sopra delle righe: «Se puoi e non vuoi perché le gioie rinvii e perché rinfocoli la speranza e mi rimandi sempre a domani? Obbligami dunque a morire, tu che mi imponi di vivere senza te». Le pareti fungevano anche da preziosi promemoria per i posteri: «Giovinetta è nata sabato due agosto» o anche «Atimeto mi ha messo incinta». Nelle iscrizioni, tracciate in latino popolare e solitamente scurrile, traspare tutto il fermento della società romana. Grazie a Pompei si apprende in che modo i candidati alle elezioni e i magistrati in carica conquistassero i favori degli elettori scrivendo sui muri che avevano allestito intrattenimenti per tutti a loro spese. Ci sono cose che accadono soltanto a Pompei, qui infatti è possibile imbattersi nel solo lupanare romano ancora integro, con loculi e letti in muratura dove venivano ricevuti i clienti e che vanta ancora i tariffari in bella mostra. A partire dal III secolo a. C., in Campania si usava rivestire le pareti con l’intonaco, se ne adoperavano da tre a sette strati per preparare i muri ad accogliere l’affresco. A ogni angolo scatti di vita quotidiana dell’epoca: pagnotte di pane pietrificate come se fossero appena sfornate, semi di uva provenienti da vitigni antichi di duemila anni, oggi, avvalendosi della genetica, offrono l’opportunità di gustare un vino imparentato con quello servito nei banchetti di allora. Cenere e lapilli hanno restituito gli stessi pompeiani, le loro ossa e i calchi dei loro corpi, che acquistano una identità ben precisa grazie alle tecniche dì indagine con la tac e il dna. A dimostrazione di ciò anche un’ultima scoperta, l’affresco dei gladiatori, venuto alla luce durante gli scavi del Grande progetto Pompei. I due gladiatori, ritratti nell’atto conclusivo della lotta, con membra sgraziate e ferite che sprizzavano sangue, sembrano una caricatura umoristica. Pompei racconta l’universo romano come neppure Roma stessa può fare. La gran parte degli abitanti di Pompei pagò con la vita l’essere presente a quell’appuntamento con la Storia. Quella giornata pareva una delle tante trascorse nel centro campano: il sole appena levato illuminava man mano le strade, le case e le piazze di Pompei. I riflessi dei suoi raggi guizzavano sull’acqua che le donne attingevano dalle fontane. Bottegai e commercianti aprivano i negozi e locali sistemando le merci fin sul marciapiede, dove ambulanti, sfaccendati e mendicanti conquistavano già porzioni di spazio per le loro attività. Anche nelle domus cominciavano le pratiche quotidiane, le pulizie giornaliere erano riservate agli schiavi. Nel mentre a Ercolano si stavano raggruppando i calessieri in attesa dei clienti, mentre massicci carri da carico trainati da muli e pieni di prodotti agricoli si muovevano rumorosi sul lastricato di basalto, lungo i solchi tracciati da migliaia di altre ruote nel corso degli anni. Le strade si popolavano e si animavano, Pompei brulicava di vita. Un altro giorno, l’ultimo. A malincuore toccava lasciare Pompei. Tito Suedio Clemente si era trasferito lì solo pochi anni prima, con l’incarico dell’imperatore Vespasiano di riordinare il catasto della città. Ne aveva ridefinito nuovamente confini, tracciato una nuova mappa delle proprietà e vegliato affinché nessuno approfittasse delle ricostruzioni avvenute in seguito al terremoto del 62 d. C., per allargarsi a spese dello Stato. Un compito certo non facile, ma le amicizie e i doni non gli mancarono: tra i tanti un’anfora di pregiatissimo Clodaianum invecchiato tre anni, regalo di Publio Clodius Speratus. Salì sulla liburna, il vento gonfiava le vele, la barca si mosse Capo Miseno. Era l’alba, nella baia di Napoli gli uccelli non cantavano. Quando sbarcò, qualche ora dopo, il mare era agitato. Una scossa di terremoto lo fece quasi cadere dal molo e allora scrutò un’impressionante colonna di fumo a ridosso di Pompei. Suedio si rese conto che si faceva pian piano più scura e illuminata da lampi di fuoco. Con il calare della sera le scosse divennero sempre più frequenti, l’aria si riempì di cenere e il mare cominciò a ritirarsi dalla costa: allora, nel cuore della notte il tribuno decise di fuggire: a piedi, assieme a una folla attonita e piangente, mentre i pesci rimanevano in secca sulla spiaggia, a soffocare. Era ormai un giorno che la terra tremava: Giulia aveva trascorso la notte a un convivio con il marito e all’alba era rincasata da sola, accompagnata da uno schiavo. Dormiva da poche ore, quando a destarla fu un boato che fece sussultare i muri. Affacciandosi una strana nuvola in lontananza la sorprese, decise di correre da Octavius. Poi ancora un fragore, stavolta più forte: si coprì con un ampio mantello ove nascose una borsa colma di gioielli. Spettinata corse fuori di casa. Sulla destra, in lontananza, ecco l’anfiteatro: era lì che aveva ammirato Octavius lottare per la prima volta innamorandosene. Fosse andata da quella parte, forse, avrebbe avuto una possibilità di salvarsi. Ma lei prese la via a sinistra, dritta verso la Caserma dei Gladiatori, dove il suo amante si stava allenando. Scese un silenzio irreale, poi una pioggia di macigni scuri. La donna era ormai all’interno della Caserma, ma dell’amato non vi era traccia. Continuò a chiamarlo invano, finché una scossa più forte la travolse scaraventandola sotto a un muro. Recatosi al porto in tarda mattinata si accorse di quanto il mare fosse in subbuglio. Lucio Gaio Cecilio decise così di far ritorno alla sua ricca domus. L’inquietudine lo percosse almeno quanto le scosse di quegli ultimi giorni. Si era convinto: avrebbe lasciato Pompei proprio come molti dei suoi amici dopo il terremoto del 62 d. C. Avrebbe potuto raggiungerli a Roma, magari sostando a Napoli, da suo fratello Quinto Sestio. Ragionò sul da farsi passeggiando nel suo hortus, tra i ginepri, le piante di mirto e i piccoli alberi da frutta. Sbadigliò, non aveva voglia di mettersi in viaggio. Si avviò verso le terme del Foro, sarebbe partito l’indomani. Entrato nel frigidarium, trovò la piscina deserta. Percorsi lentamente i gradini, si immerse nella vasca e avvertì un rombo. Uscì di colpo dall’acqua, il pavimento oscillava, sui muri apparvero crepe. Poi dei tonfi, cosa accadeva? Corse a ritroso nello spogliatoio, poi uscì nudo sul cortile porticato. Ma prima che riuscisse a sbucare su via delle Terme, un grosso masso scuro e fiammeggiante gli frantumò il cranio. Quando il vulcano esplose, Lucius Vetutius Placidus era impegnato a travasare nelle anfore il vino appena giunto dalla campagna. Il liquido andò spargendosi sul selciato, mentre l’oste trovava riparo nel thermopolium. La moglie, paralizzata, stringeva tra le mani una tiepida focaccia. Dall’interno della loro locanda, scrutarono per diverse ore i morti, i crolli, la villa sotterrata dia lapilli. Decisero allora di allontanarsi, non prima di aver nascosto l’incasso della giornata tra i legumi secchi, in una delle giare di terracotta incassate nel suo bancone. Con due cuscini alla testa, arrancarono verso porta Stabia. L’aria era irrespirabile: la cenere bruciava gli occhi, la gola e i polmoni. Sostarono allora sotto un portico. Trascorsa la notte, sorse un’alba opaca e senza luce si di una città semisepolta. I sopravvissuti riemergevano dai loro nascondigli, nessuno si rese conto di quella valanga ustionante di cenere e gas velenosi che scivolava con estrema rapidità alle loro spalle. Silenziosa e letale abbracciò anche l’oste e la sua consorte, seppellendoli e asfissiandoli, insieme fino alla fine.
La notte non era stata delle solite: i clienti si erano avvicendati senza tregua. Eutichia si stiracchiò, la carnagione olivastra tradiva i suoi natali orientali. Era una schiava, come tutte le ragazze del lupanare di Africanus e Victor, sebbene le sue prestazioni fossero le più desiderate e care: 16 assi, ossia l’equivalente di otto coppe di vino. Avvertì un fermento nel corridoio, era uno schiavo fuggiasco, aveva il terrore negli occhi. Gli fece cenno di entrare, lì sarebbero stati al sicuro. L’uomo era in affanno, giungeva da una villa rustica alle pendici del Vesuvio. Lassù l’aria sapeva di zolfo e una nebbia polverosa celava ogni cosa. La terra tremava come se volesse aprirsi. Mentre i suoi compagni si erano riparati nella casa del padrone, lui era scappato. Lui implorava lei di fare altrettanto. Eutichia all’esplosione d’istinto si scaraventa in strada: attorno a lei solo disperazione, urla e pioggia di sassi. Un bambino piange disperato, aveva perso la madre. La donna lo prende in braccio, lo porta al riparo, ma dopo pochi attimi, un crollo, la tettoia li ha travolti. Cresto era in procinto di servire un pasto frugale alla sua padrone, quando a scuoterlo ecco un boato. Il vassoio d’argento sul quale era posata la carne speziata del giorno prima gli cadde, mentre la domina, Lucrezia, si alzò per tranquillizzare le figlie. Il sole andava oscurandosi, un forte vento spazzava le strade. Una pioggia di fuoco convinse gli schiavi a fuggire dal retro, Cresto non si mosse. Del resto era nato da una schiava proprio in quella casa, era parte integrante di quella familia e la padrona non gli aveva mai fatto mancare nulla. Non l’avrebbe mai lasciata sola. Per diverse ore, nell’atrium, strinse Lucrezia e le sue due figlie, mentre la vasca di raccolta dell’acqua piovana si riempiva di pomici e di lapillo. Scosse, lacrime e preghiere, alla fine all’alba la pioggia cessò. I quattro si inerpicarono sulla montagna di scuri massi, sbucando sul tetto attraverso il compluvium e da lì scesero per la strada sepolta. Una delle piccole aveva dimenticato una bambola e cominciò per questo a piangere. Cresto si offrì di tornare indietro a prenderla, ma prima che potesse muovere un passo una valanga rovente li inghiottì tutti. Ercolano, Stabia e Oplontis, furono esclusivi luoghi di vacanza dove i più abbienti tra i Romani edificarono fior di ville per trascorrervi sereni momenti di relax. Anche queste residenze non furono risparmiate dall’eruzione, la tragedia coinvolse le tre rinomate e amate mete balneari del Golfo di Napoli. Le tre città erano accomunate dai suggestivi scorci marittimi e dal fatto di essere circondate da fonti termali e terre fertili. Il necessario affinché facoltosi e potenti Romani vi costruissero lussuose residenze dove lasciarsi alle spalle il caos e lo stress urbano, godendosi una quotidianità alternativa tra banchetti e gite in barca. Fin quando il risveglio del Vesuvio non spazzò via ogni cosa, rivestendo di grigio questi ridenti luoghi e relegando nell’oblio i loro vacanzieri e lussuriosi fasti. Il centro più popolato dei tre era Ercolano (che arrivò a contare i 5.000 abitanti), città fondata dagli Oscii, popolo italico, attorno al XII secolo a. C. e divenuta municipio di Roma nell’89 a. C.: da questa data si impose come rinomato sito dedito alla villeggiatura. Ercolano era adagiata su di una collina sovrastante il mare e difesa da mura, contava strade pavimentate e fiancheggiate da comodi marciapiedi, potendo anche beneficiare su una struttura fognaria e su un sistema di pozzi e condotte idriche. Vi era anche un foro, il centro pullulava di botteghe. Al di sotto dell’abitato, lungo la spiaggia, vi era la zona portuale, da raggiungere attraverso le rampe e segnalata da fornici, caratteristici ambienti a volta con funzione di magazzino e rimessaggio per le imbarcazioni. A fare la gioia dei villeggianti erano però i luoghi attrezzati allo svago: teatro, palestra e terme. Le abitazioni, al pari di quelle pompeiane, erano ricche di affreschi, decorazioni marmoree, mosaici e statue. In una di queste residenze, la Villa dei Papiri, sono stati rinvenuti migliaia di testi, redatti appunto su papiro. Erano legati perlopiù al pensiero filosofico del greco Epicuro(IV III sec. a. C.), incentrato sulla ricerca della felicità – al pari dell’otium praticato in questo luogo – e di cui Ercolano fu centro di diffusione nel mondo romano. Inoltre, grazie a una nuova tecnologia non invasiva (hyperspectral imaging), è stato possibile decifrare uno dei rotoli rinvenuti proprio nella Villa. Si tratta del testo greco nascosto sul verso della Storia dell’Accademia di Filodemo di Caldara (110-40 a. C.), e parte di un’opera più ampia, La Rassegna dei filosofi, la più antica storia dei filosofi greci oggi in circolazione.
Un risultato importante raggiunto da un gruppo internazionale di ricerca, guidato da Cnr-Iliesi, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, in cui ha sede l’Officina dei Papiri Ercolanensi. Le ville più lussuose, oggetto di un mercato immobiliare equiparabile al moderno, erano quelle affacciate sul mare. Ma chi avesse voluto beneficiare di assoluto relax, distante dai fermenti delle attività cittadine, avrebbe dovuto optare per una residenza presso una delle altre due perle, dislocate una decina e una ventina di chilometri più a sud. L’antica Stabia si mostrava come una vasta area puntellata da aziende agricole e ville dal tono fiabesco. Il popolamento del territorio si ebbe a partire dall’VIII secolo a. C. Il sito divenne dominio romano al principio del I secolo, affermandosi presto come “Buen Retiro” più ambito dell’intero golfo, di gran moda tra le celebrità più in voga del tempo. Si articolava su due livelli: una parte bassa, con il porto e i suoi moli, e una alta, corrispondente all’attuale collina di Varano, in cui si innalzavano gli edifici pubblici e le residenze private, mentre più all’interno vi erano le tante fattorie che producevano il vino tanto amato ai banchetti dei vacanzieri. Le residenze signorili erano autentiche oasi di lusso, con tanto di accessi privati alla spiaggia: si pensi a Villa Arianna e a Villa San Marco, scrigni di straordinarie decorazioni, spesso a tema mitologico: celebre è divenuta la raffigurazione di una “venditrice di Amorini” e rievocata nel Settecento da diversi artisti neoclassicisti, Canova in primis. Ambedue le ville godevano di impianti termali privati e contavano architetture piuttosto raffinate: è il caso dell’ampio cortile con piscina di Villa San Marco, arricchito da un ninfeo decorato con stucchi e mosaici. La meticolosa cura degli spazi comuni rispecchiava lo scopo delle residenze stabiane: godere del tempo libero alternando momenti di svago ad altri di dolce far niente. Anche questo eden balneare venne spazzato via dall’eruzione del 79 d. C. L’area riuscì più tardi a risollevarsi, con la formazione di un nuovo tessuto urbano che diverrà il nucleo del comune di Castellammare di Stabia. La terza perla del golfo, Oplontis, sorgeva poco più a nord di Stabia, dove oggi è sita Torre Annunziata. Il suo nome appare per la prima volta nella Tabula Peutingeriana, riproduzione medievale di una mappa del sistema viario romano. Anche qui sorgevano grandi residenze in cui poter trascorrere e godere dei sereni momenti di otium. Celebre è la Villa di Poppea, di cui si ricorda sia una pianta articolata, in un susseguirsi di giardini e portici, sia per i raffinati affreschi dai mille pigmenti, tra i meglio conservati di tutta l’area. Nemmeno qui mancarono i lussuosi spazi termali. I più suggestivi centri balneari del Golfo, già vittime di tremende scosse di terremoto, “avvertimento” inascoltato, sparirono con l’eruzione vesuviana, nel corso della quale il cielo si coprì di nubi infuocate e il suolo bersagliato da lapilli e pomici incandescenti. Drammatico fu il destino riservato dalla sorte a Ercolano, situata a est del vulcano, a differenza di Pompei, Stabia, Oplontis, che invece erano a sud. Nelle prime fasi dell’eruzione, la città rimase illesa, vi piovve solo un po’ di cenere, dando il tempo di ragionare agli abitanti su come allontanarsi prima che la situazione precipitasse. La decisione fu per la spiaggia e la conseguente fuga in mare. Per molto tempo si è ritenuto che quella scelta avesse salvato la vita a molte persone. Ma negli anni Ottanta del secolo scorso sono spuntati a grappoli i resti di scheletri umani, concentrati nella zona portuale e spesso abbracciati drammaticamente l’uno all’altro. Le ipotesi non furono quindi confermate. Accadde che, ore dopo l’eruzione, la gigantesca nube nera salita al cielo, su e su per molti chilometri, iniziò a “collassare”, lungo le pendici del Vesuvio si formò una nube letale – o colata piroclastica – lanciata a 100 km/h e ricca di gas potenti e frammenti di magma. Sulla spiaggia si ritrovarono senza speranza, vaporizzati a oltre 500 gradi all’interno dei fornaci e inghiottiti dalle ribollenti onde del mare. Il vulcano alla fine si riaddormentò. I materiali caduti andarono solidificandosi sino a creare un rivestimento naturale che favorì il conservarsi di quanto rimaneva dei luoghi martoriati dalla furia della montagna. Le vestigia degli antichi centri abitati cominciarono a venire alla luce nel XVIII secolo, in epoca borbonica, la cui scoperta, nel 1709, fu accolta con entusiasmo in tutta Europa. Nel 1748 si cominciò a scavare anche a Stabia (l’anno prima era toccato a Pompei) mentre la riscoperta di Oplontis prese piede nel 1839.
Il lavoro degli archeologi si è intensificato dal XX secolo. Numerosi sono i visitatori desiderosi di scoprire la storia di quei paradisiaci luoghi di villeggiatura tanto amato dai Romani di duemila anni fa. Il catalogo della mostra è edito da Silvana Editoriale .
 
Palazzo Madama Torino
Invito a Pompei
dall’8 Aprile 2022 al 29 Agosto 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Martedì Chiuso