Giovanni Cardone
Fino al 18 Settembre 2022 si potrà ammirare presso Villa Pignatelli Casa della Fotografia di Napoli la mostra Italia In Attesa progetto curato da Margherita Guccione e Carlo Birrozzi e promosso dal Ministero della Cultura e realizzato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea e dall'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, in collaborazione, per quanto riguarda l’appuntamento napoletano, con la Direzione regionale Musei Campania e il Museo Diego Aragona Pignatelli Cortés. Più di cento le fotografie esposte lungo un percorso pensato da Alessandro Demma, che si snoda nelle otto sale al primo piano di Villa Pignatelli, in un dialogo continuo tra storia e attualità, architettura e fotografia, tradizione e sperimentazione. Questo progetto è stato esposto per la prima volta nel 2021 nelle sale di Palazzo Barberini - Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma grazie a Flaminia Gennari Santori, approda ora a Napoli, alla Casa della fotografia di Villa Pignatelli, con un allestimento voluto da Marta Ragozzino.  La mostra Italia in Attesa. 12 sono dodici racconti fotografici, presenta, anche nell’allestimento site specific per Villa Pignatelli, le opere commissionate a fotografi fanno parte di una ampia ricerca dedicata alla creazione di un archivio visivo dell’Italia durante la pandemia, che ha permesso di comprendere come l’emergenza sanitaria ha influito sullo sguardo e sulla coscienza di alcuni dei principali narratori visivi italiani. Un tema, quello della grande crisi sanitaria, dell’isolamento e del distanziamento sociale, al centro anche dell’VIII edizione del concorso “Un’Opera per il Castello” vinto da Letizia Calori con l’opera “Stringimi prendimi abbracciami toccami tienimi” che, nell’ambito del PAC- Piano dell’Arte Contemporanea, ha invitato giovani artisti a condividere l’esperienza della separazione fisica per realizzare un’opera destinata alle collezioni permanenti di Castel Sant’Elmo - Museo Novecento a Napoli. In una mia ricerca storiografica e scientifica sull’Italia durante la Pandemia apro il mio saggio dicendo : La pandemia è un fenomeno ricorrente nella storia della civiltà umana, quando l'essere umano ha iniziato a organizzarsi in società e le specie animale e vegetale sono state rese "domestiche", le malattie hanno iniziato a ricoprire un ruolo rilevante proprio perché i patogeni si sviluppano a partire da agglomerati di persone. Nel corso della storia, anche a causa della crescita della popolazione mondiale, diverse sono state le pandemie che si sono diffuse e hanno colpito varie regioni del pianeta; quasi tutte sono state generate da zoonosi, trasmesse dagli animali all'uomo tramite mutazioni genetiche. I virus che arrivavano nei piccoli villaggi costruiti nelle foreste si estinguevano in fretta poiché gli spazi erano molto dilatati, mentre nelle città del Medioevo europeo, che erano sporche e affollate, si espandevano ovunque. Nel periodo dell’urbanizzazione di massa gli allevamenti intensivi presenti vicino alle grandi città e i sempre più grandi mercati di animali hanno fatto delle vere e proprie stragi, causando milioni e milioni di vittime nel corso dei secoli. Ricordiamo la Peste ateniese, negli anni 430-426 a.C., durante la guerra con Sparta che causò 70-100 mila vittime, la Peste Antonina, negli anni dal 130 d.C. in poi, arrivata a Roma dopo la campagna contro i Parti che causò 5-10 milioni di vittime, la peste di Giustiniano negli anni 541-542 d.C. fino ad arrivare al 750 d.C., portata in Italia dai soldati che tornavano in patria dopo una campagna militare e che erano entrati a contatto con una nave proveniente dall’Etiopia carica di ratti; questa peste, che causò 50-100 milioni di vittime, determinò la fine dell’impero d’Oriente .Una tra le più grandi pandemie della storia fu la Peste nera (dal 1346 al 1353), che colpì quasi tutto il continente europeo causando 25-100 milioni di vittime. La peste si può considerare l’esempio più emblematico di epidemia non solo per il numero di morti che causò, ma per la capacità di riuscire a influenzare le mentalità e i comportamenti umani della società del tempo sia nel breve che nel lungo periodo.
L’impatto fu molto forte, la società europea fu colta alla sprovvista, per gli italiani questa malattia era quasi sconosciuta poiché era sparita dai tempi della peste di Giustiniano del 541 d.C.; la causa e il suo trattamento erano ancora ignoti, solo secoli dopo venne scoperta l’origine animale, sempre derivante dalle pulci dei ratti che durante il Medioevo vivevano a contatto con le persone all’interno delle città e si spostavano addirittura da una città all’altra tramite mezzi di trasporto, come le navi, portando e diffondendo così il virus in tutta Europa. Negli anni successivi la società europea imparò a convivere con questa malattia, si cercarono sistemi per poter contenerne la diffusione in caso di nuove ondate, quali la realizzazione di istituzioni sanitarie efficienti e organizzate; infatti nei secoli successivi, le epidemie pestilenziali che si verificarono ebbero conseguenze decisamente meno gravi grazie ai nuovi provvedimenti attuati . L’Ottocento fu invece caratterizzato dalla diffusione del colera, una malattia endemica di origine asiatica che si diffuse poi in tutto il mondo a causa degli spostamenti militari e commerciali tra l’Inghilterra e l’India. Ancora oggi questa malattia è presente in molti paesi in via di sviluppo in cui le condizioni igienico-sanitarie sono scarse e il batterio trova quindi le condizioni favorevoli per sopravvivere all’ambiente. Gli interventi necessari per debellare la malattia riguardano infatti la gestione dell’acqua tramite adeguati sistemi di depurazione e il corretto funzionamento del sistema fognario, ma anche l’agricoltura, la pesca e l’educazione alla salute. L'epidemia scoppiò anche in Italia per la prima volta tra gli anni 1835-1837, colpì in maniera violenta poiché nelle città vi era mancanza di igiene pubblica e privata e le istituzioni sanitarie non erano organizzate; molti quartieri delle città ottocentesche erano angusti e malsani, l’acqua potabile non era presente e le strade erano invase da rifiuti di ogni genere. Il rapporto che intercorreva mancanza di igiene dell’ambiente urbano e rischio epidemico portò le istituzioni urbane a ricorrere a interventi per poter fronteggiare la diffusione dell’epidemia . Il Piemonte e in particolare Torino venne colpito dall’epidemia proprio nel 1835, l’amministrazione comunale decise di intervenire a favore del risanamento di alcuni quartieri, come il “Moschino” ad esempio, un quartiere povero che si estendeva lungo il Po tra l’attuale piazza Vittorio e corso San Maurizio, chiamato così perché era infestato da zanzare e moscerini, che era stato colpito dal virus in maniera violenta; negli anni Settanta dell’Ottocento, divenne poi un piacevole luogo di passeggio lungo le sponde del Po, quello che oggi chiamiamo Murazzi. Fece scalpore l'epidemia che scoppiò tra gli anni 1884-86 che colpì la città di Napoli. Nel libro reportage Il ventre di Napoli, Matilde Serao scriveva: “Non bastano 4 strade attraverso i quartieri per salvar la città. Non si possono certamente lasciare in piedi le case lesionate dall’umidità, dove al piano terra vi è il fango e all’ultimo piano si brucia dal calore in estate e si gela d ‘inverno, dove le scale sono ricettacoli di immondizia e nei cui pozzi si attinge acqua corrotta. Si mangia nella stanza da letto ed è qui che si muore. Quartieri senza aria, senza luce, senza igiene; chi arriva a Napoli ha la sensazione di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case tutte in altezza, di decadimento e sudiciume”. A seguito di una serie di denunce sulle pessime condizioni igieniche della città, il Governo istituì un piano di risanamento delle zone più degradate della città di Napoli che prevedeva l’abbattimento di vie e quartieri a favore di piazze e strade molto più ampie. L’intervento venne molto criticato poiché numerosi palazzi storici furono rasi al suolo; il lato positivo di questo intervento però fu la pianificazione e la realizzazione di una rete fognaria volta a contrastare l'inquinamento del suolo tramite le infiltrazioni delle acque infette . La pandemia più spaventosa fu la Spagnola del 1918-1920, esplosa alla fine della Prima Guerra Mondiale, poco più di cent’anni fa. Venne chiamata cosi perché la Spagna era rimasta neutrale durante la guerra e i quotidiani spagnoli diffondevano le notizie su questo virus liberamente, mentre nei paesi coinvolti nel primo conflitto mondiale la stampa era sottoposta a censura (Donna, 2020). Questo virus iniziò a diffondersi in tutto il mondo in concomitanza con gli spostamenti delle truppe militari da un continente all’altro e trasmesso tramite uccelli o suini dal virus H1N1. La Spagnola causò fra i 50 e 100 milioni di morti in tutto il mondo, solo in Italia morirono 600 mila persone causando un impatto demografico molto marcato sulla popolazione complessiva .Non si conoscevano cure per poterla contrastare, se non le conoscenze che si avevano contro la febbre che furono quasi del tutto inutili; le istituzioni sanitarie cercarono di contenere il virus con l’isolamento dei malati più gravi all’interno di edifici pubblici, che erano stati adibiti a ospedali; non vennero però adottate particolari misure preventive o di contenimento, solo il personale sanitario faceva uso delle mascherine durante la cura dei malati. Arrivando all’ultimo secolo, un’altra epidemia che si diffuse fu l’influenza asiatica, il primo caso si registrò in Cina nel 1956 per poi diffondersi in tutto il mondo. Il virus, di origine aviaria, durò due anni uccidendo 1 milione di persone in tutto il mondo. Una decina di anni dopo, nel 1968 comparve un nuovo ceppo di influenza, l’influenza di Hong Kong, una variazione del virus precedente che causò anch’esso 1 milione di vittime in tutto il mondo. Il 2003 fu caratterizzato dall’arrivo della Sars, una sindrome respiratoria acuta grave, appartenente alla famiglia del coronavirus. La Sars di origine aviaria, si diffuse a partire dalla Cina, per mezzo di anatre selvatiche, e fu molto contagiosa ma molto meno letale rispetto alle pandemie dei secoli precedenti, causando 8.200 vittime in tutto il mondo. Arriviamo così al 2020 in cui ci troviamo a fronteggiare il nuovo coronavirus SARS-CoV2 responsabile della malattia respiratoria ora denominata Covid-19 . I primi casi si sono riscontrati tra ottobre e novembre del 2019 nella città di Wuhan in Cina, ma il governo cinese promulgò la notizia solo a gennaio quando ormai il virus stava circolando da almeno due mesi nel mondo. Il Covid-19 si è ormai diffuso in tutto il mondo, se nel ‘300 furono le navi a diffondere la peste, oggi sono stati gli aerei e i molteplici mezzi di trasporto a esso connessi a spargere la pandemia in tutto il mondo. Quella che stiamo fronteggiando non si può definire tra le peggiori pandemie della storia dell'umanità, questo probabilmente grazie alle misure di contenimento che sono state adottate in quasi tutto il mondo e chiaramente anche grazie alle migliori condizioni di assistenza sanitaria presenti rispetto al passato. Oggi, così come nei secoli passati, le pandemie sono state modificatrici dei comportamenti umani, hanno trasformato, stanno trasformando e presumibilmente trasformeranno le società e le istituzioni in cui sono comparse e, di conseguenza, è probabile che influenzino anche il modo di progettare le città. Durante il XIX secolo, la Rivoluzione Industriale determinò una rapida crescita delle metropoli, con conseguente aumento di ambienti malsani e possibilità di contrarre infezioni e malattie; per poter fronteggiare queste ultime, vennero introdotte le prime leggi urbanistiche per dare alle case dimensioni maggiori e ottenere quindi più luce e dare maggiore ariosità agli spazi. Sul campo della progettazione alcune migliorie vennero attuate nelle grandi città, ad esempio a Londra un’infrastruttura sanitaria, il Metropolitan Board of Work venne progettato da Frederick Marrable, a Parigi il Barone Haussmann contribuì all’opera di rinnovamento della città, a New York venne realizzato il tutt’ora noto Central Park ispirato al Greensward Plan di Frederick LawOlmsted  Nel corso del XX secolo, come reazione all’influenza spagnola e alla precedente epidemia di colera, si sviluppò l’architettura modernista di stampo purista. Le forme pulite e sottili di AlvarAalto e Adolf Loos andarono a sostituire tutti quei disegni ornamentali intagliati nel legno, che accumulavano polvere e batteri. L’igiene e la pulizia che per Le Corbusier erano elementi inscindibili della pianificazione delle città divennero infatti l’emblema dell’architettura modernista. L’esigenza di maggiore ventilazione e luce naturale nei luoghi al chiuso portò diversi progettisti a progettare nuovi modelli di edilizia scolastica e sanitaria; ne è un esempio la Corona School che venne ampliata da Richard Neutra dopo aver perso il padre ammalato di spagnola. La luce e l’aerazione naturale venne ottenuto, tramite l’utilizzo di pareti scorrevoli in ferro e vetro senza soluzione di continuità tra l’interno e l’esterno, con presenza di zone che affacciano verso giardini delimitati da siepi. L’utilizzo di nuovi sistemi di ventilazione, l’incremento di zone verdi e spazi più ariosi, l’uso di materiali antibatterici rappresentano soltanto alcune delle migliorie che sono state messe in atto nei secoli passati per fronteggiare l’impatto delle malattie; possiamo dire che la malattia è ciò che ha modernizzato l'architettura e ha portato all’affermarsi dell’idea di città contemporanea e della disciplina dell’urbanistica .Spesso il contesto storico che stiamo vivendo è stato paragonato a un evento guerresco, in passato in una situazione post- bellica in cui parti di città erano rase al suolo era necessario partire dalla ricostruzione di esse, oggi invece è necessario ripartire dall’organizzazione delle città e delle società che vivono al loro interno. Molti fotografi, in questo strano e surreale momento storico, stiamo sentendo il bisogno di raccontare quello che ci sta accadendo. Chi ama la fotografia sa bene cosa intendo. L'emergenza Covid-19 oltre alle gravi conseguenze sulla salute della popolazione, sul sistema sanitario e sui sistemi economici, sta contribuendo a modificare una serie di dinamiche socio-spaziali che nessuno avrebbe potuto immaginare. Il lockdown ha imposto una netta separazione tra spazio pubblico e privato, generando atmosfere surreali, quasi inverosimili, sia all’interno delle abitazioni che all’esterno; la casa è diventata una sorta di esperienza abitativa esclusiva per miliardi di persone, il contenitore di tutte le nostre sfere sociali, il luogo in cui siamo stati obbligati a rimanere e che ha generato in molti di noi sentimenti contrastanti, talvolta di conforto e talvolta di scoraggiamento. Dalle finestre delle nostre case le strade, le piazze e i giardini ci apparivano deserti e immobili, privi di quell’energia che da sempre li ha contraddistinti; il mondo esterno sembrava essersi fermato, le metropoli sembravano essersi volatilizzate, le città sembravano essersi ritirate e svuotate di tutte le funzioni che prima le caratterizzavano; le città che da sempre sono state sinonimo di vicinanza, aggregazione, sinergia e adiacenza dei suoi abitanti con i servizi ad essa connessi, in questa situazione di emergenza appaiono come carcasse senza vita, vuote, desolate, prive di energia . Le misure di contenimento dell’epidemia attuate nel nostro Paese e in molte altre parti del mondo hanno portato a una limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali senza precedenti; per la prima volta dal periodo del dopoguerra in Europa, è stata imposta una limitazione della libertà di movimento, al quale si è aggiunto il distanziamento sociale. La forzata reclusione ha causato in molte persone una necessità maggiore di riappropriazione dello spazio esterno; mai come in questo momento abbiamo rimpianto la dimensione fisica, sociale e umana nel rapporto con gli altri e con il contesto urbano; per l’essere umano il distanziamento rappresenta una forma di vita innaturale che entra in conflitto col bisogno naturale di connessione e legami sociali Le misure di distanziamento hanno messo a dura prova le abitudini delle persone, in particolare quelle che riguardano la distanza interpersonale tra le persone. Il termine prossemica è stato coniato per la prima volta dall’antropologo americano Edward T. Hall nel 1963 ed è una disciplina che studia il comportamento sociale dell’uomo e lo spazio che un individuo frappone tra sé e gli altri. Durante la pandemia, nonostante i cittadini abbiano avuto un comportamento resiliente e si siano adattati alle restrizioni imposte per fronteggiare il contagio, con la progressiva riapertura, in alcuni spazi della città come locali, luoghi di movida non è stato però possibile rispettare le norme di distanziamento sociale, questo perché sono luoghi che si basano sul concetto di socialità e la distanza imposta corrispondente in parte a quella personale e in parte a quella sociale sopra descritte diventa difficile da mantenere, risulta essere innaturale per la tipologia di contesto in cui ci si trova. Nel 1851, il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer ci parla del principio della giusta distanza e utilizza la figura del porcospino, per costruire una metafora sulle relazioni umane: “Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono il dolore delle spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali: il freddo e il dolore. Tutto questo durò finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione” (Marco, 2020). Questo pensiero può rappresentare quindi un suggerimento per il futuro, di intendere la distanza che ci è stata imposta in questo periodo di emergenza come un punto di partenza da cui riorganizzare le nostre relazioni sociali e ripensare le configurazioni spaziali all’interno delle città tenendo conto delle criticità che le forme insediative attuali hanno messo in luce a seguito della pandemia. La pandemia ha infatti messo in luce la correlazione che c’è tra la salute umana e la coesione sociale e quale implicazioni essa può avere sul benessere della popolazione. Diversi sono i livelli di coesione sociale all’interno dei contesti urbani, le relazioni di vicinato rappresentano uno degli elementi chiave per la vivibilità dei quartieri e la tutela dell’ambiente. Prima, durante e dopo una crisi, la coesione sociale e in particolar modo le relazioni di vicinato rappresentano elementi importanti per la salute della popolazione. Prima di una crisi, concorrono alla prevenzione della salute della popolazione poiché sono legati alle condizioni abitative, agli stili di vita e alle abitudini; oltre che sulla salute umana posso influire anche sulla tutela dell’ambiente attraverso la gestione dei consumi energetici e dei rifiuti. Durante una crisi, la coesione sociale gioca un ruolo fondamentale. Attualmente è stato imposto l’obbligo della distanza sociale di sicurezza, come misura per contrastare la diffusione del Covid-19; essa non deve però essere segno di disgregazione sociale, poiché può avere profonde ripercussioni sulla salute umana. Al contrario la coesione sociale permette di organizzare meglio l’isolamento della quarantena e ridurre i fattori di rischio in mancanza di servizi territoriali; Il lockdown ha favorito però un maggiore sviluppo dei rapporti di vicinato e ciò lo si può riscontrare in piccoli gesti della quotidianità per esempio, in cui i giovani che abitano all’interno di un condominio si offrono di andare a fare la spesa o fare delle commissioni per le persone più anziane o con maggiori difficoltà . La coesione sociale permette alle persone di adattarsi alle disposizioni imposte per prevenire la diffusione del contagio, funge da rimedio a situazioni particolarmente critiche e vulnerabili, riduce inoltre la necessità di spostamenti vincolati liberando così spazio e tempo per la mobilità attiva. Già prima della pandemia erano evidenti i rischi legati alla crescita urbana, ancor di più adesso la pandemia ha messo in luce la relazione tra le condizioni abitative e di salute che in alcuni casi favorisce la formazione di focolai, con conseguente rischio per l’intera popolazione; la lotta alla povertà appare quindi necessaria alla tutela della popolazione. La coesione sociale deve rappresentare per il futuro un importante elemento per l’attenuazione dei rischi connessi alla qualità delle condizioni abitative e quindi per lo sviluppo urbano . La tecnologia ha inoltre permesso di ridurre il “distanziamento sociale” che ci è stato imposto, grazie all’utilizzo di mezzi di comunicazione telefono, computer, televisione, smartphone in grande diffusione negli ultimi decenni; con essi è possibile mantenersi informati e restare connessi con le persone con cui si è separati fisicamente. Più propriamente possiamo parlare quindi di "distanziamento fisico" anziché di "distanziamento sociale", quest’ultimo rappresenta una forma impropria di riferirsi a un distanziamento spaziale e individuale necessario per la riduzione del contagio. Analogamente gli autori di “ITALIA IN-ATTESA”, selezionati da un Comitato Scientifico presieduto da Margherita Guccione (Direttore MAXXI Architettura) e composto da Simona Antonacci (Collezioni fotografia MAXXI), Carlo Birrozzi (Direttore dell’ICCD), Pippo Ciorra (Senior Curator MAXXI Architettura), Fabio De Chirico (Dirigente DGCC), Matteo Piccioni (Storico dell’arte DGCC), hanno realizzato progetti fotografici che raccontano il vuoto e la sospensione nella vita ordinaria in un momento straordinario come il lockdown. Un racconto per immagini, corale e polifonico, della situazione vissuta nei mesi più cupi della crisi sanitaria, un alfabeto visivo per riscrivere la storia di un periodo breve, ma lungo come una eternità. L’attesa di un tempo nuovo, la speranza di una visione in grado di superare il tempo dilatato, infinito e vuoto, l’esigenza di riscoprire il paesaggio, la natura, l’architettura, gli spazi pubblici, le opere d’arte, gli oggetti comuni mai visti prima dagli sguardi inattesi di dodici fotografi italiani, che hanno imprigionato nei loro scatti la “durata”, intesa come spazio in cui l’io vive il presente e nel presente, con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro. “Italia in-attesa” rappresenta una delle tre azioni, distinte ma complementari, del progetto 2020FermoImmagine ideato e organizzato dal MiC con il coordinamento della Direzione Generale Creatività Contemporanea - insieme alla mostra “Città sospese. I siti italiani Unesco nei giorni del lockdown” e “REFOCUS”, open call per fotografi under 40, lanciate nel 2020 per indagare l’Italia durante le misure di contenimento dell’epidemia. Le immagini e le fotografie prodotte per “Italia in-attesa” sono parte delle collezioni dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e sono state inserite all'interno di un fondo dedicato alla documentazione del Paese nei mesi difficili dell’emergenza pandemica. Espongono i seguenti fotografi : Olivo Barbieri, Antonio Biasiucci, Silvia Camporesi, Mario Cresci, Paola De Pietri, Ilaria Ferretti, Guido Guidi, Andrea Jemolo, Francesco Jodice, Allegra Martin, Walter Niedermayr, George Tatge
 
Villa Pignatelli Casa della Fotografia Napoli
Italia In Attesa
dal 15 Luglio 2022 al 18 Settembre 2022
dal Lunedì alla Domenica  dalle ore 9.30 alle ore 17.00
Martedì Chiuso