Nella primavera del 2006 visitai la grande retrospettiva italiana che il
Madre di Napoli dedicava al suo lavoro. L’esposizione – nata dalla collaborazione tra l’artista, il direttore
Eduardo Cicelyn e il capocuratore
Mario Codognato – ricostruiva i quasi cinquant’anni di carriera artistica di Kounellis. E lo faceva attraverso opere e installazioni provenienti da musei, fondazioni e collezioni private di tutto il mondo. Nella mostra trovava spazio anche la narrazione del lungo sodalizio tra l’artista greco e la città di Napoli. Un sodalizio iniziato alla fine degli anni sessanta per il tramite della galleria di
Lucio Amelio e culminato, a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, con una serie di opere pubbliche e
site-specific. Come le fiamme alimentate a gas di
Piazza del Plebiscito (1995), oppure le scarpe allacciate a frammenti di rotaie nella metro di
Piazza Dante (2006).
Di quella mostra al
Madre è rimasta memoria nella stanza che il museo ha dedicato permanentemente a
Kounellis e che qui ha realizzato ancora un’installazione
site-specific. Lo spazio è bloccato longitudinalmente da una grande struttura di ferro, che lascia però trasparire la luce attraverso vetri in parte colorati, in parte monocromi. Sembra di essere in presenza di una versione contemporanea delle maestose vetrate delle cattedrali gotiche. Una grande ancora arrugginita poggia il suo peso – un peso che è evidentemente anche metaforico – sul pavimento della stanza, avviando una concatenazione di rimandi, anche storici, sul ruolo di Napoli e del suo affaccio sul mare.

Al pianterreno del
Madre, l’artista ha di nuovo esposto i suoi
Cavalli. L’opera originale è del 1969. In quell’anno, alla
galleria romana L’Attico di
Fabio Sargentini, Kounnelis espose dodici cavalli vivi. Gli animali erano ospitati negli spazi espositivi come fossero in una stalla. L’opera fece molto discutere per il gesto concettuale dell’artista, che consisteva nell’eleggere degli animali a oggetto d’arte. Inoltre l’opera poteva realizzarsi solo nella relazione con il pubblico. Dopo circa quarant’anni, l’installazione – e ciò non è accaduto solo a Napoli, ma anche in altre occasioni espositive internazionali – ha fatto ancora molto rumore! Ma rispetto agli anni sessanta, la prospettiva è un po’ mutata; purtroppo, non in meglio: a sollevare polemiche e denunce, stavolta, è stata la sensibilità animalista.
Io, benché ami molto gli animali, non ho provato sdegno. Ma per giorni e giorni, mi è rimasto addosso, in senso figurato e non, il tanfo irrespirabile della stanza! Eh già, a distanza di quarant’anni, quei
cavalli di Kounellis – visti tante volte in bianco e nero in fotografia – facevano ancora un certo effetto!
Jannis Kounellis era nato in Grecia, al Pireo, nel 1936. Ma, a vent’anni è già a Roma, dove studia all
’Accademia di Belle Arti sotto la guida di
Toti Scialoja. Roma diventerà la sua città. In fondo, è proprio qui che ha avuto inizio la sua avventura artistica.
Nel 1960, infatti,
La Tartaruga di
Plinio De Martiis ospita la sua prima personale,
Alfabeto.
Kounellis vi espone quadri fatti con una pittura
segnaletica, – lettere e numeri neri su fondo bianco – una pittura che nulla concede alle suggestioni dei mass-media, tanto care alle tendenze pop. Tendenze, quelle pop, delle quali
Kounellis mai subirà il fascino. Di queste lettere e numeri
Maurizio Calvesi ha detto che “(…) avevano già una perentoria, secca presenza: quale resterà un suo (di
Kounellis)

connotato di poetica, o di dura
economia dell’espressione, anche dopo che avrà abbandonato la pittura per intraprendere un altro cammino, straordinariamente fecondo di novità e invenzioni”.
Durante quel decennio l’artista inizia ad appropriarsi di altri modi di fare arte, usa molteplici tentativi
per uscire dal quadro. Sono tanti gli artisti che, in questi anni, stanno percorrendo la via dell’uscita dal quadro, secondo gli involontari suggerimenti foriti dalle opere di
Alberto Burri.
A cascata, arriva una serie di mostre, tra collettive e personali. Siamo prima dei
Cavalli (1969) da Sargentini. L’anno di grazia è il 1967. La personale all’
Attico –
Il giardino – I giuochi – e, nella stessa galleria qualche mese dopo, la collettiva
Fuoco Immagine Acqua Terra, insieme alla più nota
Arte Povera e Im Spazio, organizzata da
Germano Celant alla
galleria La Bertesca di Genova, sanciscono la nascita dell
’Arte Povera.
La personale di
Kounellis all’
Attico è strutturata in due parti. Nella prima –
Il giardino – alcune rose di stoffa sono applicate con dei bottoni automatici

su una serie di pannelli, strategicamente accostati al fine di creare un
environment. Scrive
Alberto Boatto presentando la mostra che
“tra i diversi accorgimenti per dilatare l’arte fuori dal quadro e invadere lo spazio, Jannis Kounellis ne ha adottato uno dei più sottili e ironicamente affascinanti che io conosca: appuntando rose provvisorie per lo spazio”.
Nella seconda parte –
I giuochi – l’artista si presenta a terra sdraiato o seduto, circondato da specchi, davanti a tre trenini elettrici che correno su altrettanti binari, mentre i loro rumori vengono diffusi per tutta la stanza da microfoni. Siamo nell’era
performance. Una performance
povera. Ma, i giochi d’infanzia sono pure memoria, tempo. E quello della memoria è stato un tema assai caro all’artista greco durante tutta la sua carriera artistica.
Alla successiva
Fuoco Immagine Acqua Terra Kounellis partecipa con la
Margherita di fuoco – che, nella mostra incarna, però, l’elemento di
terra. Si tratta di un fiore stilizzato, dal cui cuore scaturisce una fiamma alimentata da un cannello a gas disposto a formare il gambo.
Gli anni poveristi sono caratterizzati da un dialogo serratissimo tra materiali naturali e artificiali e tra oggetti inanimati e creature viventi (iuta, pietre, legno, carbone, animali vivi come cavalli e volatili).

Gli anni settanta – e non solo per
Kounellis – sono all’insegna di un’arte intesa come evento e comportamento, fatta di
environments e
performances. Affascinato oltremodo dall’idea di rappresentazione,
Kounellis si è sempre considerato un uomo di teatro. Le esposizioni in giro per il mondo sono state per lui un succedersi di palcoscenici. Nulla nel suo atteggiamento
teatrale, però, ha in alcun modo avuto a che fare una forma di divismo.
Uno dei suoi interventi più recenti è stata proprio una rappresentazione teatrale, andata in scena nel luglio 2016 al
Centro Arti Visive Pescheria di
Pesaro. Un cavallo vivo attraversa una stanza. A terra, sul pavimento, giacciono abbandonati corpi ricoperti da teli bianchi. Un modo per parlare della morte. Il racconto della morte – qualsiasi forma prenda – per
Kounellis, appartiene alle responsabilità dell’artista.
A questo già immenso bagaglio artistico, a partire dagli anni ottanta, si aggiunge l’apertura verso un’estetica del frammento; allora, spesso, oggetti antichi – oggetti fatti dall’uomo – assumono un valore simbolico ed evocativo, un valore di memoria.
In questo modo possono essere letti alcuni interventi realizzati da Kounellis per la sua prima mostra in Cina nel 2011. Nel 2010, nell’ambito di un

progetto italo-cinese intitolato
Translating China, il
Today Art Museum di Pechino invita l’artista ad esporre.
Kounellis ha lavorato in Cina per circa un anno e mezzo e tutte le opere in mostra sono nate dal suo incontro-scontro
quasi fisico con Pechino e le sue innumerevoli contraddizioni. Nella metropoli cinese, infatti, sfrenati ritmi contemporanei e fascino antico coesistono.
Mi piace, a tal proposito, ricordare un’ultima volta
Kounellis attraverso un’opera in mostra a Pechino. Si tratta di un lavoro composto da venti pannelli sui quali sono applicati frammenti di porcellana antica, provenienti da diverse aree del paese e selezionati uno ad uno dall’artista. Questi
cocci sono che ciò che resta dei vasi e dei servizi da tavola che appartenevano alla classe borghese cinese, successivamente rastrellati in massa e distrutti dalle
guardie rosse di Mao durante la rivoluzione culturale (lo stesso genere di epurazione è avvenuto con i libri, messi al rogo).
Attraverso un accorto montaggio,
Kounellis riporta in vita le porcellane cinesi, senza snaturare però la loro condizione di frammenti. Per l’artista quest’opera
“una raccolta che diventa scrittura, una raccolta di memoria, è la scrittura di quello che non c’è più”.
La successione dei pezzi diventa un modo per mostrare le cose che mancano. Anche quest’operazione manifesta un grosso atto di responsabilità.
di
Giorgia TERRINONI Roma 17 / 2 / 2017