Nato a Audierne, in Bretagna, nel 1943, Jean Pierre Velly scomparve prematuramente nel 1990. Si era trasferito a Roma nel 1966, vincendo con il bulino
La Clef des Songes il
Grand Prix de Rome per l’incisione
, dopo aver frequentato la
Scuola di Belle Arti di Tolone e la
Scuola Nazionale Superiore di Belle Arti di Parigi. Tre anni di soggiorno a
Villa Medici, sotto lo sguardo di
Balthus suo direttore, lo spinsero a scegliere di rimanere in Italia e a stabilirsi a Formello vicino a Roma, dove dedicò la sua breve vita al disegno, all’incisione e alla pittura.
Aveva iniziato, Velly, la sua carriera presso una delle gallerie più prestigiose di Roma, la
Don Chisciotte di
Giuliano de Marsanich, per continuare alla
Gianferrari di Milano e alla
Sanseverina di Parma. Non immaginava, Velly, che nel 1986,
Olivetti gli avrebbe affidato la magnifica serie di tavole floreali ideate per il calendario di quell’anno, grazie agli autorevoli riscontri critici di
Leonardo Sciascia,
Mario Praz,
Jean Leymarie,
Marisa Volpi,
Roberto Tassi,
Vanni Scheiwiller, e
Alberto Moravia che scrisse: “
Velly ha reso il mistero dell’infinito tanto più misterioso grazie alla precisione delicata con cui ha rappresentato il mistero parallelo e contemporaneo del finito”.

In trent’anni di attività professionale, Velly entrava nel pantheon degli artisti veri, quelli che non seguono e non passano di moda. Sottolinea
Pier Luigi Berto, uno dei curatori della mostra, che “
gran parte della produzione di quest’artista consiste nella rappresentazione d’incisioni, prevalentemente a bulino e ad acquaforte, e disegni di elaborazione raffinatissima, ma per genere ed esecuzione poco adatta a essere divulgata al di fuori di una ristretta cerchia di ammiratori, ed anche le sue realizzazioni pittoriche, al pari intimiste e poco spettacolari, non sono apprezzate nella giusta misura se non da un pubblico di intenditori”.
La produzione di Jean-Pierre Velly può essere divisa in due periodi. Il primo, dal 1961 al 1972 circa, è quasi interamente dedicato all’incisione, eseguita a bulino e ad acquaforte su zinco poi su rame, e stampata in bianco e nero. Il secondo periodo, dal 1972 al 1990, vede la produzione calcografica calare, e far spazio gradualmente a opere su carta a punta d’argento, a grafite, a inchiostro, ad acquarello.
La mostra non espone, se non parzialmente, in maniera didascalica la cronologia dell’opere ma esamina con grande acutezza e diligenza la poetica di Velly, anticipata dalla
Melencolia di
Dürer, che apre il percorso espositivo. Il rapporto con tra la tradizione, tra passato e presente, è “
già vivo dai tempi dell’apprendistato”, scrive
Marco Nocca che, con
Berto e la
Mariani, ha curato la mostra, “
Velly sembra consacrarsi all’arte nordica, come dimostra un album di studente dove diversi fogli di appunti sono da lui dedicati ad una sintesi di storia dei Paesi Bassi, con un elenco degli artisti che hanno colpito la sua immaginazione: Rubens, Van Dick,
Martens de Vos, David Teniers, Veermer o Rembrandt”.
Le incisioni, i disegni, i dipinti prendono il visitatore per mano e lo introducono nel mondo interiore dell’artista, che, nelle visioni di raffinato intellettuale, delinea nella minuta, maniacale precisione realistica del microcosmo i grandi temi del macrocosmo.
L’itinerario della mostra si sviluppa in tre sale, a cui sono stati assegnati i nomi dei tre stadi della trasformazione alchemica. La prima sala,
Nigredo, allude allo stadio della trasformazione della materia: qui è Velly stesso, artefice e iniziatore della creazione, ad accogliere i visitatori con una parete dedicata ai suoi celebri
Autoritratti, riflessione interiore, sulla tela e sulla carta. Il processo ideativo dell’artista si precisa attraverso il confronto tra disegni preparatori inediti e prove di stato: dalla “notte eterna dell’universo” emergono le sue magnifiche visioni, le straordinarie incisioni a bulino, che ritrovano il bianco e la luce con stupore, sottraendoli al buio. In una conversazione con
Jean-Marie Drot, registrata a
Villa Medici qualche mese prima della scomparsa, Velly così sintetizzava il suo percorso artistico: “
Ho cominciato il mio cammino nell’arte disegnando, dipingendo, ma finalmente, ho scelto il più povero dei linguaggi, l’incisione, il nero, il bianco, il punto. Il bianco è l’accettazione di tutti i raggi solari; il nero la loro negazione totale”.
In questa prima sala, colpisce, tra gli altri, per abilità tecnica e per laica interpretazione iconografica
Le Massacre des Innocents, un’opera del 1970-71 che dimostra una visione escatologica e apocalittica dell’esistenza, un angosciante groviglio di corpi in corsa affannata verso il nulla, sullo sfondo di una terra desolata, come ben descrive
Giovanna Scaloni, autrice delle schede di catalogo.

Una villa delle meraviglie, incastonata tra le colline, e un grande accumulo di rifiuti è il tema di
Suzanne au bain (1970), dove, scrivono
Pierre e Julie Higonnet, “
l’uomo si smarrisce nella natura spesso minacciosa, in cui non è altro che un elemento minuscolo fra gli altri”.
La seconda sala,
Albedo, che rimanda alla purificazione della materia, ospita il nucleo di acquerelli e i disegni a punta d’argento, tecnica dei maestri rinascimentali.
Sono qui esposte alcune opere, realizzate a tecnica mista, già presentate alla
Galleria Don Quisciotte nel 1980, pubblicate nel catalogo
Bestiaire perdu, nel quale le immagini erano accompagnate da alcuni versi dello stesso artista, tradotti in italiano da
Lucio Mariani, sotto lo pseudonimo di
Luca Valerio. Si tratta di una serie di ritratti di animali e insetti ripugnanti, reietti, allontanati dall’uomo. Talvolta gli insetti sono disegnati con uno spillo che li trafigge, o appesi su uno fondo come
Oubliez mes incisives (1979), dove alcuni versi scritti a lato del topo ritratto, l’artista paragona l’esistenza del topo a quella di un essere vivente qualunque, uomo compreso.
Alla relazione con l’albedo viene avvicinata anche la serie dei
Fiori, umili erbe dei campi, anche spinose spesso “non finite”. È il caso di
Rovi (1983) per il quale, sulla costante, armoniosa dialettica tra il finito e l’infinito nelle opere di Velly,
Moravia ebbe a scrivere: “
Velly ha reso il mistero dell’infinito tanto più misterioso grazie alla precisione dedicata con cui ha rappresentato il mistero parallelo e contemporaneo del finito”.

La terza sala,
Rubedo, offre una selezione dell’opera pittorica, approdo finale e rasserenante. “Con i colori” diceva Velly “mi piace poter raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma l’umanità continuerà”. La raffinata tavolozza della serie dei fiori, si fa più scura e densa in opere come
Bucranio (1986), soggetto sperimentato anche nelle incisioni del 1970;
Tramonto verde (1989), già avvicinato agli esiti paesaggistici di
Corot e
Turner; Avant l’ombre (1986), dove la scelta di porre una finestra come diaframma tra uno spazio interno presupposto e il paesaggio, riprende un espediente impiegato nell’arte del secondo Quattrocento e Rinascimento, cui Velly si riferiva spesso.
Sul tema della finestra si sofferma
Ginevra Mariani nella bella intervista a
Giuliano de Marsianich, che ricorda il viaggio a Parigi nel 1982 dove alla
FIAC, la fiera d’arte contemporanea che si teneva al
Grand Palais, Velly con gli acquerelli dei fiori vendette tutto perché “quei fiori parlavano un linguaggio universale”. Il linguaggio della natura che “Velly”, scrive
Vittorio Sgarbi nel contributo in catalogo, “sente come un negativo di quello che appare, misteriosa per ciò che cela, per ciò che nasconde, specchio di una segreta intimità. Una natura sempre interiore”.

Jean-Pierre Velly fu un artista che si poneva in contrasto con le posizioni dominanti dell’epoca, e fu relegato, insieme a altri, in una nicchia che non dialogava né con una certa critica schierata né
con il grande pubblico.
Questa mostra non solo rivaluta la figura di un grande protagonista della storia artistica contemporanea, ma potrebbe probabilmente aprire la strada a una rivalutazione più attenta di quel discreto e silenzioso mondo artistico.
Consuelo Lollobrigida
Roma, 23 / 3 / 2016
Informazioni utili
Jean-Pierre Velly. L'Ombra e la Luce?
Roma, Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli
Roma, Istituto centrale per la grafica, Palazzo Poli
23 marzo al 15 maggio 2016?- martedì - domenica ore 10.00 – 19.00
Catalogo edito da L’Erma di Bretschneider, a cura di Pier Luigi Berto, Ginevra Mariani, Marco Nocca; introduzioni di Tiziana D’Acchille, direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma e Maria Antonella Fusco, dirigente ’Istituto centrale per la grafica.
schede di Giovanna Scaloni.
Ingresso libero