Un fantasma si aggira per il mondo della comunicazione, dell’arte e non solo. I ben pensanti, per non far torto ai mentori e ai discepoli della tecnologia, gli han dato un nome in fondo neutro ma già sottilmente ambiguo e minaccioso: AI, ovvero Intelligenza Artificiale.  Altri, una minoranza pressoché insignificante, non si esimono dal temerlo, come una sorta di accabadora, che accompagnerebbe la sofferente creatività, morente già di suo, verso l’estinzione.
La situazione è tale che l’AI , con il supporto delle sue legioni di algoritmi, si presenta attualmente a) come un’imperdibile opportunità (efficienza e produttività nel mondo del lavoro, innovazione, decisioni manageriali più attente ai contesti della logistica, della medesima assistenza sanitaria, ecc.) e b) come un grosso rischio (perdita di posti di lavoro, con conseguenti crisi sociali, decisioni influenzate da pregiudizi, preoccupazioni sulla privacy per il gran numero di dati richiesti dagli algoritmi, un’autonomia senza controllo, capace – non da escludersi – di rivoltarsi contro la stessa umanità).  Prospettive e rischi si intrecciano, pare di poter dire, in una danza su un piano inclinato al ritmo non proprio di un classico e trascinante valzer ma di una frenetica sarabanda. Solo il tempo, sospettoso e diffidente alleato dell’umanità, presumibilmente, è capace di riservare le sperabili più giuste soluzioni per quella che si presenta come una non facile incognita.
In modo pleonastico e ottimistico si può forse proferire: bene, e andiamo avanti.
Con l’espressione “andare avanti” lo scrivente vuole a questo punto dirottare il discorso – si spera in modalità non rovinosa – verso un ambito più proprio e più consono a considerazioni di tipo “estetico”. E qui non può non essere chiamato in causa l’accennata maxi-questione della creatività. È essa stessa l’affanno che si percepisce in tutto il mondo dell’arte: avanguardie vecchie e nuove non sono riuscite, a quel che pare, a restituire all’arte la dignità di espressione creativa regina.
Il XX secolo, consumati gli epigoni gloriosi dell’impressionismo francese e nonostante picchi di revanche ravvisabili in movimenti artistici pur ragguardevoli (espressionismo, futurismo, surrealismo, metafisica, ecc.) non ha potuto che registrare, con le molteplici manifestazioni d’arte moderna e contemporanea, la “fine” dell’arte classica, ovvero tradizionale, ovvero accademica. La montante onda della “contemporaneità”, con la sua carica di tensioni filosofiche, tutte o quasi ispirate alle valenze dell’esperienza e della realtà, ha compiuto strame, nel “secolo breve”, delle tradizioni; con ciò intendendo principalmente l’autorità apodittica delle istituzioni e, per l’arte, l’autorità delle accademie.
Sono celebrate, in altri termini, le esequie dell’ipse dixit. Sotto le bordate di un redivivo illuminismo (a proposito, non era stato Kant a reclamare l’inconsistenza della ragion pura a voler interpretare la realtà al di là dell’esperienza sensibile?), sono caduti, uno dopo l’altro, i bastioni della resistenza ad oltranza delle visioni d’antan e, attualmente, imperversano le forme più incredibili e impensabili della produzione d’arte figurativa e non solo.
Heidegger: nel suo sforzo di penetrare l’essenza dell’essere invoca la necessità di considerarlo qualcosa che è indissolubilmente imparentato coi nostri modi di pensare, di essere e di compiere azioni: una posizione apparentemente lontana, ma in grado di accogliere e di comprendere con maggior consapevolezza tutte le espressioni dell’arte contemporanea riconoscibili sotto l’unica etichetta di “arte concettuale”. Non è forse codesta, in tutte le sue molteplici espressioni  un tentativo di affrontare, interrogare con frenesia l’enigma o il mistero dell’essere?
Foucault: stendendo un velo protettivo sulle libertà individuali contro strapoteri d’ogni genere e origine, incanala l’attenzione sui rischi che, sotto tali insidie, l’essere, con la sua profonda e arcana essenza, sia in grado di sfuggire a tutti i più generosi, ben riposti tentativi di esplorazione e conoscenza, compresi quelli, in primis, degli artisti.
Vattimo: fa dell’arte e dell’estetica una capacità di vedere e di comprendere la realtà. Inutile pensare o addirittura credere nella possibilità di penetrare l’essere: il pensiero, nell’impossibilità di fare sintesi di dottrine estetiche diverse se non addirittura opposte, deve riconoscere la propria debolezza  appagandosi nel riconoscimento del pluralismo teorico e della varietà espressiva propria dell’arte. Rifiutando qualsiasi velleità di tipo metafisico e accettando la pluralità delle interpretazioni, egli addiviene a formulare l’ipotesi del pensiero debole quale cifra della modernità e quale volontà di accogliere il dialogo e il confronto con differenti prospettive investigative. A voler ben vedere, una formulazione filosofica del genere ben si acconcia ad accogliere una sorta di pacificazione dell’eterno problema ermeneutico: l’interpretazione della realtà, come dire del mondo e della stessa arte, non può essere motivo di contrasto, ma, semmai, prologo alla più civile convivenza e al più corretto uso del pensiero.
Queste, fra le tante, le voci filosofiche più rappresentative del mutato clima culturale e della conseguente mutata sensibilità estetica: attenzione alla realtà e contemporanei tentativi, in una ridda di espressioni artistiche, a volerne carpire l’enigma , il mistero, l’essenza, ovvero l’essere.
Sono gli artisti, allora – queste insonni sentinelle del pre-sentire umano – a raccogliere la sfida della ricerca del senso dell’essere. Pennelli, tela e colori, nel campo della pittura, divengono strumenti quanto mai arcaici se non addirittura simboli essi stessi di totale rigetto: lo statunitense Pollock se ne fa iconico araldo. Abbatte la medesima silhouette del “pittore davanti alla tela”:  è ben noto il suo fare gestuale. Il suo pennello, come in  Numero 31 (1950), diviene una lancia impregnata di mera vernice che proietta sulla tela, per lo più macroscopica e distesa sul pavimento, gocce, schizzi e quant’altri casuali segni, ove neppure un archeologo alla Indiana Jones riuscirebbe a scoprire un benché minima  alea d’un’immagine figurativa.
Già prima di lui, a spezzare l’incantesimo della “tela”, imbandita di tutto punto con le delizie delle cromie e delle forme tecniche tradizionali, s’era cimentato un altro disinvolto operatore, il francese Duchamp. Con il suo orinatoio , passato alla storia col meno imbarazzante titolo di Fontana (1917), aveva avanzato l’ipotesi di un’arte già pronta, rinvenibile anche tra gli oggetti d’uso più comune: la sfida all’artista “pantocrator” è scandalosamente lanciata e quello che risalta altrettanto manifesto è il ruolo – novità assoluta – richiesto all’osservatore, richiamato con forza mai vista a interloquire attivamente con l’artista in quella che, da allora, sarebbe stata indicata come “arte concettuale”.
La concettualità o, per dir meglio, la concettualizzazione si fa leitmotiv, è il caso di riconoscerlo, dell’arte di derivazione pittorica, nelle due principali categorie di arte installativa e performativa di tutto o quasi il XX secolo e, a tutt’oggi, non si avvertono sintomi di sorta circa sue cadute di espressione e significato. E, la si voglia vedere in tutte le sue sfaccettature (espressionismo astratto, dadaismo, pop art, arte povera, minimalismo, neo-espressionismo, street-art, ecc.) resta dominante questo suo carattere di arte interrogativa per eccellenza: un high appeal rivolto all’osservatore-fruitore e, a volte, attore;  quest’ultimo chiamato in causa in prima persona nel cimento delle riflessioni e delle idee che affollano la sala del pensiero contemporaneo.
Volendo offrire un esempio di artista votato fino all’estremo nella ricerca dei vizi della società di appartenenza, è impossibile fare a meno di citare Edward Kienholz (1927-1994).
In perfetta sintonia con la Beat Generation e metaforicamente muovendosi “Sulla strada” di Jack Kerouac (1957), Kienholz ne assimila il significato più latente di ansia di libertà, di desiderio di fuga dalle convenzioni sociali, di ribellione e rifiuto della cultura di massa. Come nel romanzo, in Kienholz si avverte il senso di alienazione tra spasmi di ossessione nella ricerca di  autentica autonomia. Libertà evidentemente non concessa a Kienholz, installatore ambientale e costruttore di assemblaggi, opere a senso unico di critica violenta dei costumi della vita contemporanea americana. Le sue installazioni più significative “The Beanery” (1965) e soprattutto “Roxy’s” (1962) si fanno spaccato in 3D  rispettivamente di degrado sociale, intravvisto in un bar (personaggi beoni, litigiosi, violenti) e in un bordello (in un ambiente squallido e inquietante, dove la sporcizia è di casa, personaggi grotteschi, deformi nel fisico e non solo, visti anche nello squallore della nudità, tra atti di depravazione bestiale e di quant’altro.
Keinholz è fedele fino alla fine dei suoi giorni a questo modo di intendere la società americana dei suoi tempi: l’ampolla gigantesca della clessidra stilla, non granelli di polvere microscopica ma sassi di critica sociale mai vista né antepost.
Anche la di lui morte, come da testamento, si fa spettacolo e memorandum di “arte concettuale”: la sua salma, imbalsamata, adagiata sul sedile anteriore della sua Packard del 1940, con accanto le “spoglie” degli oggetti che gli avevano dato sollievo in vita (un dollaro, un pacchetto di carte, una bottiglia di Chianti pregiato e le ceneri del suo cane), fu seppellita con gli ultimi rituali onori. Nella metafora artistica a lui più cara, si fa “oggetto usuale” egli stesso, alla stregua dei tanti arnesi scovati in discariche e ossessivamente collocati nelle sue ricomposizioni ambientali: mute presenze “artistiche” nel gran teatro installativo della sua furiosa e ossessiva fantasia estetica.

Settembre 2023
 
Luigi Musacchio