Non è dato discorrere “a freddo” dell'“Annunciata” di Antonello da Messina, come se si trattasse d'un atto comune o consuetudinario. Posto, tuttavia, il compito di “parlarne”, è d'uopo, per la difficoltà che lo stesso compito impone, farne motivo e luogo (preferibilmente con una copia del dipinto sotto lo sguardo) di debita pausa e – se non sembrasse eccessivo dirlo – raccoglimento. Non, come potrebbe forse apparire, per un momento di mistica e privata devozione alla stregua di chi si trovasse di fronte ad una sacra icona: nulla di tutto questo; ma perché resta lo sbalordimento per una così ardita composizione, mai prima vista, avente per oggetto il primo degli eventi nei quali si avvera il destino di una giovanetta chiamata a farsi privilegiata destinataria della nuova Parola e di un destino incomparabile: cioè l'“Annunciazione”. E, a questo solo pensiero, può accadere, al ben disposto osservatore, che tutto giri vorticosamente intorno a questa figura, anzi, intorno a questo sguardo a prima vista intensamente enigmatico.
Poi, però, tutto, o quasi, torna a fissarsi in quello che è: il ritratto di una giovane donna sorpresa al colmo di un mistero che la tradizione convenzionale, teologica o devota, non si stancherà di colmare di doviziosi e sempre coinvolgenti significati. Così, mentre la spirale del mistero si scioglie nella linea quasi retta di un accadimento “storico”, lo spirito indagatore si sorprende a volgere un doveroso pensiero all'autore di così grande meraviglia. Le cronache lo appellano Antonello da Messina (1430-1479). Può vantare gli stessi umili natali di Giotto: figlio di un tagliapietre studia a Napoli, dove, già assuefatto alla luminosità del paesaggio siculo, scopre la pittura della luce fiamminga; apprendimento che approfondirà a Venezia negli anni 1475-76. Gli basterà questo soggiorno per “perdersi” soprattutto nella grazia della pittura di Piero della Francesca e di Giovanni Bellini. Ne sono eloquente testimonianza i suggestivi “Ritratto d'ignoto” (1471), “Ritratto d'uomo” (1473), “Ritratto di condottiero”(1475), “Ritratto Trivulzio” (1476), tutti non più di profilo bensì ruotati a “tre quarti”, dagli sguardi di volta in volta espressivamente (sicilianamente) straripanti di arguzia, acutezza, tracotanza e fierezza. Così se i ritratti appaiono ricolmi di profondità psicologica e di austera prestanza, similmente nei ritratti di più ampia visione (“San Girolamo nello studio”, 1474), la struttura architettonica sovrasta la perfezione miniaturistica dei più piccoli particolari d'ispirazione fiamminga. Antonello non si perde, tuttavia, né nell'austera (a volte eccessiva) monumentalità della figurazione di Piero né nel freddo cromatismo della luce delle Fiandre. Ne consegue una pittura di singolare freschezza, armoniosamente conchiusa nella classica misura di sentore già rinascimentale.
 
V?è, tornando all'oggetto del presente scritto, qualcosa di trascendentale nella traduzione pittorica di un evento sovrannaturale. L'opinione corrente non si capacita nel vedere rappresentato, e in maniera prodigiosamente verosimile, un fatto d'inaudita e immensa sacralità, considerando che l'artista, per ricreare l'evento, può avvalersi solamente della potenza della sua immaginazione, pur godendo, a volte, di pochi indizi che gli provengono dalle sacre scritture.
In questo caso, quando l'artista è in grado di vergare con la sua opera le pagine alte della storia dell'arte, è possibile assistere a un profluvio d'invenzioni il più delle volte scaturite da un indomabile bisogno di rendere grazie alla “bellezza in sé” del dipinto, al suo contenuto simbolico, alla collocazione delle figure nella necessaria interazione armonica con lo spazio da rendere, perlopiù, prospetticamente. Da questo versante, può essere forse utile prestare lo sguardo ad alcune, tra le tante, opere significativamente “illustrative” raffiguranti, appunto, il soggetto dell'“Annunciazione”.
 
Apre la sequenza — ma solo per farla breve — l'affresco in due riquadri, distinti e opposti, di Giotto (1304) presente ai lati dell'arco di trionfo presso l'altare della Cappella degli Scrovegni a Padova. L'“abisso spaziale” che intercorre tra le due figure modellate a pieno volume è annullato dalle parole rivelatrici e forse “gridate” dell'arcangelo Gabriele, che colpiscono Maria nella serena quiete della sua stanza. Lei appare genuflessa, le mani incrociate sul petto, devotamente disposta ad offrirsi alla scelta e al disegno divino. Non v'è traccia di altri simboli che in seguito e immancabilmente correderanno le successive e molteplici versioni dell'avvenimento. Nella stanza s'intravvedono solo una tenda aperta, bellamente annodata, a significare l'apertura al messaggio divino e l'accettazione, che non è sottomissione, di Maria. Vi appare anche un mobile verosimilmente sovrastato da un leggio. Null'altro. Già in questo caso, Giotto lascia all'immaginazione dell'osservatore di completare la scena, magari coinvolgendovisi e rifugiandosi nella lettura del brano ispiratore del vangelo di Luca.
 
Nella tempera su tavola del Beato Angelico (ca. 1430), in un tripudio di azzurro e di rosa, lo scenario di Maria “annunciata” si svolge, a contrasto con quella giottesca, quasi “en plein air". Con alle spalle un “hortus conclusus”, lussureggiante d'erbe e fiori, sul quale l'Angelo è presumibilmente planato, si compie la missione secondo i più classici canoni, con l'aggregato, anzi, di un episodio-chiave del vecchio testamento (la Cacciata di Adamo e Eva). Ma vi svolazza la colomba dello Spirito santo e Maria, anche Lei nella posa che Le è più consentanea al culmine dell'accadimento (le braccia conserte sul seno), in un compunto atteggiamento d'ascolto, il busto inarcato, lo sguardo pensoso ma consapevole, pare fissare un po' sconcertata l'Annunciante dalle vesti e dalle ali eteree, che rappresentano, già solo esse, la quintessenza di questo straordinario capolavoro.
 
Un terzo e ultimo esempio può bastare per significare a quante versioni interpretative sia andato incontro questo episodio indicato come prologo, nella dottrina cristiana, della grandiosa e incommensurabile storia della salvezza dell'uomo ad opera del suo Creatore. Si vuole, cioè, dare uno sguardo, postumo rispetto al pittore siculo, all'“Annunciazione” di Lorenzo Lotto (1534).
Tutto avviene all'interno di una stanza, dove un'ampia porta si apre su un riquadro panoramico. In via del tutto straordinaria vi compare, nell'alto dei cieli, il Signore che pare interloquire con l'angelo che fa mostra di indicarLo come suo ineluttabile emissario. Maria, con le mani aperte, tradisce il suo smarrimento di fronte ad un annuncio che La turba fino a spingerLa, per un attimo, (così pare all'osservatore) in un gesto di fuga. Certamente spaventato dall'apparizione improvvisa del messaggero, con la schiena aggroppata, un gatto fugge via attraversando veloce la stanza. Forse un eccesso di “storica” quotidianità ha tradito l'immaginazione del Lotto, che, tra l'altro, ha voluto sovrappiù “caricare” la scena d'ogni immaginabile oggetto domestico: libri, mensola con natura morta, un candelabro e un calamaio. Dal libro lasciato aperto sul leggio, si arguisce che la giovane predestinata era in preghiera; ma, inevitabilmente, questa congerie di particolari attenua, fino a congelarla, l'aura di sacrale intimità cui non sfugge la gran parte delle rappresentazioni aventi a soggetto Maria, che si fa, nell'incontro con Gabriele, madre e scrigno dell'umanità divinizzata.
 
Da dove, dunque, deriva l'unicità dell'“Annunciata” di Antonello da Messina? È vero: vi sono i precedenti della ritrattistica profana d'invenzione fiamminga (Robert Campin, 1378-1444, Jan van Eyck, 1390-1441) forse da lui stesso incontrati: i personaggi ritrattati, espressione d'una classe sociale medio e alto-borghese e non più solo nobile, rivelano la nuova formula del “mezzo busto” o del “busto intero”, l'“emersione” dal fondo scuro, l'affinamento della tecnica ad olio, la trovata della balaustra, l'esposizione di una mano o di entrambe, lo sguardo spesso fisso verso l'osservatore. Antonello, però, sa andare “oltre”. Forte della sua capacità interpretativa, punta le sue “chances”, che si trovano tutte comprese e magnificamente illustrate nell'“Annunciata”, alle sue origini sicule (l'intensa luce paesaggistica, la peculiarità dei suoi conterranei facili alle leggere contrazioni ironiche del muscolo risorio) e alla tutta italica tradizione pittorica (composta armonia dell'insieme, suprema grazia e delizia del prodotto d'arte, magnificenza cromatica, luce che dialoga con le figure, la loro corrispondenza volumetrica nello spazio).
 
Ecco, allora, l'“Annunciata”. Al pari del precedente “Salvator mundi”, Ella emerge, avvicinandosi all'osservatore, dal fondo scuro, ove non è possibile indovinare né presagire alcun elemento di disturbo: è il buio dal quale scaturisce la pura luce dell'immagine raffigurata. Il primo sguardo di chi l'osservi da vicino non può non posarsi sul suo volto e sulle mani: parlano la lingua non enigmatica ma misteriosa di un messaggio rivelatore, non alieno ma di “amica” e quasi “complice” vicinanza.
La tavola si presenta, rispetto alla tradizione figurativa dell'evento, come un manifesto di novità assolute. Non un simbolo religioso, se non forse il testo sacro sul leggio, non la presenza dell'arcangelo, nessun giglio bianco, nessuna aureola, non l'immancabile colomba, non un segno che scenda dal cielo. Si scorge Maria “laica” più che mai, ma non per questo lontana, estranea ai più intimi e muti colloqui. L'espressione del viso, ritagliato su un ovale perfetto, declina tutte le sfumature di un raccolto e intimo pensiero. Il velo che, a mo? di tenda, ne copre il capo e le spalle, denuncia una riservatezza propria e naturale. Lo sguardo punta a destra, presumibilmente verso la luce del messaggero annunciatore. È stato osservato che i suoi occhi sono “occhi-finestra”: in un atteggiamento di totale trasparenza, il suo animo vi si affaccia e attrae anche il più distratto osservatore.
L'angelo, dunque, invisibile, è presente. Lo denuncia anche il gesto della mano destra di Maria , secondo Longhi “la più bella mano che io conosca nell'arte”, mano che, rivolta verso chi ha parlato, esprime il muto e convinto assenso dell'“Eccomi”, non imposto da una volontà assoluta ma spontaneamente e liberamente fatto proprio. L'altra mano congiunge i due lembi del velo, stringendoli in un nodo non solo di tipico pudore femminile di fronte ad un “estraneo”, ma già compresa nell'accoglienza e nella protezione “materna” della parola che si fa carne.
Ma un altro elemento, per sua natura invisibile, pare aleggiare nel dipinto. Una folata appena percepibile di vento fa svolazzare una pagina della Bibbia posata sul leggio, sulla quale è stata rilevata una microscopica lettera a forma di “M”, di certo la “emme” del “Magnificat”, che l'evangelista Marco, cultore di inni, mette in bocca a Maria. Lo Spirito santo, come sua abitudine sotto forma di vento leggero, come si sa, non ha voltato solo la pagina del testo sacro; ma ha prodotto l'improducibile, rendendo il seno di Maria il primo approdo terreno del Figlio di Dio.
 
Antonello morirà a soli quarantanove anni. Il figlio Iacobello e Marco Costanzo, pittori locali, tenteranno di percorrere la sua strada, lasciando dietro di sé solo strascichi di stanco manierismo. A Venezia, però, grandi artisti, quali Vittore Carpaccio, il citato Bellini, Cima da Conegliano e Alvise Vivarini cureranno di non lasciare senza effetti la lezione del grande messinese.
 
19 settembre 2018 Luigi Musacchio