JEAN-MICHEL BASQUIAT

L'arte come non arte

 
 
Jean-Michel Basquiat (1960-1988)
 
 
Le vie dell'arte, come quelle del cielo, sono infinite e imperscrutabili le mete alle quali possono condurre. Del caso di cui ci si vuole occupare, non sono più sufficienti i parametri che solitamente sono evocati per illustrare la vita e le opere degli artisti più noti. In questo particolare  frangente mancano i prerequisiti storici, estetici, culturali, che, il più delle volte, fanno da indispensabile cornice ad un  racconto che appare già scritto in partenza. 
Nonostante tutto, però, la storia, summa ancilla, aiuta ad affrontare anche i fenomeni che appaiono più nuovi, sorprendenti e apparentemente incomprensibili.  Jean-Michel Basquiat (1960-1988) - è lui il fenomeno di cui si vuol dire - si presenta sulla scena della storia delle espressioni pseudo-artistiche con un grosso punto interrogativo (o esclamativo?) nella sacca. Pare destinato a introdurre e ad accreditare nell'epistemologia estetica una nuova categoria: l'arte come non-arte.
Era già accaduto, nella storia delle avanguardie, di trovarsi di fronte a episodi analoghi di rottura con la tradizione pittorica, ma mai con tale irruenza e veemenza: si voglia o no,infatti, anche le esperienze più rivoluzionarie nel campo della pittura (e non solo) apparse nei movimenti delle cosiddette avanguardie (si pensi al cubismo, allo stesso espressionismo) hanno conservato (a parte le eccezioni di Mondrian e Malevic), come ancore di salvataggio, chiari richiami e collegamenti all'accademismo vetero-tradizionale. La fronda, ora (ca. 1980), invece, è totale. Il tentativo è quello da far accapponare la pelle: cancellare in un solo singulto due millenni (almeno) di espressione artistica, riconosciuta e riconoscibile secondo i canoni incisi nelle tavole storiche della rappresentazione figurativa.
Quel che non poté la ragione, tuttavia, poté la fantasia, cioè la potenza della creatività, che, anche sottotraccia, rosicchia come una talpa le radici più resistenti della comune sensibilità. Succede, allora, che un seme germogli con un suo segnato destino. Così, dalle origini haitiane, per parte di padre e portoricane per parte di madre, matura ed esplode questa carica graffitistica, che ben presto approderà nelle auliche sale delle pubbliche gallerie e museali. Basquiat è, tuttavia,agli inizi, un perfetto street writer: lo potrebbero raccontare, se non fosse per la caducità propria dei graffiti, i muri delle strade di Manhattan, fatti scenario della nascente e per tanti versi irriverente nuova "arte"(Fig. 1).
 
 
 La nuova ventata artistica, araldi Andy Warhol e compagni, si presenta annunciata come una marcia trionfale, in un teatro che non è più quello europeo ma statunitense. Le gallerie d'arte aprono le loro vetrine alla cosiddetta transavanguardia, i musei rischiano di apparire come le piramidi di egizia memoria; gli stessi critici, prima sarcastici, scettici e ironici, tendono ora a interrogarsi e ad interrogare il nuovo arrivato. Accade quello che non era avvenuto neppure con Picasso: nel tempo le quotazioni di mercato delle nuove opere raggiungono cifre a dir poco iperboliche: un Basquiat, oggi,  può valere anche 50 milioni di euro.
Ammesso che sia possibile indagare sulle ragioni profonde di questo successo, non pare inopportuno aprire l'album delle opere di Basquiat per cercare, per quanto possibile, di intravvedere i motivi di un exploit che non smette di meravigliare e suscitare consensi.
 
Basquiat, dunque, ai primordi, si firma con un tag che, più chiaro di così non potrebbe essere: "Samo", che - detto per i ben pensanti - vuol dire semplicemente: "Same Old Shit", cioè: "Sempre la stessa m...a" (il riferimento è all'erba che fumava). L'annuncio blasfemo può apparire irritante, ma non si capisce se l'artista lo lanci contro i passanti, contro la pittura in genere o contro se stesso (Fig. 2).
 
E', forse, solo un atto d'irriverente ribellione contro il mondo intero: Basquiat giovanissimo fa la fame, dorme nei cartoni, i suoi letti generalmente sono le panchine e non riesce purtroppo a sottrarsi alle arpie della droga: a portarlo via sarà infatti una speedball, un mix di cocaina ed eroina. Manhattan gli appare nella sua più misera realtà, quella che non scalda i cuori degli immigrati, né degli haitiani, né dei portoricani, né della parte restante del pianeta.
La fortuna, però, l'aveva segnato sulla fronte e, forse, di più, nello sguardo, nella capacità di esprimersi col disegno come non riesce a tutti i bambini. La mamma, persona sensibile e intelligente, aveva scorto in quei tratti i segni premonitori di una genialità votata al successo. I musei di New York, le riviste specializzate, gli album di anatomia erano divenuti i suoi maestri, giacché le scuole regolari non erano state il suo forte. Basquiat si pone così, già da ragazzo, alla ricerca della sua strada. Disegna cartoline, non scopre ancora i maxi-spazi delle cartoline murali sulle strade di Manhattan.
Ma egli è anche un genio di marketing: la musica, nella quale pure riesce con profitto a esibirsi, la cinematografia dei documentari, l'amicizia di altri geniacci come Andy Warhol,  Keith Haring e Robert Mapplethorpe si fanno media eccezionali del suo personaggio e delle sue opere. E il suo tag non è più Samo bensì, finalmente, Basquiat (Fig. 3).
 
Il suo graffitismo a firma Samo attenua la sua carica di denuncia. Calibrato com'era anche su scritte allucinate ("Samo saves idiots", Fig. 4), conserva tuttavia la sua aggressiva cifra dei primordi: il disegno resta infantilmente disarmante, le scritte (che ancora appaiono a riempire le sue tele) non sono più integralmente leggibili e sembrano apposte per attirare la curiosità degli osservatori. Ma, aldilà di tutto questo, resta la cifra inconfondibile di un ex graffitista divenuto pittore. I suoi dipinti, allora, fatti per essere ospitati nelle gallerie più famose degli Stati Uniti e d'Europa, svelano una novità sorprendente: possiedono la semplicità disarmante delle primitive incisioni rupestri, travolte dal magma delle crisi, delle insidie e delle sfide dell'età moderna (Fig. 5).
 Una circostanza, però, pur se drammatica, lo accomuna ad alcuni pittori classici, a Masaccio, Raffaello, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Watteau, Giuseppe Abbati, Boccioni, Schiele: la morte precoce, a ventotto anni.

 Luigi MUSACCHIO                                 24 / 9 / 2016