In un saggio del 1981, Stefano Rodotà definiva la proprietà “Il terribile diritto”, chiarendo dunque, in antitesi totale con il liberismo e la stessa tradizione giuridica romana, il suo approccio ad una visione radicalmente diversa dei diritti di privativa in senso ampio.
Ciò non toglie che, in ogni contesto – e specialmente nel nostro Paese – l’idea della proprietà come diritto assoluto e come base stessa della convivenza e dei rapporti interpersonali sia ancora fortemente radicata. Ne sono prova, ad esempio, la propensione della popolazione alla proprietà della prima casa di abitazione, e le conseguenti resistenze alle imposte che la colpiscano e, in generale, a tutte le forme di tassazione sul patrimonio.
Non dimentichiamo che siamo, in fondo, figli dell’illuminismo e del suo approccio ai diritti individuali, e che quello che potrebbe essere considerato il manifesto politico di quella ideologia, ossia la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, definiva la proprietà come “sacra e inviolabile”.
Se dunque partiamo da questa premessa, comprenderemo con maggior facilità quale sensibilità rivesta per il giurista il tema del conflitto tra diversi soggetti che assumano di essere proprietari dello stesso bene; tema che, come vedremo di seguito, è particolarmente delicato nel caso tale bene sia un’opera d’arte.
Partiamo anzitutto da un presupposto. Beni, come gli oggetti dell’arte figurativa, che siano a tutti gli effetti cose mobili (e dunque, per definizione, asportabili), che non abbiano forme di registrazione che ne favorisca l’identificazione (come avviene per gli autoveicoli) e che abbiano un mercato tendenzialmente mondiale, si prestano (purtroppo) con particolare frequenza ad essere oggetto di furto.
Il copione è tristemente noto: effrazione in casa del collezionista, asportazione delle opere, di cui poi si perdono le tracce, ma che, inaspettatamente, magari anni o lustri dopo, vengono battute in aste prestigiose, spesso all’estero.
Ecco che, a questo punto, il conflitto tra due opposti diritti sorge in maniera eclatante. Da un lato c’è il diritto dell’originale proprietario, cui il bene sia stato sottratto; dall’altro, quello del nuovo acquirente, che per avere l’opera ha dovuto comunque versare un prezzo. In sottofondo (ma fino ad un certo punto) l’interesse dello Stato al corretto e lecito funzionamento del mercato.
Si tratta di un conflitto che, anche a rifarsi a soli principi generali di eticità (che dovrebbero sempre essere la guida per il diritto) non è di facile soluzione. Il proprietario originario, infatti, è stato “violentemente” privato della proprietà del bene, ed ha con questo un legame che, una volta identificata la sua ubicazione, è certamente meritevole di tutela. Ma è anche vero che l’acquirente che, si ripete, è divenuto nuovo proprietario acquistando l’opera e versandone il corrispettivo, vanta anch’egli un legame che il diritto non può ignorare.
Per trovare una soluzione al dilemma dobbiamo, come spesso accade, cercare temporalmente lontano, e rifarci ad una norma che, formulata da quegli straordinari creatori del diritto che furono i Romani, è giunta sino a noi anche grazie alla intermediazione del Code Napoleon, il codice civile francese del 1805. Per i Romani, in pari causa melior est condicio possidentis; per i Francesi, la possession vaut titre. Per il diritto moderno italiano, l’art. 1153 c.c. stabilisce quanto segue: “Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”.
In pratica, la norma in questione stabilisce che se si acquista un bene mobile da parte di un soggetto che ne è solo apparentemente proprietario, se ne diviene comunque proprietari, purché vi siano:
a. il conseguimento del possesso (e dunque la consegna del bene);
b. la buona fede al momento della consegna;
c. l’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà (tipicamente, un contratto di compravendita).
Il principio vale solo per i beni mobili non registrati: il che è scontato, perché ove la trasmissione della proprietà del bene sia soggetta a forme di pubblicità legale (come nel caso dei beni immobili e mobili registrati) non potrebbe mai, a ben vedere, esservi la buona fede.
Traduciamo dunque i principi ora menzionati nel caso pratico dell’opera d’arte: ebbene, quando io acquisti un dipinto o una scultura (certamente beni mobili, e quindi soggetti alla disciplina dell’art. 1153 c.c.) sono certo di esserne comunque divenuto legittimamente proprietario ove sia rispettato il triplice criterio della trasmissione del possesso, della buona fede, dell’esistenza di un titolo astrattamente idoneo. Il mio diritto, dunque, prevale su quello dell’originario proprietario, che perderà definitivamente il proprio legame giuridico con l’opera.
È chiaro che tale conseguenza, assai grave per l’originario proprietario, richiede estremo rigore nell’accertare l’effettiva sussistenza di tutti i requisiti sopra richiamati, ed in particolare quello di buona fede; che, ricordiamolo, deve sussistere al momento della consegna (e, dunque, è indifferente che successivamente sia venuta meno). Infatti, l’art. 1147 c.c. stabilisce che la malafede sia sussistente non solo quando il nuovo acquirente conosca effettivamente l’illegittima provenienza della cosa, ma anche quando la non conoscenza sia dovuta a colpa grave.
Andando nuovamente ad un esempio concreto, se acquisto un dipinto di grande valore presso un oscuro personaggio ben noto per i suoi precedenti penali per furto e ricettazione, posso anche non avere la certezza che l’oggetto sia di provenienza illecita, ma certamente sono in stato di colpa grave, e dunque non potrò divenirne proprietario.
Se viceversa acquisto l’opera presso un noto antiquario o da una casa d’aste, sarà difficile sostenere la mia malafede.
Ecco perché, analogamente al fenomeno del “money laundering” (riciclaggio, ma letteralmente “lavaggio del denaro”) si potrebbe oggi parlare di “heritage laundering” (“lavaggio” dei beni culturali): le opere trafugate vengono “ripulite” attraverso l’alienazione a soggetti di buona fede, che ne divengono così legittimamente e definitivamente proprietari.
Allo scopo di prevenire questo fenomeno, il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri ha messo a punto dal 2004 una speciale banca dati, la Banca dati dei beni illecitamente sottratti, che elenca tutte le opere d’arte per cui sia stata sporta denuncia per furto.
Cosa comporta l’inclusione del bene in una banca dati? Molto semplicemente, essa di per se esclude la buona fede. Se compro un oggetto d’arte, qualsiasi sia il soggetto da cui lo acquisto, sono tenuto a verificare precedentemente che non sia incluso nella banca dati. Se non compio questa operazione, verso in colpa grave, e la buonafede è conseguentemente esclusa. In questo modo, di fatto, l’oggetto diviene non più commerciabile, almeno in Italia.
Attraverso queste iniziative, il fenomeno del furto di opere d’arte, se certamente non è destinato a scomparire, quantomeno è scoraggiato. Ed i proprietari, ma anche coloro che vogliano acquistare, potranno dormire sonni un pò più tranquilli.
Prof. avv. Giuliano Lemme, 06/06/2013
Straordinario di Diritto dell’Economia
Università di Modena e Reggio Emilia