Georg Baselitz. Gli Eroi

di
Giorgia TERRINONI

 

Dal 4 marzo e fino al 18 giugno 2017 il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospita una mostra importante e difficile, dedicata agli Eroi dei Georg Baselitz. Ideata da Max Hollein, quando era ancora alla guida dello Städel Museum di Francoforte, l’esposizione è stata condivisa con altre tre istituzioni: il Moderna Musset di Stoccolma, il Palazzo delle Esposizioni di Roma e il Guggenheim Museum di Bilbao. Ognuna di queste sedi, anche grazie al contributo dei curatori interni, ha potuto rivedere la mostra in funzione dei propri spazi.





 

‘Who would need pictures if they were that translatable?’

 
Con questa domanda retorica – chi avrebbe bisogno di quadri se fossero così traducibili? – il critico americano Leo Steinberg chiude un saggio del 1961 dedicato ai primi sette anni di carriera artistica di Jasper Johns.
Steinberg, per leggere le opere del primo Johns, vuole fare a meno di quella traduzione che consente allo spettatore di giungere direttamente al loro significato codificato. Intende dimostrare che i dipinti di Johns non possono tradursi in affermazioni discorsive formulabili in maniera chiara. Piuttosto che interpretare il significato delle opere, Steinberg si occupa dell’attitudine dell’artista, ne analizza il pensiero e il modo di sentire.

 
Che cosa hanno a che fare Leo Steinberg, Jasper Johns e Georg Baselitz?

Apparentemente nulla, ma la diffidenza che Steinberg nutre nei confronti della traduzione, al pari dell’interesse che invece nutre nei confronti dell’attitudine dell’artista, si adattano tanto al caso di Johns quanto a quello di Baselitz.
 
In anni recenti, Baselitz ha affermato: ‘I piedi sono il mio fondamento, il mio collegamento con la terra, che per me è più importante della trasmissione. La ricezione attraverso un collegamento con la terra (dal basso) funziona per me molto meglio che attraverso un’antenna (dall’alto)’.
Si tratta di un’affermazione decisamente criptica, ma che ben si adatta a descrivere l’attitudine dell’artista tedesco.
Baselitz, come anche Johns, è stato un artista del tutto autonomo, coerentemente e costantemente refrattario ad appartenenze sia artistiche sia politico-ideologiche. Egli si è sempre considerato nemico di tutte le ideologie. L’unico senso di appartenenza che ha potuto rivendicare per se stesso e per la propria arte è quello nei confronti della terra. Non di una terra intesa in termini geopolitici. Baselitz è nato e cresciuto in un villaggio rurale sassone, diviso tra due comunità, una popolata da tedeschi, l’altra da una minoranza etnica di origine slava; poi, è vissuto a lungo in una Germania in cui esistevano due Germanie. La sua appartenenza ha radici nella terra in quanto terra, non nella terra in quanto patria.
 
Nel corso di un’intervista, l’artista ha raccontato un ricordo d’infanzia; nel villaggio in cui è cresciuto c’era un ragazzo affetto da disturbi psichici, che si mordeva il braccio ogni volta che parlava. Molto colpito da quest’inquietante immagine, Baselitz l’ha ricollegata, più tardi, alla follia dello scrittore Antonin Artaud che ‘divorava se stesso’. Quando, tra il 1961 e il 1962, insieme al compagno pittore Eugen Schönebeck, pubblica le due versioni del Manifesto Pandemonico, Baselitz ritrae Artaud con i genitali esposti e sovradimensionati, nell’atto di colpirsi la spalla destra con il braccio sinistro. Si tratta di un’immagine dolorosamente intensa, caratterizzata da una linea nervosa e marcata, non dissimile da quella che compare nei disegni dello stesso scrittore. Il ragazzo del villaggio e il folle genio Artaud si percuotono – al limite dell’automutilazione – perché solo attraverso il dolore fisico sentono di appartenere a se stessi. Baselitz ha affermato che, in quei primi anni sessanta, voleva dipingere quadri violenti, brutti e sporchi e che lo sporco, per lui, aveva a che fare con i colori della terra, con i solchi dell’aratro.
La sua, dunque, è un’attitudine fisica, comportamentale – anche laddove il comportamento subisce delle devianze – non simbolica. Ci sono, infatti, alcune immagini appartenenti alla serie degli Eroi che mostrano la figura umana in posizione orizzontale, con mani e piedi che scavano nella terra, bloccati o intrappolati in essa.
 
La serie degli Eroi o Nuovi Tipi nasce nell’arco di un anno, tra il 1965 e il 1966 – a Firenze, dove Baselitz aveva una residenza artistica presso Villa Romana, e a Berlino. Si tratta di 60 dipinti (tutte le tele hanno il formato imponente di 162 x 130 centimetri), 130 disegni e 38 stampe, realizzati in un tempo breve da un uomo in preda a un’urgenza febbrile, a una necessità furente.
 

‘Sono un artista tedesco e ciò che faccio ha radici nella tradizione tedesca. È brutto ed espressivo’.

 
Nella conferenza stampa che ha preceduto l’apertura dell’esposizione romana, Baselitz ha radicato – a posteriori – i suoi Eroi alla storia turpe della Germania nazionalsocialista. La formulazione dell’idea del superuomo nazionalsocialista – il puro tedesco ariano – ha rappresentato, a parere dell’artista, il momento di massimo degrado toccato dall’essere umano. Gli Eroi, che vogliono essere e sono dei Nuovi Tipi, nascono però da questo retaggio, da questa terra, da questo superuomo degradato. E con tutta questa sporcizia e questo marciume hanno inevitabilmente a che fare.
A ciò si aggiunga la ‘scoperta’ del Manierismo italiano da parte dell’artista, la cui conoscenza è maturata durante l’esperienza fiorentina. A lungo considerato come una battuta d’arresto nel clima perfetto dell’arte moderna, il Manierismo ha in realtà avuto il merito di sottolineare l’esistenza di una profondissima crisi intellettuale. Ha permesso agli uomini – nello specifico, agli artisti – di rompere con l’armonia e rispondere in modo violento alla presa di coscienza di essere all’interno di un mondo immerso nel caos.
In un modo analogo le immagini degli Eroi, create vent’anni dopo la fine della guerra e apparse al pubblico – mai nella loro interezza di serie – solo nel 1973, in pieno boom economico, devono aver dato allo spettatore l’impressione di emergere da un tempo solo apparentemente trascorso. Immagini quasi rimosse che riemergono da un passato percepito come remoto e che reclamano una riflessione nel presente. 

 
Gli Eroi sono soldati, partigiani, pastori, pittori.

Sono figure dai corpi possenti, perfettamente ancorati alla terra. Sono giovani e vigorosi. Eppure sono fatti di contorni tremolanti, hanno teste piccole, genitali sovradimensionati – una virilità esposta, ridicolizzata, inutile, un ghirigoro – portano uniformi a brandelli, grondano sangue, hanno le mani intrappolate. Sono ostinati e, al tempo stesso, spezzati, dal destino. Portano con sé ribellione e speranza, ma anche la consapevolezza della propria colpa. E questo, perché portano con sé i segni del futuro, ma anche quelli del passato.
Baselitz è un artista tedesco e ciò che fa ha radici nella tradizione tedesca. Con essa egli vuole e deve misurarsi. A differenza di ciò che hanno fatto molti suoi connazionali. Ma, avendo scelto di rifiutare qualsiasi forma ideologica, non può generare dei tipi ideali:
Oggi non esistono ideali. Sono stato messo al mondo in un ordine distrutto, in un paesaggio distrutto, in una società distrutta. E non volevo introdurre un nuovo ordine. Avevo visto fin troppi cosiddetti ordini’ – ha affermato.

La maggior parte degli Eroi è caratterizzata da una passività nel corpo che è in aperto contrasto con la monumentalità e centralità della figura, così come con l’energia del segno pittorico o grafico. I corpi paiono eccessivamente statici, bloccati e resi inattivi, non necessariamente dalle ferite insanguinate, quanto piuttosto dalla condizione psicologica e dal rapporto con l’ambiente circostante.
Braccia e gambe si piegano in modo sgraziato all’altezza dei gomiti e delle ginocchia, facendo apparire il corpo incapace di compiere movimenti decisivi. I palmi delle mani sono spesso rivolti verso l’esterno in un gesto di rassegnazione, mentre alcune figure sono dipinte con mani o piedi catturati in una trappola per animali. Altri sono bloccati a terra, in una condizione che li vincola al suolo.

Il paesaggio, che sia uno scuro fondo monocromo o un’accensione di colori, sempre appare desolato e mostra i segni di ogni sorta di devastazione: case in fiamme o abbandonati, alberi sfrondati, terra smottata. Strumenti appartenenti a varie categorie di uomini poggiano su questa terra: attrezzi agricoli – molto spesso una carriola – zaini militari, calzature, tavolezze, pennelli, trappole in cui rimangono incastrati i piedi e le mani, bandiere smembrate.

 
Viene la tentazione di leggere tutte queste ricorrenze come simboli.

 
Ma Leo Steinberg, riferendosi a Johns, aveva invitato lo spettatore a diffidare della codifica simbolica, della traduzione. Mi sembra possibile che l’invito di Steinberg possa estendersi anche alla lettura dei Nuovi Tipi. Se, per esempio, riuscissimo così facilmente ad attribuire ai genitali sovradimensionati degli eroi il carattere di oscenità o di trovata goliardica, o se ancora riuscissimo a identificare il rosso che trasuda da tante tele come sangue, non ci troveremmo forse a condividere la condizione bloccata di questi grandi uomini fragili.

A distanza di quasi cinquant’anni dalla loro realizzazione e prima apparizione al pubblico, vorrei sapere se queste immagini ancora reclamano la loro riflessione nel presente.

di
Giorgia TERRINONI
Roma 4 / 3 / 2017