Lasciata la natia Urbino (dove, quindicenne, ma sotto il magistero del padre Giovanni, Raffaello lascia traccia di sé, in affresco, in una Madonna di casa Santi, che fa già presagire i tratti personalissimi dell’arte sua), il padre sa ben indirizzarlo, avviandolo a percorrere le strade di un itinerario fatto di esperienze dirette sul campo. Lo si vede, infatti, fra il 1493 ed il 1508 in Perugia, nel sodalizio col Perugino, a Città di Castello , Siena, Urbino, Firenze.
     Si può immaginare il giovanissimo artista tutto occupato ad alimentare e fortificare il suo innato ingegno pittorico. A Siena si nutre, tra l’altro, delle pitture del Sodoma; ma è a Firenze che scopre, prima ancora degli affreschi di Leonardo e Michelangelo, quelle di Masaccio e di fra’ Bartolomeo, col quale si lega subito in una franca e sincera amicizia.
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      “Venne in questo tempo Raffaello da Urbino pittore a imparare l’arte a Fiorenza et insegnò i termini buoni della prospettiva a fra’ Bartolomeo; perché essendo Raffaello volenteroso di colorire nella maniera del frate e piacendogli il maneggiare i colori e lo unir suo, con lui di continuo si stava (Vasari)”.
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      E’ il 1504, il giovane, dunque, è a Firenze, desideroso e impaziente di cogliere i segni nuovi e straordinari della pittura di Leonardo e Michelangelo, all’epoca occupati in una sorta di palio senese a chi fosse il più grande. Sono alle prese rispettivamente con gli affreschi (alti 7 metri e larghi 17) della “Battaglia di Anghiari” e della “Battaglia di Cascina”, opere destinate (ma con esito infausto) ad illustrare a maggior gloria, nel salone del consiglio comunale a Palazzo Vecchio, la storia di Firenze.
     In questa città, avviata in breve tempo a divenire il fulcro del rinascimento nostrano, Raffaello, con la squisitezza delle sue opere e specialmente delle sue “Madonne” e dei suoi “ritratti”, e, a quanto pare, con il fascino e l’amabilità del suo carattere, riesce da subito ad attirare l’attenzione di ricchi borghesi, nobili e intellettuali. Firenze diviene la base di lancio della sua affermazione, che, di lì in poi, lo inseguirà, coronandolo di gloria imperitura, a Roma, assecondato dal favore di Giulio II e Leone X.
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 “Singolare privilegio di cotesto fenomeno umano! che dovunque si mostrò spense l'invidia, fè nascere la benevolenza , vinse i cuori, legò gli affetti: di modo che, e nella scuola del Perugino e in Firenze e in Roma stessa; dove tante ambizioni ed interessi potevano a ragione inquietarsi del suo apparire; in luogo di emuli o nemici, s'ebbe tutti sommessi, tutti persuasi della superiorità sua, e pronti a farglisi compagni e satelliti (Quirino Leoni, Segretario perpetuo dell’Accademia Romana di San Luca, 1883)”.
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     Ma tratteniamo, ancora per poco, Raffaello a Firenze. Qui, grazie sì all’influenza dell’arte soprattutto del Perugino, di Leonardo e Michelangelo, l’urbinate affina la sua tecnica. Lo avvince la definizione del disegno e la luminosità del colore del Perugino, nonché, in primis, la struttura piramidale entro la quale, con la viva e intima espressione dei personaggi e la realistica presenza del paesaggio, Leonardo “compone” le sue opere. Lo attrae, altresì, la monumentalità dell’impresa michelangiolesca.
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     “ Ma più va innanzi e più si discosta da loro e diviene, per cosi dire , lui stesso. Anche col procedere dell'artista le Madonne perdono alquanto il sentimento mistico e addivengono più maternamente umane; imperocchè giova notare che questo è il momento della storia artistica , nel quale la pittura esce dal santuario. (M. Minghetti in Nuova Antologia di scienze, lettere e arti, vol. XXVIII, 1881)”.
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      A Firenze, dunque, si potrebbe dire con espressione tutta moderna, “successo di pubblico”. La generosità dell’ancora giovane Raffaello, grato per le cortesie ricevute, lo determina nel donare a Lorenzo Nasi, in occasione del suo matrimonio, quale regalo di nozze, la “Vergine dal cardellino”. Un’altra opera, la “Belle Jardinière” è destinata al senese Filippo Sergardi; mentre Taddeo Taddei, per averlo piacevolmente ospitato, viene gratificato con la “Madonna del prato” (1506), più comunemente nota col titolo di “Madonna del Belvedere” (dal nome del museo viennese che la custodisce).
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     “E a noi basti aver seguito Raffaello fino a questo momento. Egli non è più col Perugino, nè col Pinturicchio. Le tracce di Lionardo, di Fra’ Bartolomeo, di Michelangelo sono al tutto smarrite. Forse più tardi, verso il finire della vita, Raffaello sentirà di nuovo gli influssi di questo terribile artista ma,  inconsciamente e quasi suo malgrado ; per ora no. Egli ha preso da ciascheduno dei suoi predecessori quel che più alla natura sua si addiceva e ne ha fatto succo e sangue ; ma è pittore originale e in sua maniera perfetto. (M. Minghetti, Ibidem)”.
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    L’anno 1509 è l’anno della svolta, che segna un crinale fondamentale nella storia artistica di Raffaello. Egli è, dunque, a tutti gli effetti pittore affermato. Vanta nel suo repertorio capolavori quali lo “Sposalizio della Vergine” (1504), l’”Autoritratto” (1505), il “Trasporto del Cristo morto” (1507) , oltre un nutrito numero di opere di soggetto sacro e profano.
 
     Ma è giunto il momento di vedere a distanza più prossima il pittore d’Urbino alle prese con un’opera del proficuo periodo fiorentino, prima che, lasciando l’Arno, sia attratto dal colle Vaticano. L’opera è la “Madonna Belvedere” (1506), significativa almeno tanto quanto le contemporanee “Madonna dal Cardellino” (1506) e la “Belle Jardinière” (1507).
 
La Madonna Belvedere
 
     A prima vista è un’immagine non solo straordinaria ma, a suo modo, anche “rivoluzionaria”. Il cielo è sceso in terra: la Vergine, non più assisa in trono, è seduta (su uno sgabello? una seggiola? ), nel bel mezzo di una campagna. Cielo e terra sono entrambi coniugati in una sintesi di mistica e francescana armonia, distesa su un paesaggio non solo naturalistico ma antropico, familiare, e, oltretutto, sereno. Lo spirito rinascimentale produce i suoi frutti, in una sorta di sindrome diffusa, in tutte le arti e specialmente in pittura; frutti che non si colgono tanto nella sua tecnica esecutiva quanto, piuttosto, nella inusitata modalità rappresentativa e nell’intima essenza semantica delle nuove immagini. Pare vero: il sacro è uscito dal santuario delle raffigurazioni celesti, si è umanizzato, il divino è nell’umano e l’umano è nella natura, maestro di scienza e tecnica, protagonista destinato a proteggerne e governarne gli equilibri. A ben vedere si assiste, da qui, alla nascita dell’età moderna, le cui evidenze le percepiamo oggidì nei contrapposti scomparti, fausti ed infausti, delle vicende contemporanee.
 
     La struttura dell’insieme pare veramente calata dalla leonardesca “Vergine delle rocce”: una piramide pressoché perfetta, una cuspide che punta in alto a simbolo di monito all’elevazione spirituale. Ma di Leonardo v’è solo la struttura, giacché, nel trascorrere di circa vent’anni, una mutata sensibilità cancella il drammatico sipario roccioso del genio vinciano. E non occorre più inseguire i “reconditi moti dell’animo” per carpire quelli più presenti nei suoi personaggi. In Raffaello l’altura rupestre di Leonardo si fa spianata, praticamente una prateria fiorita e non un arco che incombe minaccioso sulle celesti figure; e chiarissime, per esempio, sono le espressioni di gioiosa partecipazione al gioco che vede ravvicinati san Giovannino e il cuginetto Gesù. Un solo elemento allude, in tralice, ai lontani esiti del sacrificio divino: la croce astile che, qui, è fatta trastullo nelle mani dei due bimbi. San Giovannino pare offrirgliela e il piccolo Gesù, con una manina, ancora incerto nell’andare, vi si sorregge, amorevolmente sostenuto dalle mani materne.
     V’è dunque nel dipinto un soffuso sentire di calma familiarità, che traspare ancor più evidente nel volto, soave, della Vergine. Il suo sguardo, fugacemente divertito, esprime chiaramente, in questo caso, il moto del suo animo: è presente una serenità appena velata da un’alea d’un apprensivo pensiero, più esplicitamente indicato dal colore rosso della sua veste.
     Un particolare colpisce più del solito l’osservatore: il piede scalzo della Vergine. Il che, forse, non deve stupire più di tanto. Non potendo immaginare la Madonna quale una tranquilla contadinella indifferente alle asperità del terreno, evidentemente Raffaello ha voluto assegnare al particolare medesimo un sotteso significato, a simbolo evidente della prossimità, della “vicinanza” della Vergine alle doglianze terrene, ovvero a quelle dell’umanità.
 
     La rappresentazione figurativa, benché nella ineludibile fissità d’un dipinto, tradisce, a ben vedere, un facile immaginare di movimenti tra i due bambini, in un gaio vocio infantile, al cospetto del compunto silenzio materno. Ma è facile vagheggiare anche i suoni tipici della florida campagna, provenienti dalla non rara vegetazione e dal cielo serenissimo, ove veleggiano tenue nuvolette. In lontananza, il paesaggio, presente per due terzi della pittura, sorpreso dalla prospettiva a volo d’uccello, sfuma via via fino a farsi trasparente, oltre lo specchio d’un lago, oltre il profilo di colline digradanti e a confondersi con il colore della volta celeste.
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E a noi basti aver seguito Raffaello fino a questo momento. Egli non è più col Perugino, nè col Pinturicchio. Le tracce di Lionardo, di Fra’ Bartolomeo, di Michelangelo sono al tutto smarrite. Forse più tardi, verso il finire della vita, Raffaello sentirà di nuovo gli influssi di questo terribile artista ma,  inconsciamente e quasi suo malgrado ; per ora no. Egli ha preso da ciascheduno dei suoi predecessori quel che più alla natura sua si addiceva e ne ha fatto succo e sangue ; ma è pittore originale e in sua maniera perfetto. (M. Minghetti, Ibidem)”.
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 Luigi Musacchio
aprile 2021