Il ritorno della pittura di Giulio Turci (1917-1978)
di
Andrea DONATI
Nella
Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna fino al 9 aprile 2017 sono esposti alcuni dipinti di
Giulio Turci (1917-1978), un pittore figurativo rimasto ingiustamente ai margini della fortuna critica del
Novecento italiano. Nel primo centenario della nascita, gli eredi, in particolare la
figlia Miresa Turci, hanno voluto ricordare l’opera del maestro, di cui si conserva intatta la casa con lo studio.
Donna Marina Colonna di Paliano insieme con il marito,
Paolo Amalfitano, hanno messo a disposizione tre stanze del loro castello, che ospita per l’occasione anche una
Maddalena penitente di
Guido Cagnacci di cui parlerò in un prossimo articolo.
Giulio Turci appartiene alla generazione di Federico Fellini e di Tonino Guerra,
artisti del cinema e della sceneggiatura, ai quali è stato spesso accostato più per ragioni di fama e di provenienza territoriale che per autentica comunanza poetica. A guardar da lontano, sembra che quest’angolo di Romagna sia solo un fantasmagorico luogo di perdizione ludica e culinaria, ma ci fu un tempo in cui il Rubicone segnò il destino di Cesare e dell’Impero, e la linea gotica mostra ancora oggi in alcuni punti le ferite dell’ultima guerra.

Se si volesse fare della metastoria e strizzare l’occhio all’iconologia, si potrebbe dire che la Romagna del sud-est abbia parlato una sola lingua dai pittori del Trecento riminese in poi, ma non è così.
È vero che da queste parti qualcosa accomuna tutti, compreso Giulio Turci.
Certe forme allungate ad esempio, si può pensare che derivino dai mosaici ravennati o dai dipinti di Giovanni da Rimini, contemporaneo di Giotto. Le donne perdutamente maliarde e sensuali sono addirittura un topos dell’immaginario femminile di Cagnacci. Il senso onirico è quasi il motore della fantasia di Fellini, che un po’ novello Astolfo, un po’ novello Leopardi, rimase così sedotto dall’opera prima di Ermanno Cavazzoni da farne un film, che non ebbe successo, La voce della luna. Più efficace per sintesi onirica è l’Allunaggio di Turci, dipinto nel 1968. Una volta però che si sono pagati i tributi più ovvi, compreso il tanto ripetuto, quanto indebito accostamento di Turci a Giorgio Morandi – che proveniva da tutt’altra generazione ed esperienza e che per i suoi intimi legami con il tardo impressionismo francese trovò in Roberto Longhi un appoggio critico formidabile, che il nostro non ebbe mai – si deve tornare ai testi figurativi e sentire che cosa hanno da dire.
Colpisce innanzitutto, per chi ha già visto i dipinti di Turci in passato,.jpg)
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la loro tenuta nel tempo. Turci non ha mai dipinto per vivere, ma per il piacere di dipingere. Per questo ha lasciato un numero relativamente esiguo di opere. Era preciso, esigente, meditativo, qualità che si apprezzano. A rivedere i dipinti a distanza di anni, sembrano ancora più belli e più significativi. Ciò che si perde generalmente in conoscenza storica, si acquisisce in esperienza estetica. Voglio dire che tranne
Miresa Turci, oggi nessuno potrebbe dire come, dove, quando e perché suo padre dipinse quella sdraio gonfiata dalla brezza del mare piuttosto che quel ragazzo sdraiato all’ombra di un ombrellone rosa o quella donna con la sigaretta e dietro di lei la barchetta sull’orizzonte piatto dell’Adriatico. A colpire oggi sono lo sguardo penetrante del pittore e l’intima condizione di raccoglimento dei suoi quadri.

Turci, come molti altri artisti italiani del Novecento,
sembra avere guardato con disincanto la realtà fisica e sociale del Paese che mutava in modo repentino ed irreversibile, cambiando pelle come una lucertola. Parlo della realtà umana, non solo del paesaggio, sebbene l’umanità abbia uno spazio apparentemente marginale nella pittura di Turci. Tenere a debita distanza le figure umane, guardandole di lontano o di spalle o in ombra, è forse più un segno di disincanto che di un mancato rapporto psicologico. Il distacco può raffreddare i sentimenti, ma offrire maggiore profondità allo sguardo e al pensiero. Turci era fondamentalmente un pittore che amava sentire lo spazio naturale aperto, riportandolo sul cavalletto in modo fantasioso e originale.
Si avverte una nota dominante, malinconica, presaga
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di ciò che un giorno non ci sarà più. È palese l’intenzione di fissare in pittura il ricordo di una visione che presto scomparirà o verrà completamente travolta dal tempo: il volto di una giovane donna, il paesello natio, la spiaggia solitaria. L’autocontrollo è una costante, l’equilibrio spaziale quasi

istintivo, la registrazione di tono tipica di chi fa musica.
Turci era pittore autodidatta, ma suonava anche il violoncello e trasformò in mestiere la passione per il cinema, ereditata dal padre, che aprì la prima sala cinematografica di Santarcangelo nel 1920.
È sostanzialmente dal mare e dall’antico borgo sulla via Emilia che continua a risuonare la musica di Turci in pittura, una musica fatta di passioni umbratili e di sguardi che si perdono in lontananza. Come notava
Paolo Amalfitano, se non sapessimo che il mondo figurativo di
Giulio Turci ruota tutto attorno ai luoghi del suo piccolo
borgo romagnolo, potremmo credere che avesse dipinto sulle spiagge e sui colli della California o dell’Australia o del Sud Africa.
di
Andrea DONATI Santarcangelo di Romagna 6 / 4 / 2017