Il nuovo catalogo della Collezione Doria Pamphilj

di
Andrea DONATI
A quasi un anno di distanza dall’uscita editoriale del catalogo della Collezione Doria Pamphilj a cura di Andrea Giovanni De Marchi per la Silvana Editoriale, non si sono registrate reazioni ufficiali da parte della comunità storico artistica, ma il volume, già in mano agli studiosi, compare nelle vetrine delle maggiori librerie specialistiche internazionali ed è disponibile presso il punto vendita dell’omonima Galleria in via del Corso.
Recensire un’opera così poderosa non è cosa che si possa compiere in poche righe, né sarebbe serio rievocare i nomi di Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Velásquez, solamente per ammiccare al lettore, che certamente è al corrente della fama della quadreria, né mi perdonerebbe d’indugiare su ogni singolo dipinto. Non è mia intenzione entrare nei dettagli di uno studio durato più di tredici anni. De Marchi infatti è stato curatore della collezione dal 1997 al 2010. Fu Federico Zeri a indicare il suo nome alla Principessa Orietta Doria Pamphilj, che con lungimiranza pensava al futuro in anni in cui il patrimonio artistico privato di Roma era conosciuto e frequentato da pochissimi studiosi, nonostante la Galleria fosse discretamente aperta al pubblico da un secolo e mezzo. Nel 1994 la visitai anch’io per la prima volta, accompagnato dalla Principessa, né avrei mai creduto di diventare un giorno, seppur brevemente, membro del primo Consiglio di Amministrazione del Trust, istituito recentemente dagli eredi ad ulteriore tutela del patrimonio.
Per tornare al punto, non è la lunghezza del tempo trascorso da De Marchi a studiare la Collezione Doria Pamphilj che indica il valore della sua pubblicazione, che si presenta come un nuovo strumento di conoscenza della più importante raccolta privata di dipinti antichi al mondo. Altri suoi predecessori e colleghi hanno speso un numero simile di anni nella stessa sede o altrove senza cogliere un millesimo dei suoi frutti. Sono invece il metodo e l’intelligenza con cui il catalogo è stato affinato in così lunga e appartata indagine a renderne apprezzabili i risultati.
Non occorre qui ricordare l’importanza della Collezione Doria Pamphilj, che è allo snodo delle grandi raccolte storiche romane, essendo formata in gran parte dall’asse ereditario Pamphilj, dentro il quale confluì un consistente ancorché imprecisato numero di quadri della collezione Aldobrandini, e in parte minore dall’asse ereditario Doria Landi di Genova.
La collezione Aldobrandini rappresenta a sua volta una sorta di caccia al tesoro, giacché lo studio degli inventari non ha ancora chiarito la sua esatta consistenza nel corso di una storia che inizia ben prima della devoluzione alla Chiesa dello Stato di Ferrara nel 1598 e si chiude ben dopo la morte nel 1681 di Olimpia, Principessa di Rossano (sposata in prime nozze con Paolo Borghese e in seconde nozze con Camillo Pamphilj), intrecciandosi fatalmente con la storia della collezione Borghese, che è la terza per importanza in ordine cronologico a Roma dopo quella Farnese e Aldobrandini. Una buona parte della storia dell’arte italiana dal Rinascimento al Barocco ruota, come tutti sanno, attorno a queste tre grandi collezioni romane. Pertanto la ricostruzione della quadreria Aldobrandini rimane uno degli aspetti più affascianti della vicenda legata alla Collezione Doria Pamphilj, che ora può essere riesaminata con sicurezza.

La prima novità del catalogo è che i dipinti sono stati studiati uno a uno, innanzitutto per quello che sono, cioè per opere materiali e pittoriche, non come enti nominali o immagini virtuali. Quasi nessuno, specie tra le giovani generazioni, ha il privilegio di disporre di un tesoro simile che possa studiare “giorno per giorno”, ma questo non deve scoraggiare o far desistere dal contatto diretto con le opere d’arte. Sciaguratamente invece sono sempre di più quelli viziati dallo studio delle fotografie e da una visione della storia dell’arte fatta sul computer, ad uso e consumo dei media e delle università. La velleità di costruire discorsi e teorie su cose non viste o non comprese nella loro realtà storica e fattuale, è terribilmente diffusa e perniciosa. Tale vizio può pregiudicare, e di fatto largamente pregiudica la capacità visiva e cognitiva.
Si può essere d’accordo o non con De Marchi, ma egli ha sempre sentito forte, come me e altri colleghi, l’insegnamento di Zeri e dei grandi maestri del passato, che resta valido nel tempo, ben al di là dell’eventuale frequentazione diretta, che nel suo caso c’è stata e si sente. Egli non ha mai risparmiato i suoi strali contro la perversione di quei sistemi correnti, diffusi in ogni parte del mondo, che distorcono la prassi della disciplina storico-artistica a vantaggio di finalità che con essa non hanno nulla a che fare. L’occhio, ricordava recentemente un maestro come Gianluigi Colalucci – e gli faceva eco Antonio Paolucci – è il primo strumento conoscitivo per chiunque si avvicini all’opera d’arte. Era questo l’insegnamento dei pionieri della disciplina, da Morelli a Cavalcaselle, da Berenson a Zeri, per i quali la Galleria Doria Pamphilj rappresentò una tappa importante del loro percorso, se non un vero banco di prova. Il catalogo di De Marchi rilancia l’importanza della visione diretta dei dipinti e si pone al servizio di quella che è la principale attitudine alla conoscenza artistica. La prassi catalografica, cui tanto era affezionato Zeri e che costituisce il pane quotidiano di molti studiosi, che si affaticano a ricomporre pezzi del patrimonio artistico, ha subito alti e bassi nel giudizio teorico di taluni, che talvolta hanno voluto denunciare una presunta inerzia o inefficacia o persino inutilità di questo metodo di studio, ma tale prassi continua a rivelarsi fondamentale per qualsiasi discorso costruttivo, anzi l’unica difesa contro speculazioni astratte e inconsistenti. Dunque gli aspetti materiali, concernenti lo stato di conservazione della pellicola pittorica e del supporto (legno, tela, metallo, pietra, vetro), i restauri e le manipolazioni, i segni di possesso, le cornici, costituiscono i punti di osservazione privilegiata, anzi la base della ricognizione catalografica di De Marchi e per conseguenza del suo discorso storico-artistico.
La seconda novità è rappresentata dall’indagine approfondita degli inventari originali, conservati nell’archivio del Palazzo Doria Pamphilj al Corso e in altre sedi. L’identificazione dei dipinti recensiti dagli inventari storici, che vanno dal più antico di Lucrezia d’Este del 1592 al più recente dell’Elenco del 1819, su cui si basa l’attuale vincolo di Legge sulla collezione, può essere chiarita solamente attraverso un sistema di concordanze. Tuttavia, per arrivare a definire le concordanze, bisogna prima dipanare il groviglio delle notizie inventariali che s’intrecciano con i dati materiali rilevati sulle opere stesse. Si tratta di una serie di dati assai differenti tra loro che vanno dai singoli dipinti in quanto tali ai segni di possesso, alle citazioni inventariali, ecc. Il catalogo e le schede sono composti a partire da questo genere di studio e di ricognizione. Le concordanze inventariali rappresentano idealmente la prova del nove, la verifica assoluta delle provenienze e delle identificazioni, ma essendo questa una materia ancora aperta alla discussione, è ovvio che De Marchi non abbia voluto forzare l’interpretazione rischiando di pregiudicare l’attendibilità delle sue schede. Se quindi nella pubblicazione manca uno schema complessivo delle concordanze, che di per sé sarebbe un utile strumento di complemento alla consultazione del catalogo – ma speriamo ci si possa arrivare in futuro –, le concordanze tuttavia sono messe in evidenza, laddove possibile, nelle singole schede dei dipinti. Il risultato finale, che sta proprio nelle ultime pagine del volume, è l’indice di 848 voci dell’elenco fidecommissario che fissano un numero eccezionale di dipinti censiti, verificati e pervenuti storicamente agli attuali eredi Doria Pamphilj.

De Marchi aveva anticipato parte dei risultati del suo lavoro negli anni scorsi, gettando luce a più riprese su autori, soggetti, storia e provenienza di molti dipinti. Se si vuole avere una fruizione completa del lavoro svolto, a quegli studi precedenti ed ad altri ancora correlati occorre fare riferimento, correggendo quelle sviste che talvolta capitano e sono capitate, prima tra tutte quella relativa a Girolamo Agucchi, che – come è già stato da tempo evidenziato e nel catalogo colto anche dall’autore, ma non ancora sufficientemente considerato nelle sue vaste conseguenze – fu il vero responsabile dell’inventario di Pietro Aldobrandini del 1603, asse portante d’innumerevoli e spesso erronei ragionamenti storiografici.
In effetti, una delle prime considerazioni che si traggono dalla lettura complessiva del catalogo è che nella formazione della collezione Aldobrandini va assolutamente ridimensionato il ruolo intellettuale dei fratelli Agucchi: ovunque si voglia tirare la corda, a favore del minore o del maggiore dei due. Perde altresì consistenza l’idea diffusa, che ci fosse stato un intento programmatico nella scelta delle opere da parte di Pietro Aldobrandini, perché di fatto il cardinale nipote operò una rapina del patrimonio artistico ferrarese, di cui approfittarono anche altri prelati della corte di Clemente VIII, partecipando al gran banchetto della Devoluzione del Ducato Estense. E, come si sa, la caccia ai tesori ferraresi continuò con Scipione Borghese. Se dunque gli Aldobrandini, i fratelli Agucchi e più tardi Francesco Angeloni, padrino di Bellori, maturarono idee estetiche prediligendo la pittura veneta ed emiliana piuttosto che quella tosco-romana, lo fecero a seguito di un’operazione “nepotistica” senza precedenti, che aveva spogliato di decine di capolavori una delle corti più ricche del Rinascimento. Quanto ai Pamphilj, cui risale il maggior numero di dipinti dell’attuale collezione, emerge sbalorditiva la passione per il paesaggio, che se già aveva caratterizzato in senso classicistico alcune scelte degli Aldobrandini, si spinge con Camillo Pamphilj e i suoi eredi verso una quantità di pezzi e una varietà di artisti senza precedenti, al punto che la Galleria Doria Pamphilj è oggi in grado di restituire da sola l’idea grandiosa, fantasiosa, sentimentale, che il Barocco aveva del paesaggio come genere pittorico moderno.
Queste sono solo alcune delle suggestioni derivanti dal catalogo, che per originalità e profondità rappresenta una delle maggiori novità editoriali sul patrimonio storico artistico italiano degli ultimi anni. Tale novità, finanziata da un ente privato come il Trust Doria Pamphilj, appare ancora più eclatante, quando si consideri che il Ministero e i musei nazionali non dedicano quasi più risorse alla realizzazione di cataloghi, che tuttavia sono strumenti di garanzia per la tutela, conservazione, valorizzazione ed emancipazione del patrimonio artistico pubblico e privato. E per giunta sono i soli, se ben fatti, che si vendono ancora con profitto, tenendo testa a quelle montagne di gadget che pretendono di sostituire la leggendaria aura poetica delle opere d’arte.
di
Andrea DONATI                      Roma 16 / 12 / 2106