MOLTI BELLISSIMI DIPINTI, TROPPO POCHI DI VERMEER (PER UNA MOSTRA INTITOLATA A VERMEER). COSI' SI POTREBBE SINTETIZZARE LA DESCRIZIONE E IN FONDO ANCHE IL GIUDIZIO SULLA GRANDE ESPOSIZIONE, COMUNQUE NOTEVOLE, OSPITATA DALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE. MA IL VERO PROBLEMA E' CHE QUEI POCHI FORSE NON SONO QUELLI GIUSTI.
Prima di qualsiasi commento, riflessione più approfondita o rilievo critico, comincerei col dire che la mostra attualmente ospitata dalle Scuderie del Quirinale, “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”, si compone di 56 dipinti, nella stragrande maggioranza veramente di alto rango; e che, anzi, un buon numero di questi (una ventina, a tenersi stretti), si possono considerare capolavori dell’arte olandese del Seicento (ergo, capolavori tout-court).
Aggiungerei anche che, essendo la suddetta arte olandese del Seicento assai limitatamente rappresentata nei nostri musei, e (con poche eccezioni) ben di rado a questo livello, la riunione di un gruppo così nutrito e rilevante di dipinti costituisce di per sé un’occasione per nulla trascurabile di contatto con molti artisti eccezionali in Italia poco familiari al grande pubblico, nonché con opere intimamente diverse da quello che la nostra tradizione ci ha abituato a considerare come grande pittura. Ancor più, occorre precisare, in quanto la mostra di fatto non mira a dar conto di tutte le manifestazioni di quella insigne tradizione pittorica (che ovviamente anche nel Seicento includeva ai massimi livelli la grande pittura di storia, profana e sacra, nonché l’intero ventaglio dei generi minori a cominciare dalla natura morta e dal paesaggio, qui esclusi), ma, facendo perno sin troppo esplicitamente sulla personalità di Vermeer (e, va da sé, sul richiamo che essa è capace di esercitare), raduna attorno ai dipinti di sua mano raccolti nella circostanza (otto, stando al catalogo: ma qualche specificazione al riguardo s’imporrà) tutti quegli artisti – alcuni grandissimi, nessuno meno che ottimo - che per stile e/o per tematiche possono appropriatamente essere accostati al sommo pittore di Delft (l’unica assenza veramente rilevante essendo quella di Jan Steen).
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I generi frequentati dalla mostra sono, conseguentemente, in primo luogo le scene di interni nelle sue varie declinazioni (solitaria o di gruppo, amorosa, musicale o di taverna, legata alla scrittura o alla ricezione di missive e a ogni sorta di ordinaria attività domestica) e in subordine le vedute cittadine, fedeli o con elementi di fantasia. Inoltre, relativamente fuori contesto rispetto a Vermeer ma non inopportunamente, l’esposizione ci permette di ammirare un nucleo di notevoli interni di chiesa, opera di alcuni fra i massimi specialisti del genere (
Emanuel de Witte, Hendrick van Vliet, Anthonie de Lorme, ma non purtroppo il più grande di tutti,
Pieter Saenredam) e infine una piccola selezione di ritratti, fra cui il superbo
Autoritratto dell’Alte Pinakothek di Monaco, cat. 10,
fig. 2, di
Carel Fabritius (la cui pittura ebbe una speciale importanza per Vermeer) e un incantevole
Fanciullo con cappello, cat. 43, di
Michiel Sweerts (che a voler essere pignoli non è un pittore olandese ma fiammingo, e le cui relazioni con Vermeer, pur riscontrabili sotto il profilo stilistico, restano del tutto ipotetiche). In ogni caso la sfilata delle opere esposte alle Scuderie ci permette di ammirare un’arte fatta di straordinaria perizia tecnica negli effetti di luce e nella resa analitica delle superfici e delle materie, di restituzione intimistica e misurata di atmosfere private, assiduamente alla ricerca di una perfezione discreta, ottenuta con una calibratura implacabile della pennellata: ma sarebbe impresa non meno vana che superflua mettersi qui a decantare la qualità della pittura di artisti come
Pieter de Hooch, Gerrit Dou, Gerard ter Borch, Frans van Mieris, Gabriel Metsu, Nicolaes Maes, Daniel Vosmaer o
Jan van der Heyden, tutti in ogni modo degnamente rappresentati in mostra da opere di prima qualità, e in qualche caso perfino da alcuni fra i loro capolavori assoluti (solo per fare qualche esempio:
Ufficiale che scrive una lettera, cat. 2,
fig. 4, e
Donna che sigilla una lettera, cat 3,
fig. 4, di Gerard Ter Borch; l’
Astronomo di Gerrit Dou, cat. 7; il
Ritratto di famiglia in cortile a Delft, cat. 16,
fig. 5, i
Giocatori di carte, cat. 17, e
La camera da letto, cat. 18, di Pieter de Hooch;
Il tamburino disubbidiente di Nicolaes Maes, cat. 23; l’
Uomo che scrive una lettera, cat. 28, e la
Donna che legge una lettera, cat. n. 29, meravigliosa coppia
en pendant di Gabriel Metsu;
Donna che dà da mangiare a un pappagallo di Frans van Mieris, cat.32;
Veduta di Delft da una loggia immaginaria di Daniel Vosmaer, cat. 55).
G. Metsu, Donna che legge una lettera, Dublino, National Gallery G. Metsu, Uomo che scrive una lettera, Dublino, National Gallery

Le due constatazioni relative alle principali qualità della mostra che fanno da premessa a questa recensione (
alta qualità dei dipinti, proficuamente combinata alla
scarsa presenza di opere olandesi del Seicento nelle collezioni italiane) sono banali e perfino auto-evidenti, ma dal mio punto di vista sono di particolare peso, giacché personalmente (e so che moltissimi non sarebbero d’accordo) ritengo che una mostra sia in primo luogo
un’esperienza visiva, un percorso - più o meno sensato, avveduto e ben congegnato - lungo le opere che la compongono; e che quindi, per farla breve, la sua qualità dipenda innanzitutto - prima che dal progetto critico che la sostiene e dai materiali scientifici e didattici che la supportano - dalla qualità di quelle opere, e dunque dalla qualità dell’esperienza visiva che il visitatore è messo in condizione di realizzare. Accanto a ciò, peraltro, convengo senz’altro che una buona mostra debba comunque costituire per chi la visita un’occasione di
crescita delle proprie conoscenze, ciò che può verificarsi anche solo permettendo a chi la fruisce di interagire virtuosamente con prodotti dell’ingegno che altrimenti sarebbero di difficile conoscenza, e naturalmente
fornendogli gli strumenti necessari ad una loro adeguata comprensione (questione più sottile ma pure cruciale).
Se la mostra delle Scuderie risponde abbastanza a questo minimale ma essenziale set di istanze, c’è però anche da rilevare una serie di aspetti non secondari che si presentano per contro più problematici. Il primo, e non è da poco, chiama in causa proprio il gruppo delle opere di Vermeer, la loro adeguatezza e la loro rappresentatività.
Come tutti sanno il catalogo dei suoi dipinti presenta della caratteristiche molto peculiari: innanzitutto è
eccezionalmente ridotto, i numeri oscillando da un minimo di 28 (secondo il “restrizionista” Erik Larsen) a un massimo di una quarantina scarsa di opere (secondo gli “espansionisti” Arthur Wheelock e Walter Liedtke, fra i i curatori della mostra romana).
Il nucleo indiscusso che lo compone (a partire dalla
Ragazza assopita del Metropolitan Museum di New York, databile nella seconda metà degli anni Cinquanta del Seicento), al di là del suo livello superlativo, presenta tratti di
straordinaria coerenza stilistica, con appena qualche sviluppo nella sua parte terminale, che in genere è associata a un minimo calo qualitativo: dunque non offre grandi margini di manovra attributivi, se non nella produzione giovanile, dove infatti vengono collocate tre o quattro tele, intorno alle quali, peraltro, il giudizio degli specialisti non è unanime (la più generalmente ammessa è la cosiddetta
Mezzana di Dresda, datata 1656). Al riguardo, dal punto di vista metodologico, il dilemma si presenta grossomodo nei seguenti termini: o si assume che la personalità di Vermeer è integralmente da ricondurre all’interno di quella fisionomia vertiginosa e perfettamente omogenea che gli assegnano le opere poste fra il succitato dipinto del Metropolitan e i risultati più estremi, quali l’
Allegoria della Fede, pure al Metropolitan (in mostra a Roma, cat. 50), e la
Donna seduta alla spinetta della National Gallery di Londra; oppure si presume che la prime prove di Vermeer, nella prima metà del sesto decennio, siano per così dire di formazione e quindi presentino dei caratteri di stile marcatamente discontinui rispetto alla produzione seguente: ma è trasparente che una simile impostazione (giusta o sbagliata che sia), non potendo contare su appigli documentari certi, è in qualche misura congetturale e, fino a prova contraria, almeno parzialmente arbitraria (e sappiamo quanti problemi abbia prodotto in passato: vedi il ben noto caso delle copie eseguite da
Van Megeren, che dedusse dagli studi, e
di fatto inventò, uno stile giovanile di Vermeer).

Per tornare alla mostra, diciamo subito che, fra gli otto dipinti che vengono assegnati al grande maestro al quale la mostra è intitolata, c’è uno solo fra gli indiscussi capolavori di Vermeer, e si tratta ovviamente della cosiddetta
Stradina del Rijksmuseum (cat. 46,
fig. 1). Ci sono poi altre tre opere sicuramente autografe: la
Fanciulla con bicchiere di vino di Braunschweig (cat. 47), come detto l’
Allegoria della Fede oggi a New York (cat. 50,
fig. 6) e la
Donna in piedi al virginale della National Gallery di Londra (cat. 52).
La
Suonatrice di liuto del Metropolitan (cat. 48) e, ebbene si, la
Ragazza con il cappello rosso della National Gallery di Washington (cat. 49), che campeggia su biglietti, pieghevole, fascicolo di accompagnamento alla visita, alle fermate e perfino sulle fiancate degli autobus, sono opere che di fatto continuano a dividere abbastanza gli specialisti, nonostante la loro sistematica presenza a tutte le mostre degli ultimi decenni dedicate a Vermeer contribuisca ormai a far credere, per così dire “in automatico”, che si tratti di autografi indiscussi.
C’è poi la famosa, e per qualcuno famigerata,
Santa Prassede della collezione Piasecka Johnson (cat. 45a,
fig. 7), copia letterale (firmata due volte!) e sempre sorprendente di un dipinto del fiorentino
Felice Ficherelli detto il Riposo. Si tratta di un caso attribuzionistico molto controverso che rientra appieno, e invero circolarmente, nel nodo critico del “primo Vermeer” poc’anzi descritto, la cui pertinenza vermeeriana viene perorata nella scheda di catalogo semplicemente ignorando la questione cruciale sottesa alle opere giovanili del pittore, ossia: se sono così diverse per stile, qualità e tematiche dai dipinti successivi e sicuri, in che modo e con quali strumenti si può sostenere persuasivamente che siano di Vermeer? Laddove, onestamente, non mi sembra sufficiente evocare, come fa Wheelock, il “senso di serenità e di eternità che conferisce a ogni immagine una straordinaria dignità” (p. 200) quale caratteristica centrale condivisa, e ipotizzare, davvero spericolatamente, che nella figura della Santa il pittore abbia usato la moglie Catharina Bolnes come modella, poco dopo aver rilevato, in ossequio all’evidenza visiva, che “Vermeer studiò attentamente l’immagine di Ficherelli al punto da realizzarne una replica quasi identica”.
C’è infine il caso della
Giovane seduta al virginale di collezione privata newyorkese (cat. 51), che, pur definito “incantevole” nella scheda di catalogo (tutta tesa, seconda la voga attuale, a supportare attribuzioni difficili con le risultanze della diagnostica), al non specialista (oltre che a molti degli studiosi di Vermeer) fa l’effetto di un dipinto certamente intriso di ”vermeerismo”, ma di qualità affatto incompatibile con la mano del maestro.

La situazione testé descritta configura vari ordini di questioni problematiche, al contempo deontologiche, critiche e perfino epistemologiche, nei confronti sia del pittore (il cui profilo artistico, sublime per universale consenso, non si direbbe restituito in termini adeguati da queste otto opere), sia del pubblico (ancor più quello non espertissimo), che pensa di andare a vedere una mostra dedicata a Vermeer e si ritrova di fronte a qualcosa di piuttosto diverso (seppur sempre notevole), e al quale, in effetti, da nessuna parte viene detto con precisione come stanno le cose: né nel catalogo, dove nel testo e nella bibliografia delle schede (succinte e quasi dimesse nel loro andamento descrittivo, con un pizzico di analisi dello stile e una manciata di interpretazione per lo più in chiave psicologistica) si glissa su ogni dissenso critico; né tantomeno sul fascicoletto distribuito gratis assieme al biglietto della mostra (che peraltro costa la cifra ragguardevole di € 12) al fine, in sé meritorio, di accompagnare la visita opera per opera, dedicando a ciascuna qualche riga (ma un po' troppo generiche e fuori fuoco per rispondere all'esigenza di una corretta e magari accattivante trasmissione di informazioni: che è poi l’unica che conti in questo caso).
Infine c’è l’aspetto, sempre leggermente sgradevole per quanto siamo tutti ormai rassegnati e assuefatti ad esso, dello sfruttamento pubblicitario del grande nome-totem per promuovere eventi che di fatto non lo vedono realmente protagonista, al fine di calamitare attenzioni mediatiche e alzare il numero dei biglietti staccati: un piccolo inganno, sempre più consueto, che abbiamo visto condotto sino a conseguenze estreme nel caso di Caravaggio, ma non per questo più potabile.
Una nota, infine, sul catalogo Skira, di bell’aspetto ma corredato di immagini di qualità modesta, piatte e spente (in modo particolare, perversamente, quelle relative alle opere esposte): veramente inadeguate a pennelli così fini.
Luca Bortolotti, 14/11/2012