fig%201"Il binomio Cavalier d’Arpino e disegno è uno dei temi fondamentali per capire appieno l’arte di Giuseppe Cesari”. Con queste parole, Marco Simone Bolzoni inizia l’introduzione al Catalogo ragionato dell’opera grafica nel suo ponderoso volume “Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Maestro del disegno”, da poco pubblicato per i tipi della Ugo Bozzi Editore, che si avvale, occorre sottolinearlo, di una resa grafica e di un corredo fotografico davvero eccellenti (fig. 1).
La stessa benemerita casa editrice romana, poco più di dieci anni fa, aveva dato alle stampe - perfino con la stessa intitolazione, eccetto il sottotitolo - la monografia completa dell’opera pittorica dell’arpinate, firmata da Herwarth Roettgen, studioso sull’argomento certamente tra i più conosciuti e preparati: il quale, peraltro, curiosamente, giusto in contemporanea con l’ottima ricerca di Bolzoni, sta procedendo anch’egli alla catalogazione dei disegni del Cavalier d’Arpino, prevista in tre volumi, di cui è stato appena pubblicato il primo.


Va detto che in tempi in cui l’attenzione di molti addetti ai lavori, per non parlare del pubblico, si concentra quasi esclusivamente su personalità eccezionali, quali Caravaggio, Michelangelo, Tiziano, Leonardo, tanto più appare meritoria questa inattesa - è il caso di dire - fioritura di lavori su un artista certamente importante, ma non altrettanto carismatico, come l’Arpino, per di più su un tema probabilmente di nicchia come quello della sua opera grafica.

Evidentemente era necessario che il Cesari ritrovasse il posto che gli spetta “tra i primi nella storia pittorica del Cinquecento e del Seicento romano”, come scrive Bolzoni, in quanto “artista-chiave per la comprensione dello sviluppo dell’arte a Roma” a cavallo tra un secolo e l’altro. Ecco, dunque, l’importanza di questo lavoro, nato dalla rielaborazione di una tesi di dottorato, che certamente si presenta con i crismi della serietà e della scientificità, e che effettivamente mette un punto fermo su un aspetto decisivo, ancorchè poco esplorato, del percorso artistico del Cavalier d’Arpino.
Nelle oltre centocinquanta pagine che precedono l’ampio Catalogo ragionato dell’opera grafica dell’artista, Bolzoni spiega, con una linearità ed una competenza non usuali per un giovane studioso quasi agli esordi, qual è stato l’iter grafico del Maestro: dalla sua formazione, all’uso e alla funzione dei disegni nella sua pratica artistica, dall’utilizzo e dalla tipologia delle sue tecniche, a come la sua “bella maniera” fece scuola, per concludere con un’esauriente panoramica sulla collezione dei disegni di Cesari, su come venne realizzata e sulla sua dispersione. Il lettore potrà trovare spunti e novità di rilevo, che hanno consentito allo studioso alcune aggiunte o sottrazioni importanti quanto coraggiose al catalogo dell’artista, e non solo dell’opera grafica.

fig 2Poco analizzato, in verità, è il contesto nel quale maturò la vicenda artistica del Cavalier d’Arpino, ma probabilmente sarebbe stato inutile, o in questo caso fuorviante, cercare di coglierne il quadro di riferimento, le valenze e le componenti ideologiche (ammesso che ci siano state), o spostare l’attenzione sulle premesse religiose o politiche, sovrapponendo allo studio delle opere d’arte l’analisi di quelle coordinate; e tuttavia, un’esegesi critica del volume, muovendo dal particolare al generale, non poteva che richiamare anche i riferimenti soprattutto alle vicende che accompagnarono la formazione e l’affermazione della sua figura e della sua opera, vale a dire i motivi che - nonostante tutto - lo videro spesso primeggiare, lui che non fu certo uno straordinario innovatore né tanto meno un rivoluzionario, in un momento invece di mutazioni eccezionali, quando la fase di transizione dal linguaggio manierista  a quello barocco veniva segnata da una formidabile messe di eventi e da personalità talmente straordinarie da determinare letteralmente per molto tempo il percorso dell’intera storia dell’arte occidentale. Va detto che Cesari visse quegli eventi rimanendo sempre sulla cresta dell’onda, mettendo a frutto una precisa trama di rapporti e frequentazioni.

Sono gli anni cruciali dei pontificati di Sisto V Peretti (1585 -1590) e di Clemente VIII Aldobrandini (1592 -1605) contrassegnati dalla lotta senza quartiere contro i protestanti  – con le inevitabili quanto obbligate ricadute sul terreno dell’arte non solamente figurativa - specie su temi fondamentali, oggetto di polemiche asperrime,  quali il valore dell’Eucarestia, il culto della Madonna, dei santi, dei martiri e delle loro reliquie. E se sul primo tema le idee dei riformatori erano com’è noto assai distanti tra loro, al contrario  la figura di Maria, Vergine e Madre, era da tempo il bersaglio privilegiato degli attacchi dei protestanti di tutte le confessioni perché considerata, al pari delle creature umane, anch’essa “non senza peccato”. Lutero, nel criticarne la figura, vi alludeva sarcasticamente come ad ”una piccola goccia di acqua nei confronti del mare”, ed anche Erasmo ne aveva ridimensionato il ruolo.
Ma l’effetto più grave, se si vuole, sarebbe stato lo scacco dato alle immagini ed anzi la sconfitta dell’immaginario, con  l’insorgenza di un iconoclasmo fobico che finì con l’agire nel profondo, determinando l’eclisse dei riferimenti delle immagini rispetto al reale, tanto che non a caso gli interni delle Chiese riformate sarebbero divenuti bianchi, intonacati a calce, privi di decorazioni.  
La reazione controriformistica in ogni caso fu senza mediazioni; in difesa delle tradizioni cattoliche e in risposta alle violente manifestazioni iconoclaste dei protestanti, Jean van der Meulen (meglio noto come Molanus), uno dei più agguerriti teologi cattolici, docente all’università di Lovanio, aveva controbattuto che la Chiesa era una “proiezione del cielo in terra”,  rivendicando quindi, stante la presenza di  Dio, che occorresse proprio “ornarla di quanto c’è di più prezioso”.

fig 3Il Concilio di Trento aveva peraltro ribadito senza tentennamenti il carattere sacro delle immagini nella sua sessione conclusiva, la XXV, con il decreto Della invocazione, della venerazione e delle reliquie dei santi e delle sacre immagini: ”Le immagini di Cristo, della Vergine Madre di Dio e degli altri santi devono essere tenute e conservate nelle chiese . Ad esse si deve attribuire il dovuto onore e la venerazione, non certo perché si crede che vi sia in esse una qualche divinità o virtù … ma perché … attraverso le immagini che noi baciamo e dinanzi alle quali ci scopriamo e ci prostriamo noi adoriamo Cristo e veneriamo i santi…”.
Ne sarebbe derivata una rappresentazione ancor più esaltante del culto della Vergine e dei santi, all’interno però di disposizioni e raccomandazioni da tenere ben presenti. Se infatti da una parte il culto e l’uso delle immagini veniva consigliato e ribadito, dall’altra si metteva in guardia affinchè si evitassero “pericolosi errori … ogni superstizione … ogni turpe ricerca di denaro”, e si bandissero, da parte degli artisti,  “arbitrarie licenze nel dipingere o … adornare  le immagini con procace bellezza”. Erano dettami che gli artisti non potevano non rispettare.

Si può dire che la miglior rappresentazione della simbiosi via via realizzatasi tra esigenze religiose e maestria artistica si ebbe allorquando il pontefice Paolo V Borghese (1605 -1621) fece costruire e decorare in Santa Maria Maggiore - con uno sfarzo che non aveva precedenti - la Cappella per la venerazione dell’immagine della Madonna detta Salus Populi Romani, creduta di mano di San Luca. Furono chiamati all’impresa gli artisti allora più in voga; e tra i pittori, insieme a Guido Reni, Giovanni Baglione, Ludovico Cigoli, vi era anche il Cavalier d’Arpino, il quale tra l’altro affrescò, nel semicerchio che sovrasta l’altare della Cappella, la Storia di San Gregorio Taumaturgo cui la Vergine, come si legge in un cartiglio retto da un angelo, reca il simbolo della lotta contro gli eretici.
In realtà, l’intero programma iconografico - sicuramente passato al vaglio del pontefice - rispondeva all’urgenza di riaffermare il ruolo della Vergine quale trionfatrice contro le vecchie e le nuove eresie, ed è certo che esso fosse ricavato da alcuni capitoli degli Annales Ecclesiastici, la grande opera storico-teologica che il cardinale Cesare Baronio (Sora, 1538 – Roma, 1607) aveva già parzialmente pubblicato molto prima dell’inizio dei lavori e che lo tenne occupato fin quasi alla fine dei suoi giorni. Sulla figura di questo prelato, sul ruolo determinante che egli rivestì, molto è stato scritto e detto; si sa, tra l’altro, che il Pontefice Clemente VIII – di cui Baronio era divenuto il confessore - aveva dato a lui la carica di “scomparire l’historie & le opere che si dovevano lavorare”.
Clemente VIII, al secolo Ippolito  Aldobrandini, che tenne il soglio pontificio dal 1592 al 1605, sarebbe divenuto - insieme al cardinal nepote, Pietro Aldobrandini - il “grande mecenate” del Cesari, probabilmente anche grazie alla malleveria di potenti protettori su cui l’artista già poteva fare affidamento e che lo introdussero presso il giovane cardinale, come ad esempio il banchiere Olgiati, divenuto Tesoriere del Papa, per non parlare di altri due ex cardinal nepoti, Paolo Emilio Sfrondato e soprattutto Alessandro Damasceno Peretti.
Ma c’è da dire che la condiscendenza e le protezioni, in una parola il patronage di cui potè valersi Cesari furono una costante nella sua attività e certamente ne favorirono impieghi e remunerazioni, anche quando cambiavano i suoi sostenitori. Basti pensare che anche dopo la morte di Clemente VIII, nonostante l’ ex cardinal nepote Pietro Aldobrandini fosse rapidamente caduto in disgrazia, malvisto da chi era appena subentrato nel ruolo (cioè Scipione  Borghese, nipote di Paolo V), la stella dell’artista arpinate non si appannò poi più di tanto.

fig 4Era già il 1611, infatti, quando si aprivano i cantieri a Santa Maria Maggiore e non a caso egli era ancora, come si è visto, nel novero dei massimi protagonisti della pittura contemporanea, nonostante fosse  più che cinquantenne e soprattutto nonostante le disavventure che lo avevano colpito: le vicende del fratello Bernardino, implicato in storie di estorsioni e ricatti, ma in particolare la condanna a morte - schivata, come si sa, solo grazie a un gravosissimo compromesso con il quale aveva accettato di cedere a Scipione Borghese le numerose e preziose opere d’arte collezionate - ricevuta nel noto caso giudiziario in cui si venne a trovare coinvolto  (fu accusato - non a torto - di essere il mandante dell’aggressione nei confronti di Cristofano Roncalli, alias il Pomarancio, prima suo amico poi rivale).
In realtà, come scrive Bolzoni, la sua carriera  “non venne minimamente intaccata”, da questo deprecabile accidente, tanto che infatti, così com’era avvenuto fino ad allora, l’artista avrebbe continuato “senza battute di arresto la sua corsa alla gloria”: una corsa cominciata giovanissimo, molti anni prima.

L’excursus dello studioso delinea in maniera assai convincente i vari passaggi che portarono Giuseppe Cesari, un artista dallo spessore non così incisivo sul piano intellettuale, ad affermarsi quale “Pictor Unicus Rarus et Excellentis Ac Primarius”, come venne definito dall’ “Illustrissimo Senato e Magistrato Romano” quando ebbe l’incarico - forse il più importante della sua carriera - di affrescare la sala dei Conservatori in Campidoglio. Era il 9 novembre del 1595 (ma i lavori si conclusero solo molti anni dopo), ed egli era già stato da tempo annoverato “pittore in questi tempi tra i primi”, cioè almeno dal 1586 allorchè, appena diciottenne,  venne ammesso alla prestigiosa Congregazione dei Virtuosi del Pantheon.
Risale con ogni probabilità ad allora, forse proprio al 1586, una prova grafica dell’Arpino di notevole valore storico, dal momento che, come scrive Bolzoni, “riassume brillantemente l’itinerario artistico del giovane Giuseppe”: si tratta del foglio con “La giustizia di Bruto”, oggi al Louvre, nato evidentemente come progetto destinato ad un affresco della Sala dei Capitani (ex sala del Consiglio Segreto) in Campidoglio (poi realizzato da Tommaso Laureti), dove il nostro “offre un saggio di vero e proprio virtuosismo nel quale ostentare l’intero repertorio figurativo assimilato e rielaborato negli anni di studio” (fig. 2).

fig 5Il clima generale non era allora certo dei più favorevoli per quanto riguarda la libertà creativa degli artisti; se è vero che dai cantieri sistini il linguaggio figurativo tradizionale stava lasciando il campo alla cosiddetta ‘nuova maniera romana’ basata sullo studio e sulla ripresa dell’antico, tuttavia la logica tridentina del ‘docere’  limitava fortemente le risorse dell’artista ingabbiandone in qualche modo le potenzialità e  l’autonomia immaginativa. “Non vi è una sola idea degna del termine invenzione in questi anni”, commentava non a torto a questo riguardo Claudio Strinati (cfr. Ricerche di Storia dell’arte, 1980).
Del resto che l’arte figurativa con la sua “potenza imitativa” dovesse tradursi in immagini che trasmettessero esse stesse l’idea della verità, rispondeva perfettamente a quanto aveva delineato il cardinale Gabriele Paleotti (Bologna, 1522 – Roma, 1597) - il vero promotore ed interprete della politica culturale della Chiesa - nei suoi notissimi Discorsi intorno alle immagini sacre e profane, dati alle stampe già nel 1582 (ma l’edizione definitiva sarebbe uscita dodici anni dopo), traducendo, si può dire, non solo la norma ma il senso stesso delle risoluzioni tridentine: l’idea della “verosimiglianza”, per usare un vocabolo caro al prelato bolognese, era in altri termini “la trasposizione nella cultura artistica moderna del motto ciceroniano del docere delectare movere“. Herwarth Roettgen, autore di queste riflessioni, ne ha dedotto come in queste condizioni “la ‘sublime’ grandezza dell’arte specificamente romana si dimostrò al di sopra dello stile individuale degli artisti”: come dire che lo stile personale di ogni singolo artista finiva per rivestire un’importanza assai poco determinante.
Ma se tutto questo è vero, rimane difficile capire come fosse possibile “negli affollatissimi cantieri lateranensi” voluti da Sisto V, per di più ad un artista appena diciassettenne, esplicitare il suo “estro” e addirittura  “la sua dirompente personalità”, come scrive Bolzoni. A meno che egli non sapesse ricorrere, certo con maggior perspicacia e magari con più mestiere di altri perfino più ‘navigati’ di lui, al linguaggio intramontabile dei maestri.

fig 6I disegni rimasti (fig. 3) di quei suoi primi affreschi andati perduti fanno capire in effetti molte cose: “Il segno scivoloso e liquido della penna, quello pastoso ed aggressivo invece delle due matite - scrive Bolzoni - è a ben guardare lo stesso … che identifica tutti i disegni di Giuseppe giovane, capace di cambiare ogni volta scrittura e attingere con disinvoltura da quelli che furono i suoi ‘manuali di studio’ identificati in Michelangelo e Raffaello … e poi Polidoro da Caravaggio e i più ‘contemporanei’ Raffaellino da Reggio e Federico Barocci”.
Certamente questa capacità di appropriarsi e di rielaborare i linguaggi dei grandi, questa “disinvoltura” nel maneggiarli, oltre, come si sa e come accennavamo, alle protezioni di cui poté godere, non furono le ultime cause del successo e dell’ascesa del Cavalier d’Arpino e gli consentirono di raccogliere molte importanti commissioni; già nel 1587, dal potente banchiere Bernardino Olgiati per la decorazione - realizzata agli inizi degli anni novanta - della omonima Cappella in Santa Prassede (fig. 4), considerata già da Roettgen “il capolavoro assoluto dell’artista”; l’anno dopo, quella per gli affreschi (distrutti in epoca napoleonica) ordinati dal cardinale Alessandro Farnese in San Lorenzo in Damaso; e quindi, nel 1589, quella per affrescare a Napoli la volta del Coro nella Certosa di San Martino. Un’impresa quest’ultima destinata ad influenzare tutti i maggiori artisti presenti allora nell’area partenopea.

fig 7Anche i primi cinque “indaffaratissimi anni” dell’ultimo decennio del secolo furono certamente molto proficui per il Cesari, il quale “con fare da vero impresario progettava lavori, gestiva cantieri, coordinava gli aiuti coadiuvato dal fratello Bernardino ed accettava commesse che a volte lasciava in sospeso per anni interi”. Grazie all’appoggio degli Aldobrandini, infatti, gli vennero affidati i cantieri più importanti; tra le altre cose, doveva “chiudere i lavori nella Cappella Olgiati, proseguire la decorazione della Cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi … e decorare la loggetta di Corrado Orsini”. Insomma, l’artista era certamente ormai “il pittore emergente più importante sulla scena romana”.
Ma quello fu anche il periodo determinante per la sua maturazione. L’Arpino “si avvia verso la completa autonomia artistica”, dice Bolzoni, e ne sono chiara testimonianza le prove grafiche che lo studioso mette a confronto per i progetti delle cappelle Olgiati e Contarelli: ”Abbandonato il vecchio taglio manierista, le figure acquistano un’inedita classica monumentalità, le curve si addolciscono … i lumi si fanno di un chiaroscuro più morbido”;  insomma è il ritorno consapevole alla lezione di Raffaello (figg. 5 e 6).

fig 8In effetti, le esperienze maturate si andavano ricomponendo dentro una cifra stilistica più compiuta e ponderata. E questo compimento della sua maturazione di stile, Bolzoni lo fa risalire senza esitazioni all’incontro con Federico Zuccari. “Federico - scrive bene l’autore - nutriva forse più di ogni altro il desiderio di dirigere la moderna pittura romana lontano dalla monotonia della maniera dei pittori sistini … Era necessario fare un passo indietro, riprendere da capo  e ripercorrere la lezione di Raffaello, di Michelangelo, di Daniele da Volterra, di Francesco Salviati, di Perin del Vaga e del fratello Taddeo”. Evidentemente Cesari fu attratto da questa impostazione, tanto da maturare una vera maestria nella grafica: ”I suoi disegni - sottolinea Bolzoni - stupiscono ancor più dei dipinti per originalità inventiva eleganza forza creativa” (fig. 7).

E’ evidente infatti come la manipolazione, se così si può dire, di tanti e assai autorevoli autori consentisse all’artista una più ampia autonomia di espressione, e tuttavia, nella libertà della creazione, la promiscuità delle immagini poteva certo generare associazioni a volte imprevedibili, forse perfino non intenzionali.

fig 9Non si può spiegare altrimenti - se non, ma ci pare limitativo, per il motivo che dovette venire incontro al gusto di certi committenti - perché a fogli dai contenuti esplicitamente “sensuali e piccanti”, come dice Bolzoni, come la Ninfa marina aggredita da due tritoni, o l’Andromeda legata alla rupe (figg. 8 e 9), si giustapponesse una grafica affatto differente, concepita per un’arte asservita a intenti dichiaratamente dottrinari.
La verità è che sia pure in anni di severi controlli e dure reprimende, la mitologia, i suoi personaggi e le favole antiche non potevano certo essere bandite, anche se esse erano realmente il regno del nudo, della sensualità, dell’erotismo.
Si sa come Carlo Borromeo facesse letteralmente sparire il nudo ovunque gli capitasse a tiro, così com’è noto che il gesuita Bellarmino inducesse a far coprire i nudi dei quadri, e come, anche molti anni dopo, Innocenzo X  Pamphili  e Innocenzo XI Odescalchi si comportassero analogamente con opere di Guercino e Guido Reni.
E tuttavia gli artisti - Arpino tra questi, come si è visto - studiavano e copiavano anche i nudi di Michelangelo e Raffaello, disegnavano figure e parti anatomiche da modelli dal vivo, oltre che da marmi e gessi antichi: neppure l’ecclesiastico più intransigente avrebbe potuto impedirlo. In buona sostanza, la cultura tridentina, certo tra chiusure e limitazioni, non riuscì ad esorcizzare “una conquista alla quale l’umanità non poteva ormai più rinunciare e neanche la Chiesa vi avrebbe acconsentito, poiché amava questa antichità che essa aveva redento” .

fig 10Emile Male, lo studioso da cui abbiamo tratto queste citazioni, notava come, d’altro canto, “molti artisti furono scrupolosi quanto i Pontefici”. Bartolomeo Ammannati (Settignano, 1511 – Firenze, 1592), ad esempio, scrisse poco prima della sua morte agli accademici fiorentini affinchè rinunciassero alle nudità delle statue (“un libro cattivo si può chiudere, ma le statue si offrono continuamente ai nostri sguardi”), così come un cattolico intransigente come Philippe de Champagne (Bruxelles, 1602 – Parigi, 1674) “non avrebbe mai accettato di dipingere un nudo”.
Insomma, se è vero che  “il mito e il nudo eroico vennero accettati come splendido ornamento delle dimore”, le regole tridentine si preoccuparono di fissare e stabilire invece a beneficio comune il fine e la destinazione della pittura (e più in generale delle arti).

Sotto il severo pontificato di Clemente VIII queste finalità e finanche le modalità espressive vennero omologate, e questo fu appunto il compito che si assunse il Paleotti, facendo  passare l’idea - invero non sempre condivisa dagli altri trattatisti del tempo - che né la maniera, né la struttura di un’opera fossero altrettanto importanti quanto il suo “contenuto”, ossia un canone figurativo capace di operare - attraverso le immagini - quella specie di illuminazione dell’anima che doveva rinvigorire la fede degli osservatori, esortandoli all’azione e invadendo letteralmente la loro fantasia. Un’idea che si sarebbe pienamente dispiegata nei secoli del barocco, ma che non avrebbe avuto poca influenza già sul finire del secolo, nel solco di quella che Claudio Strinati ebbe a definire “l’arte ufficiale clementina” (cfr. Storia dell’Arte , 1990), segnata dalle imprese di San Giovanni in Laterano (ma non solo) in occasione del giubileo del 1600, i cui lavori erano stati affidati al Cavalier d’Arpino direttamente dal Papa, e dove il pittore fu occupato nella direzione degli affreschi della “Nave Clementina", ossia il nuovo transetto voluto dal pontefice.

fig 11La ricostruzione precisa e documentata di Bolzoni lascia in effetti immaginare lo studio dell’artista come in preda ad un magmatico caos, dove si ammucchiavano fogli di ciò che studiava e doveva progettare, ma anche di quanto aveva osservato, riprodotto e selezionato: immagini di opere sacre e profane, come si è visto, studi di ogni tipo di figura, di divinità, di esseri umani, di animali e perfino di paesaggi (fig. 10) per non dire dei ritratti, “un versante poco noto dell’arte dell’Arpino” cui Bolzoni ha dedicato una parte significativa del suo lavoro, proponendo passaggi attributivi coraggiosi, ancorchè forse bisognosi di maggiori delucidazioni (fig. 11).
La cosa non deve meravigliare; è ovvio che per gestire al meglio il lavoro nei grandi cantieri aperti e poter rispondere ad una richiesta del mercato sempre più incalzante Cesari dovesse lavorare con grande lena, oltre che organizzare la sua attività su più fronti. E’ come se sulla piazza romana fosse apparso una sorta di “homo novus”, come scrive bene Bolzoni, “non solo pittore di fama, ma anche commerciante d’arte, consulente artistico, animatore culturale, uomo di corte”: e proprio in questa veste accompagnò Pietro Aldobrandini in delicate missioni diplomatiche a Ferrara e in Francia. Il soggiorno nella città emiliana e la successiva tappa a Venezia gli diedero, tra l’altro, la possibilità di arricchire il suo bagaglio culturale di fronte ai capolavori di Dosso, Tiziano e in genere della pittura veneta.

fig 12Al rientro a Roma, la nomina a Cavaliere di San Pietro, conferitagli dal papa nel 1600, fu come la ratifica del suo ruolo “ormai trionfante”. La città eterna del resto dettava già quelli che erano gli indirizzi in campo artistico, e da tutta Europa, oltre che dal resto d’Italia, arrivavano sempre più numerosi i giovani artisti attirati dalle prorompenti novità di cui si iniziavano a percepire gli echi. Il Cavalier d’Arpino,  “al centro della vita artistica” della città, avrebbe visto passare nella sua bottega, nel corso di oltre quarant’anni, moltissimi di questi giovani: Caravaggio, Tanzio da Varallo, Morazzone, e poi più avanti Andrea Sacchi e Pier Francesco Mola, e molti altri meno noti. La sua schola verrà annoverata dallo storico Giulio Mancini, nelle sue Considerazioni sulla pittura, tra le quattro più importanti del tempo. Ma se questa fu la prova della forza raggiunta dal pittore in quegli anni cruciali, il fatto che nessuno tra gli artisti che abbiamo nominato possa essere considerato un suo emulo, ne segnala anche tutta la debolezza. La ricerca del successo e della gloria, in una parola del potere, era sempre stato in realtà il vero obiettivo dell’arpinate; le modalità dell’interpretazione e della rappresentazione dell’opera d’arte, la riflessione sul ruolo e sul mestiere dell’artista in quanto trasmettitore di valori e di cultura, furono probabilmente per lui sempre opzionali, una sorta di dettaglio facilmente modificabile, sempre che la modifica potesse essere utile e funzionale al traguardo che egli si proponeva.

fig 13Non è un caso che Arpino non percepì neppure la portata radicalmente innovativa della rivoluzione caravaggesca. Scrive Bolzoni che egli “non si piccava minimamente delle novità dell’arte a Roma che avevano sorpassato la tradizione ormai al tramonto alla quale rimaneva tenacemente affezionato”, sicuro com’era della sua posizione di “primo pittore della capitale “. Né le cose sarebbero mai cambiate, se è vero è che ancora sul finire del primo quarto del XVII secolo il Cavaliere “non vedeva ancora scalfita in alcun modo la sua fama”, pur continuando a riproporre un’arte ancorata a schemi di un quarto di secolo prima, come ha sottolineato Roettgen citando la santa Maria Salomè con la pisside in mano dell’omonima chiesa di Veroli (fig.12).

Le ultime “grandi fatiche” dell’Arpino furono la decorazione della cupola della basilica di San Pietro, praticamente scippata al Pomarancio, e gli affreschi già citati nella Cappella Paolina. Siamo però già pienamente in quello che Bolzoni ha definito “l’autunno del Cavaliere”, quando effettivamente “la qualità dei dipinti e dei disegni non ne eguaglia la quantità”; al contrario, assistiamo “ad una progressiva astrazione delle forme e dei segni”, e i disegni, insiste lo studioso, sono ridotti  a “geometrie semplici, prossime a volumi essenziali, con gli ovali dei volti banalmente ridotti a forme infantili dalla morfologia sempre identica”, che peraltro pare tipica, in particolare, nella “curiosa produzione a pastello” (figg. 13-15).

fig 14Non sappiamo se un approfondimento maggiore dei contenuti iconografici avrebbe contribuito a gettare una nuova luce su queste esperienze dell’Arpino e magari forse a spiegarne meglio le scelte stilistiche degli ultimi anni. La verità, come nota l’autore, è che questi lavori realizzati sul finire degli anni Trenta “sembrano rappresentare quasi un addio alla carriera”; l’artista vi si conferma  “stanco, intorpidito malinconico”, e però sempre “tenacemente desideroso di disegnare - e dipingere - fino all’ultimo”. Fino a quando, cioè, come scrive Bolzoni citando l’epitaffio di Giovanni Baglione, “poco lieto chiuse i suoi giorni nel dì 3 di luglio dell’anno di nostra salute 1640”.
Pietro Di Loreto, 16/07/2013



fig 15Marco Simone Bolzoni
Il Cavalier Giuseppe Cesari d’Arpino. Maestro del disegno.
Catalogo ragionato dell’opera grafica
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Ugo Bozzi Editore, Roma 2013
pp. 460, 103 ill. a colori / 400 in bianco e nero, € 200