Nel febbraio del 2015 la
Galleria della Biblioteca Angelica di Roma ha ospitato la prima importante

mostra personale di
Giò di Busca, scultore milanese in grado di plasmare con sensibilità e notevole abilità creativa e tecnica le tante suggestioni del mondo contemporaneo. A un anno e mezzo di distanza dall’esposizione romana, che riscosse tanto successo di pubblico e di critica, quindici sculture giganti, in bronzo e acciaio, hanno invaso il Tigullio. Ospitate in una mostra diffusa in
Piazzetta a Portofino, ma anche per le vie di
Santa Margherita Ligure, a
Villa Durazzo e al
Grand Hotel Miramare, le sue creazioni sono sempre accolte con entusiasmo perché racchiudono culture radicalmente opposte, legate alla natura e alla musica ma anche a una tecnica che tutti sono in grado di leggere e apprezzare.
Ma la semplicità narrativa della sua produzione è solo apparente. La cultura estetica dello scultore affonda le radici in un percorso storico-artistico che abbraccia per lo meno tutta la seconda metà del XX secolo che in occasione della mostra romana ebbi modo di illustrare.
Quando nei primi anni ‘60
Andy Warhol regalava le immagini dei simboli del consumismo economico e culturale dell’Occidente, con sintesi lucida e razionale aveva colto l’essenza del secolo vecchio e la direzione del nuovo, portando allo stesso tempo alle estreme conseguenze il principio della riproducibilità dell’opera d’arte e dell’arte come prodotto commerciale. Le icone di Warhol sono le personificazioni di un secolo – il XX – che le ha generate e l’anticipazione di un altro – il XXI – che continua a produrle. La pop art sembrava aver detto tutto e aver riassunto le avanguardie e i movimenti che nel confronto e sovrapposizione, intreccio e tangenza, denigrazione ed esaltazione hanno creato il più vitale e appassionato periodo della storia dell’arte occidentale. La frenetica ricerca estetica contemporanea, distruggendo la forma classica e sovvertendo la dimensione spazio-


temporale, ha dato vita a un linguaggio internazionale e globale, a una nuova grammatica di segni e di colore, che nella
querelle – sempre aperta - tra astratto e figurativo, ha visto quest’ultimo soccombere alle necessità della critica e del mercato. E quanti hanno voluto continuare ad occuparsi di figurazione, hanno pagato il peso di una scelta coraggiosa e controcorrente.
Le sculture di
Giò di Busca dimostrano che si può essere artisti anche contravvenendo gli imperativi assoluti del ‘900 e che, anzi, il dialogo tra gli opposti può dar vita a un nuovo interessante codice estetico. Cosa è
Francesca se non una novella Gertrude Stein? Come Picasso dipinse la testa della Stein con uno stile che differisce dal corpo e dalle mani, così
di Busca contrappone il volto della donna al corpo la cui grazia ellenistica, sfuma nell’eleganza di un’ala o di una pinna, di un uccello o di una sirena, allontanandolo così dalla propria rappresentazione naturalistica. Il contrasto tra il modellato morbido del corpo e quello appuntito dei libri, che Francesca tiene con sé, è la cifra stilistica di
Giò di Busca, è la sua firma incontrovertibile. Lo ritroviamo in diverse declinazioni in
America, in
Africa, in
Europa, in
Le Concert, ne
I Quattro Elementi, nella straordinaria serie di
Chiave interstellare, o ancora in
Scatola magica. Il gioco di curve e spigoli modella e rende plastiche le sue sculture che

prendono vita grazie al

contrasto di luci e di ombre create dalle molteplici forme geometriche, giustapposte e sovrapposte con sapienza e perizia di bottega. Perché le opere del
di Busca potrebbero essere uscite da una bottega fiorentina del ‘400, in virtù di un processo creativo che – come aveva teorizzato l
’Alberti - «
nelle bellissime, e ornatissime cose arreca satisfattione, quel’ certo nasce, ò da la fantasia, e discorso dello ingegno; ò dalla mano dello Artefice, ò vero è inserto in esse cose rare dalla Natura. Allo ingegno si apparterrà la elettione, la distributione, e la collocatione, e simili altre cose, che arrecheranno dignità all’opere. Alla Mano lo accozzar’insieme, il mettere, il levare, il tor’ via, il tagliar atorno, il pulimento, e l’altre cose simili, che rendono l’opere gratiose. Alle cose è inserto dalla Natura la gravezza, la leggerezza, la spessezza, la purità».
Fantasia e finezza di pensiero accompagnano
Giò di Busca da quando abbozza le opere sulla carta, attraverso «
il mettere, il levare, il tor’ via, il tagliar atorno, il pulimento, e l’altre cose simili», fino alla creazione del modello pronto per la fusione. Il pezzo finito, ogni singolo pezzo finito, è un ricordo del passato e una riflessione sul futuro. Le sculture del di Busca rievocano ora la
Nike di Samotracia – come in
Ali –, ora un brano di natura morta lombarda del

‘600 – si vedano le tante
Rane, declinate in materie e misure diverse –, ora una mano di
Michelangelo, ora lo sperimentalismo di
Leonardo, ora una piazza di
De Chirico. Ma non è un mero esercizio di stile, o stanco italico eclettismo, a guidare la mano dell’artista. A condurlo, verso queste alte soluzioni formali, c’è un timido desiderio di neo-umanesimo che sfrutta il ricco vocabolario dell’arte italiana utilizzato per costruire un linguaggio nuovo, un linguaggio contemporaneo, quello del XXI secolo.
Credo che la formazione d’architetto abbia impresso nella sua mente un meccanismo creativo basato su regole razionali e scientifiche, che però mai si rivelano in aride composizioni cartesiane ma si manifestano nei raffinati ed eleganti dettagli decorativi di ogni singola creazione. E’ la cifra del suo anti-accademismo che lo spinge a riflettere su cosa potrebbe salvare il mondo reiterato, uguale, monotono che aveva invece colpito l’immaginazione di Warhol. Nascono da questo processo opere come
Francesca che abbraccia con tenero amore dei libri - forse metafora della Conoscenza;
Il concerto, rappresentazione di un violino che sopravvive intatto al sovvertimento fisico della terra – metafora della
Musica; la
Scatola Magica, metamorfosi di oggetti che si rincorrono nel loro viaggio di mutazione senza fine - la
Fantasia;
Emitheos, la Bellezza, rielaborata personificazione di Kronos. La forza evocatrice del
Bello policleteo dà vita alle due allegorie. Il
Tempo dialoga con il passato, che sta alle sue spalle, e il futuro, simbolicamente rappresentato come un regolo o una finestra aperta che
Kronos indica pensieroso.
Emitheos, senza testa e senza gambe, con un braccio mutilo e una mano trancia, guarda nel vuoto.
La scelta dei materiali, bronzo e acciaio, rinforza e dà coerenza alla poetica di
Giò di Busca, che sembra proporre un chiaro progetto pedagogico.
E come
Emitheos non si rassegna all’uniformazione culturale.
Le quindici opere sono ammirabili fino al 22 settembre.