Giovanni Cardone Giugno 2023
Fino al 5 Settembre 2023 si potrà ammirare a Palazzo Medici Ricciardi Firenze la mostra dedicata a Luca Giordano. Maestro Barocco a Firenze a cura di Riccardo Lattuada, Giuseppe Scavizzi e Valentina Zucchi.  La mostra, organizzata da Città Metropolitana di Firenze e Mus.e con il sostegno di Business Strategies, intende riservare al pittore napoletano e al suo legame con il palazzo e con la città di Firenze un’attenzione speciale. In mostra una selezione di circa 50 opere alcune delle quali mai viste a Firenze prima d’ora, profondamente connesse agli affreschi delle due volte. Fra queste spiccano la serie di dieci bozzetti della Galleria degli Specchi, risalenti alla collezione Mahon e oggi di proprietà della National Gallery di Londra, che per l’occasione saranno messi in dialogo diretto con la volta. E ancora, le Virtù distribuite in varie collezioni private europee e poi quadri provenienti da prestigiosi musei italiani come le Gallerie degli Uffizi, il Museo dell’Opera del Duomo di Siena, il Museo Stibbert di Firenze e il Museo di Palazzo Mansi a Lucca oltre ad opere provenienti da collezioni private italiane e americane. A queste faranno da controcanto i documenti riferiti alla committenza riccardiana, alla definizione dell’invenzione e all’esecuzione dei dipinti, custoditi presso le biblioteche e gli archivi cittadini. Il percorso espositivo indagherà ulteriori aspetti della committenza e dell’attività fiorentina di Luca Giordano, valorizzando in particolare le opere più vicine per soggetto, più originali per tecnica e più significative nell’excursus del pittore, tessendo un racconto fortemente suggestivo. Il percorso espositivo è centrato sul rapporto intercorso, attorno agli anni Ottanta del Seicento, fra il pittore napoletano e le grandi famiglie fiorentine, pronte ad accogliere le novità della sua pittura e a investirlo di importanti esecuzioni. Fra queste oltre ai granduchi medicei si ricordano le famiglie Del Rosso, Corsini, Sanminiati, Andreini, Martelli e Riccardi, a cui il pittore lascerà in consegna importanti capolavori su tela e a fresco destinati a segnare la storia del Barocco in città. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Luca Giordano apro il mio saggio dicendo :  Il termine mnemonico artificiale di baroco, adoperato dagli Scolastici per designare il quarto modo della seconda figura del sillogismo, assunse, per reazione alla pedanteria scolastica, un significato spregiativo, cosicché la parola divenne nel linguaggio comune sinonimo di ragionamento stravagante o capzioso. Così, dall'indicare una forma logica del ragionare, quella parola giunse a significare la negazione stessa della logica e della misura. Fu quindi applicata a designare la letteratura gonfia, ricca di iperboli, smaniosa di stupire, di cui furono rappresentanti tipici l'Achillini, il Marino, l'Artale. Quanto alla musica, il Seicento offre due grandi fenomeni nuovi, entrambi manifestatisi in Italia prima che altrove: il melodramma e la musica strumentale su strumenti di nuova invenzione, restati poi nell'uso moderno, come quelli ad arco a quattro corde. Ma in tali novità è da vedere, soprattutto, il coronamento ideale degli studî e delle aspirazioni del Rinascimento. Un vero e proprio barocchismo si avverte però nella scuola romana, sia polifonica (Benevoli), sia d'oratorio (Carissimi), la prima come ultima trasformazione dello stile palestriniano - trapasso analogo a quello avvenuto nell'architettura - l'oratorio sotto l'influenza dell'opera. Barocca può anche chiamarsi la scuola bolognese di musica sacra. Maggiore rispondenza agli spiriti del barocco si nota in Francia, ove l'opera ebbe più dello spettacoloso (pittorico) che non del drammatico (musicale), valendosi anche del décor scenografico e della coreografia. Ma in Germania veramente il barocco ebbe la sua più alta espressione musicale, per ricchezza di forme e potenza di membrature nell'arte di Giovanni Sebastiano Bach. Ma, anche più frequentemente che di letteratura e di musica si parla d'arte barocca; e dell'arte, e poi in particolare dell'architettura, intendiamo toccare in quest'articolo. L'epiteto di barocca, affibbiato all'arte di tutto un periodo che ha il suo pieno sviluppo nel Seicento e le sue propaggini in gran parte del Settecento, fu usato a titolo di spregio dalla critica accademica del primo Ottocento. Essa, in quanto reagiva violentemente contro le leziosaggini, le stravaganze, le teatralità, le vacuità del barocco degenerato nel rococò e caduto troppo spesso nella maniera, da che s'era esaurita la prima ed esuberante vena creativa, era la meno capace a comprendere l'arte barocca e quindi a valutarla con giustizia. Ne scherniva e ne esagerava per fine polemico i difetti, ne dimenticava o misconosceva i pregi reali. D'altra parte la critica medesima, che poneva come ideale supremo dell'arte l'euritmia dei Greci e l'imperturbabilità delle loro figure umane atteggiate con estrema parsimonia di gesti, non poteva se non disprezzare quanto v'era di movimentato, di accidentato, di drammatico e talvolta di enfatico nell'arte barocca.Una più serena valutazione dell'arte del Seicento e del Settecento ha cominciato a farsi strada sul principio del sec. XX per opera di studiosi che hanno cominciato a mettere in luce le principali figure d'artisti del periodo barocco, avendo abbandonato i pregiudizî accademici che s'erano radicati per tutto l'Ottocento e avendo adottato concetti critici meno parziali e più comprensivi. Qualcuno anche oggi insiste nel dispregiare con l'appellativo di "barocco" ciò che dovrebbe addirittura essere escluso dal campo dell'arte. Ma ciò dipende da taluni presupposti concettuali che, limitando l'analisi critica alla mediocre o insulsa letteratura di quel tempo e restringendo l'arte ad espressione di lirica pura, ne eliminano per coerenza dialettica molti elementi che sono pure parte integrante dell'arte in genere e dell'arte barocca in specie. In realtà l'arte barocca fu nell'origine un moto di legittima reazione contro quell'arte della seconda metà del Cinquecento che s'era fatta in architettura una ripetizione stracca di canoni elaborati durante tutto il Rinascimento, in scultura e in pittura il riflesso d'una adorazione idolatra per l'arte di Michelangiolo e di Raffaello, imitati dagli artisti nelle forme esteriori e non nel loro spirito eternamente vivo, sì da giungere a quel formulario ripetuto fino alla nausea che prese poi il nome di "manierismo". E come Roma era stata il centro di fioritura del manierismo, così Roma fu il centro della battagliera e trionfante reazione. Contribuì notevolmente al definirsi e al diffondersi dell'arte barocca il mutato spirito della Chiesa cattolica, la quale, costrettasi durante quasi tutto il Cinquecento in quella austerità di vita, di atteggiamenti e di pratiche che doveva scagionarla dalle accuse di rilassatezza nei costumi e quasi di degenerazione pagana lanciatele dall'intransigente Riforma protestante, aveva ripreso animo sul principio del Seicento quando la compagnia di Gesù s'era dimostrata la forza militante della Controriforma; aveva poi nettamente trionfato e aveva anzi inaugurato quella che può definirsi l'epoca imperiale del Papato, quando la vittoria della Montagna bianca vicino a Praga  nel 1620 aveva affermato la superiorità decisiva delle forze cattoliche di fronte a quelle della Riforma. Allora tutto ciò che per lunghi anni era stato compresso e represso tornò a manifestarsi: letizia del vivere e dell'adornare, senso del reale e del drammatico, bisogno della libertà e della fantasia fuor dai canoni in cui l'arte come la vita s'era irrigidita e cristallizzata. In architettura s'instaurò un gusto dei rilievi risentiti nelle masse e nelle sagome e del chiaroscuro fortemente accentuato, che traeva la sua origine dallo stile di Michelangiolo, vigorosamente plastico anche nelle architetture, e si collegava quindi spontaneo con l'arte dell'Impero romano, giunta, attraverso i movimenti liberi delle masse, il senso del vasto spazio interiore, la curvatura delle pareti, delle vòlte e delle cupole, l'indipendenza dai canoni ellenici, l'arditezza e l'originalità dei metodi costruttivi, a forme che oggi si possono riconoscere vicinissime a quelle dell'architettura barocca, sebbene per risuscitarle e svilupparle sia intercorso più d'un millennio. Al vigore del chiaroscuro nello sporgersi e nell'arretrarsi delle masse, alla libertà ricca di fantasia con cui furono interpretate le forme classiche, usati gli ordini, riprese le modanature dell'antichità, va aggiunto nell'affermarsi dell'architettura barocca il gusto dominante degli effetti prospettici, sì che tutto parve intonarsi alle norme di quell'arte della scenografia che allora entrava in rigoglio e alla quale si dedicavano con entusiasmo non solo gli specialisti della prospettiva teatrale ma anche i maggiori architetti del Seicento, primo fra gli altri Gian Lorenzo Bernini. Giungeva così l'architettura barocca a effetti drammatici di prospettiva e di chiaroscuro che costituiscono la sua originalità e il segreto della sua piena affermazione e diffusione in un'epoca in cui piacevano intensamente i contrasti violenti, nella vita come nell'arte. La scultura barocca si ridusse essenzialmente a un commento figurato dell'architettura; come questa, s'ispirò nelle origini a Michelangiolo e alle opere dell'arte ellenistico-romana. In Michelangiolo, che del resto adorava il torso del Belvedere e il Laocoonte, trovarono gli scultori barocchi il senso d'una plastica vigorosa che sottolineava il rilievo anatomico in una ondulazione di larghi piani, che volentieri s'addentrava nel frastaglio dei panneggi e delle chiome e amava gli atteggiamenti drammatici delle figure; nella scultura ellenistico-romana essi videro il gusto del movimento attraverso gl'intrecci delle composizioni, lo sbandieramento dei drappi, l'esuberanza dei gesti, l'affollarsi delle figure in gruppi e in altirilievi che dovevano avere una funzione ornativa nell'ambito delle architetture; e sentirono anche la vita che c'era in certi ritratti romani fortemente espressivi del carattere dei personaggi. Anche in scultura Gian Lorenzo Bernini fu il capostipite d'una lunga discendenza; in certo senso egli reagì contro quel manierismo scultorio che aveva avuto i suoi rappresentanti nel Danti, nel Montorsoli, nell'Ammannati, nel Bandinelli fino a quegli scultori compassati, freddi, mestieranti che avevano operato molto sotto i pontificati di Sisto V e di Paolo V. A tali maniere leziose e ristampate, il Bernini aveva opposto l'esuberanza della sua scultura d'impeto, fatta di moto, di torsione, tratta da studî sul vivo, ricca di gesti, di pose, compiaciuta da certe bravure nate dalla virtuosità dello scolpire il marmo e ridurlo ad eburnee sottigliezze del traforo. S'aggiunga a questo il gusto del teatrale, il bisogno di decorare le architetture con rilievi, con statue nelle formelle, entro le nicchie, sui timpani, oltre i cornicioni, in quantità più che in qualità; si noti che Bernini stesso fu capo d'una compagnia di scultori che interpretò semplici suoi schizzi e popolò di figure chiese, palazzi e fontane; si capirà allora come si formò e si sviluppò la scultura barocca. Non per questo essa ebbe scarsa originalità e vitalità. L'impronta che le aveva dato il Bernini creatore e la funzione che aveva assunto di decorare le architetture con tanta aderenza allo spirito del tempo in cui fioriva, bastano a giustificarla anche negli eccessi a cui furono condotti gli scultori, come il Mochi, il Raggi, il Ferrata, il Fancelli, il Guidi, il Rusconi e lo squisito Serpotta, nella disinvoltura del loro molto operare. La forza espressiva di certi ritratti in busti o statue del Seicento, primi fra tutti quello del Bernini e dell'Algardi , dimostrano quanta profondità potevano raggiungere anche coloro che sembravano più superficiali. La fantasia degli scultori fu, come quella degli architetti, così esuberante nell'età del barocco che furono creati i tipi monumentali del sepolcro e della fontana in una stragrande varietà di motivi. Talora anche la scultura, che si compiaceva d'effetti pittorici, giunse a sostituire i quadri sugli altari, ridotti quasi a palcoscenici, con effetti paesistici negli sfondi; e si giovò largamente di marmi policromi, di dorature, di stucchi colorati, di metalli rapportati per sottolineare proprio col colore queste sue tendenze pittoriche. Anche in ciò si ricollegava al gusto ellenistico-romano, ricco d'effetti tratti dal materiale policromo in architettura come in scultura. Nel campo della pittura l'arte barocca ebbe maggiore varietà di effetti per il maggior numero di figure d'artisti degne d'esser poste in prima linea. Impulso primo a rinnovarsi fu dato anche alla pittura dalla nausea generale contro il manierismo di Giulio Romano, del Vasari, degli Zuccari, del Cavalier d'Arpino e di tutti gli sfiaccolati epigoni di Michelangiolo e di Raffaello. Allora la reazione si concretò in due opposte correnti: nel realismo possente di Michelangelo da Caravaggio e nell'eclettismo suadente dei Carracci e dei loro compagni. L'arte del Caravaggio fu un richiamo brutale alla realtà della vita e allo studio attento della natura; fu tanto più efficace quanto fu più franco e improvviso. Il realismo del Caravaggio è però prettamente un impulso, un pretesto per rinnovare dai fondamenti l'ambiente pittorico a cui si contrapponeva, per organizzare composizioni spaziali in cui le masse emergevano in cruda luminosità dalle oscurità fonde dell'ombra, masse rilevate e tagliate da lame di luce trasversa, intrige di colore a corpo, disposte in nette linee prospettiche, animate dalla drammaticità d'un chiaroscuro vivissimo di contrasti. In ciò l'arte del Caravaggio, che è di tale schiettezza e semplicità da contrastare vivamente con le definizioni dispregiative in cui è compreso superficialmente tutto il Seicento, si ricollega pienamente con l'arte barocca del suo tempo dando vigore ad alcuni caratteri essenziali affermati contemporaneamente dall'architettura. La rivoluzione che egli portò nel campo della pittura fu grande ed ebbe effetti vastissimi; molti pittori del Seicento ne furono conquistati, dagli immediati seguaci, Saraceni, Gentileschi, Serodine, ai pittori dell'Italia meridionale fra i quali primeggia Mattia Preti, agli stessi veneti attraverso al Feti, al Lys ed ai carracceschi, come il Reni e il Guercino; gli echi se ne prolungarono fno ai primi impressionisti dell'Ottocento, specie nell'arte del Manet. L'eclettismo fondato dai Carracci, lasciate al Caravaggio ed ai seguaci la drammaticità del chiaroscuro e l'organizzazione sintetica dello spazio con poche linee e pochi toni essenziali, prese tutt'altra via. Si tenne allo spirito decorativo, al carattere scenografico e paesistico dell'arte barocca; e mentre alla rivoluzione caravaggesca era estranea qualunque velleità ornativa, la pittura secentesca che ha come capostipiti i Carracci, il Domenichino, l'Albani e che molto deve all'arte del Correggio, mirabilmente servì ai temi dettati dall'architettura quando, unendosi con i prospettici e con gli scenografi, invase le mura, le vòlte e le cupole popolandole di figure volanti e gesticolanti, di scorci, di prospettive, di paesaggi, di voli, di drappi al vento e di nuvole. In ciò questa corrente della pittura secentesca, di cui i maggiori rappresentanti furono, dopo i carracceschi, il Sacchi, il Maratta, Luca Giordano, il Baciccia, Pietro da Cortona, il padre Pozzo, fino al Batoni ed al Tiepolo, interpretò la tradizione pittorica italiana che risaliva allo spirito decorativo della pittura ellenistico-romana nelle pareti dipinte e organizzate in prospettive architettoniche onde i primi tre secoli di Cristo furono ricchi. Può sembrare talora che a tale corrente della pittura secentesca, specialmente se la si confronta con la profondità caravaggesca, si debbano rimproverare alcuni dei difetti che si rimproverano al Barocco: eccesso di spirito decorativo, disinvoltura, superficialità, teatralità, tendenza a stupire più che a convincere; ma è innegabile che il fenomeno della sua affermazione e diffusione fu grandioso e tale da rispondere in modo spesso eccellente ai bisogni e ai gusti di un'epoca sfarzosa, conscia dei proprî ideali e decisa ad affermarli in ogni campo. Chiamare tale epoca età di depressione spirituale e di ariditb creativa, come alcuni hanno fatto, è esprimere giudizio parziale in quanto viene a disconoscere in quell'età l'affermarsi del pensiero scientifico moderno, il nascere della nuova musica, il fiorire delle arti figurative, ricche proprio di facoltà creative. Le arti che si dicono minori parteciparono largamente a determinare in ogni campo il gusto di quell'epoca. L'arte dell'incisione al bulino e all'acquaforte ebbe una larghissima fioritura e sempre meglio conquistò la padronanza delle sue tecniche, sia nella riproduzione di opere d'arte di cui diffuse la conoscenza contribuendo allo scambio d'influenze, tipico dell'arte barocca, sia nelle vedute di città, di campagne, nei ritratti, nelle acqueforti originali di Salvator Rosa e di Benedetto Castiglione, fino a quelle eccellenti del Tiepolo, del Canaletto, del Piranesi. Il mobilio fu architettonico, pomposo, ricco d'intagli e di dorature che divennero sempre più preziosi e minuti nel Settecento; l'arte dell'arazzo, in quanto era ricca di risorse decorative, fu di moda con una produzione larga, fastosa, invadente; la ceramica ebbe un impulso grande e una fioritura di tipo industriale più per la quantità che per la qualità nel campo della maiolica, mentre si iniziava, sull'esempio della Cina, la fabbricazione sempre più perfetta della porcellana; il vetro, specialmente nelle fornaci di Murano, riprese dignità d'arte, s'arricchì, sulle nitide e semplici forme del Cinquecento, di rabeschi, di fogliami, di riccioli. Le arti dei metalli, esperte di tutte le tecniche, dallo sbalzo al cesello e dall'ageminatura allo smalto, si sbizzarrirono in tutti i campi: cancellate, ringhiere, armi, oreficerie; le stoffe di tutti i generi furono tessute, ricamate o dipinte con disegni larghi di fiorami grassi, con motivi d'ampie volute e di cartelle in affollamenti variopinti. Insomma, si venne in questo modo creando "l'ornato barocco"; come in un clima caldo e umido e in una terra fervida di succhi nasce una vegetazione opulenta, grassa, fiorita, così l'ornato barocco in fogliami, fiori, volute, cartelle, festoni, panneggi, animati da una fantasia sempre desta e vivace, si diffuse dovunque, straripando talora dai limiti della misura. Infine, tutta l'arte barocca, dall'architettura alle arti minori, ebbe caratteri uniformi e affermò un gusto suo proprio, assolutamente originale, non immune da gonfiezza e da enfasi, amante del ridondante, dello stupefacente, del vistoso, ma non per questo meno ammirevole nell'esuberanza di vita, di fantasia, di qualità creatrici e in uno stile che è inconfondibile con quello di qualunque altra epoca della storia. Arte di pura origine italiana, nata e sviluppatasi nel tempo in cui il pensiero scientifico fondava molte fra le moderue discipline e si veniva affermando la nuova arte musicale, e gli scambî fra popolo e popolo si facevano più facili e frequenti anche al di là degli oceani, l'arte barocca conquistò rapidamente il mondo. Si può, secondo i gusti e i presupposti critici, discutere sulle qualità durature di quest'arte e distinguerle da quelle caduche; ma il fenomeno della sua diffusione nel mondo fu così imponente che non è possibile spiegarlo con un traviamento generale del gusto e bollarlo come espressione d'una decadenza. Per l'architettura Francia, Spagna, Olanda, Germania ed Austria furono invase e trasformate da esso, e giunsero con rapido moto a quel barocchetto infiocchettato, infiorettato, bizzarro, melodrammatico che sommerse troppo spesso, sotto la vegetazione rampicante degli ornamenti, ogni schiettezza e larghezza struttiva e meritò la taccia di lezioso e di decadente. Per la scultura già alcuni berniniani più diretti erano stranieri come il Duquesnoy, il Monnot, il Legros; e poi il Fernández, il Montañes e il Cauo in Spagna, il Quellinus e il Verhulst in Olanda, il Puget, il Girardon, il Coysevox in Francia, gli scultori decoratori della Baviera, della Svevia, di Würzburg, di Bamberga, di Dresda e di Praga - e su tutti Andrea Schlüter - furono i tipici e fecondi rappresentanti dell'arte barocca, la quale, come aveva avuto in Italia, tra gli scultori, gli ultimi epigoni settecenteschi nel Bracci, nel Celebrano, nel Queirolo, nel Mattielli, nel Macchiori, alcuni dei quali avevano emigrato dalla penisola, ebbe gli ultimi riflessi di splendore e di nobiltà nell'olandese Vervoort, nel fiammingo Delvaux, nei francesi Bouchardon, Houdon, Lemoyne e Falconet, nel tedesco Neumann, fin sulle soglie del neo-classicismo. Per la pittura indubbiamente il Velázquez fu nei suoi primi tempi influenzato dal Caravaggio; e Charles Lebrun fu seguace di Pietro da Cortona come Nicola Poussin era stato attratto nell'orbita del Domenichino e Claudio Lorrenese in quella dei paesisti italiani; Rubens, fattosi sui Veneziani, interpretò del Barocco italiano la pomposità e la disinvoltura decorativa; il van Dyck infuse arte veneta nei suoi quadri e lo stesso Rembrandt, sovrano della pittura secentesca, sentì fortemente le seduzioni della rivoluzione caravaggesca, della quale erano stati proseliti e facili divulgatori lo spagnolo Ribera e l'olandese Gherardo delle Notti. Le linee di penetrazione della pittura barocca attraverso l'Europa sono straordinariamente intrecciate nello scambio d'influenze che fanno di quest'arte un fenomeno internazionale, pur nelle varietà molteplici derivanti dalle insopprimibili differenze di razza. Quelle linee si prolungano per quasi tutto il Settecento, giungono alle espressioni tipicamente francesi del Watteau, del Boucher, del Fragonard, a tutta la pittura di paesaggio e di natura morta che fiorì nelle Fiandre ed in Olanda per opera di centinaia di piccoli maestri. Legioni di decoratori, pittori, stuccatori, intagliatori si partirono dall'Italia e migrarono in tutta l'Europa, missionarî del gusto barocco, così come intorno al Mille i maestri comacini erano stati missionarî del gusto romanico e come, un poco più tardi, i cluniacensi, i cisterciensi e le maestranze al loro servigio avevano diffuso il gotico. In conclusione, tutta l'arte del Seicento e di gran parte del Settecento si deve dire arte barocca non solo perché ebbe caratteri unitarî e interpretò profondamente lo spirito del suo tempo, ma perché fu tutta quanta compresa nel disprezzo e nel dileggio con cui la denigrarono i neo-classici, i quali le riconobbero appunto con ciò la solidarietà e l'internazionalità del carattere. Ora che la si guarda senza pregiudizî critici e senza necessità polemiche di reazione la si vede nei suoi pregi di potenza, di coerenza, di unità creative come nel suo difetto, insito in ogni affermazione esuberante e grandiosa, di cader facilmente nello squilibrato, nel superficiale e nell'enfatico. E l'epiteto spregiativo di barocco si trasforma in titolo di gloria.
Antonio, mercante di quadri di origine pugliese ma anche modesto pittore, dovette avviare il figlio all'arte della pittura. Di fatto, secondo l'aneddoto narrato da Bernardo De Dominici , lasciò che il figlio a soli otto anni terminasse due putti da lui avviati, ancora oggi a S. Maria la Nova; ciò dimostra quantomeno la precoce presenza del Giordano sui cantieri paterni. Inoltre, secondo la Relazione del 1681 sulla vita del Giordano posseduta da Filippo Baldinucci e fondata su dati forniti plausibilmente dallo stesso artista - Antonio condusse con sé il figlio a Roma intorno al 1650. Nonostante questo primo, non altrimenti comprovato, viaggio romano, fu a Napoli che Luca Giordano crebbe e si formò, all'ombra delle molteplici esperienze pittoriche maturate dai protagonisti di una grande stagione artistica, profondamente segnata dal passaggio a Napoli di Caravaggio, e in continuo dialogo con le opere da lui realizzate durante i due soggiorni partenopei. Le prime opere attribuite al Giordano, collocabili agli inizi degli anni Cinquanta, sono un tributo alla pittura di impronta caravaggesca e un esercizio sull'arte di Jusepe de Ribera, presso la bottega del quale è possibile che egli, già padrone dei primi rudimenti del mestiere, fosse stato introdotto dal padre, "famigliare" del pittore valenciano e suo testimone di nozze nel 1616 . L'iniziale formazione è evidente nel S. Luca dipinge la Vergine con il Bambino del Museo di Ponce (Puerto Rico), dove il Giordano si ritrasse nei panni del santo, nel S. Sebastiano della Gemäldegalerie di Dresda, dipendente da un prototipo riberesco, e in alcune figure di Filosofi (per esempio l'Euclide degli Staatliche Museen di Berlino o il Chilone di Besançon), ancora sulla scorta del fortunato modello costituito dalle due serie eseguite dallo spagnolo intorno agli anni Trenta. Realizzati più volte dal Giordano durante la propria attività, i Filosofi rientrano in una tipologia piuttosto diffusa in Europa, caratterizzata da una rappresentazione dei vari pensatori dell'antichità in chiave di ostentato verismo, a volte al limite del grottesco, che fu favorita dalla mancanza di un'iconografia filologicamente certa, ma anche dalle contemporanee tendenze realistiche della pittura, nonché da un sostrato culturale e filosofico di impronta neostoica: ciò che consentì di liberare quelle immagini da qualsiasi riferimento colto, e autorizzò a dipingere i personaggi come pezzenti, privi di ogni decoro rappresentativo. A Napoli, dove il neostoicismo venne coltivato da alcune figure di intellettuali, quali Leonardo Di Capua e Giuseppe Valletta, ricordati da De Dominici in rapporti con il Giordano, questi soggetti furono molto frequentati e riscossero un notevole successo. Le prime opere documentate del Giordano risalgono al 1653. Se l'incisione rappresentante Cristo e l'adultera deve molto allo stile di Ribera, la Guarigione dello storpio  denuncia un'attenzione alle opere dei maestri nordici, in particolare di Albrecht Dürer, che il Giordano in questa fase della sua attività ripropose da un punto di vista tipologico e finanche stilistico, giungendo ai limiti della falsificazione il dipinto di Atene è infatti siglato A.D. e solo sotto la cornice, in basso a sinistra, è stata ritrovata la firma e la data apposte dal Giordano, appunto nel 1653. Benché le due tele per la tribuna della chiesa di S. Pietro ad Aram, la Traditio clavium e l'Incontro dei ss. Pietro e Paolo sulla via del martirio, saldate da padre Francesco Damascelli il 4 luglio 1654, siano ancora condotte su moduli ribereschi, mostrano tuttavia un pittore alla ricerca di altri riferimenti culturali. Fin dal 1653 a Napoli era attivo Mattia Preti. Giungeva da Roma, dove, a S. Andrea della Valle, aveva avuto modo di porsi in diretto confronto con le novità di Peter Paul Rubens e con l'opera di Giovanni Lanfranco, che a Napoli, nei decenni immediatamente precedenti, aveva lasciato significative testimonianze della sua pittura, specialmente al Gesù Nuovo e nella cappella del Tesoro di S. Gennaro al duomo. L'incontro con Preti fu per il Gordano di grande importanza: gli consentì non soltanto di adottarne alcune caratteristiche tipologie compositive , ma di meditare anche sulle fonti del pittore calabrese, Rubens in primo luogo. Prova ne sono alcune opere realizzate da Luca Giordano entro la fine del decennio, tra cui Rubens dipinge l'allegoria della Pace del Museo del Prado. Fu poi soprattutto attraverso Preti che il Giordano, grazie alla grande facilità esecutiva e di invenzione così tipiche della sua arte già fin dai momenti iniziali, diede avvio a una produzione incline a suggestioni più prettamente barocche.
Questa tendenza lo avrebbe portato ben presto a interessarsi alle esperienze di Pietro Berrettini da Cortona. Poté studiare la sua maniera a Napoli fin dal 1638 il S. Alessio era ai Gerolamini  ma ancor meglio lo avrebbe potuto fare a Roma, dove, ancora secondo la Relazione, il Girdano si sarebbe recato, questa volta solo, intorno al 1654 . Che il Giordano fosse a Roma attorno a questa data lo attestano alcuni disegni, nei quali, con una tecnica particolarissima sanguigna su carta preparata in rosso riprodusse graficamente brani tratti dall'antico, come il Marco Aurelio o l'Ercole Farnese, oppure dal Raffaello delle stanze e delle logge. Ritrasse però anche alcuni particolari del soffitto di Pietro da Cortona in palazzo Barberini, studiandone l'arditezza prospettica, l'impianto compositivo, le singole figure . Esiti, e finanche personaggi, cortoneschi si ritrovano allora nel S. Nicola di Bari salva il fanciullo coppiere, la pala firmata nel 1655 dal Giordano per la chiesa napoletana di S. Brigida. Ma in genere tutte le opere del sesto decennio risentono di una tale ricerca: le storie di s. Giovanni Battista (PredicaBattesimo di CristoDecollazione) realizzate ancora nel 1655 per l'intradosso dell'arco di accesso alla cappella dedicata al santo nella chiesa francescana di S. Maria la Nova; le due pale commissionate dai padri celestini del monastero dell'Ascensione a Chiaia (S. Anna e la Vergine e S. Michele Arcangelo) licenziate nel 1657; o i coevi dipinti per S. Agostino degli Scalzi (Estasi di s. Nicola da TolentinoElemosina di s. Tommaso da Villanova). Al 1657 risalgono i primi lavori del G. eseguiti su richiesta del viceré napoletano García de Avellaneda, conte di Castrillo, e dei suoi dignitari: i pagamenti per la Madonna del Rosario nella chiesa della Solitaria (distrutta agli inizi del XIX secolo), ora a Capodimonte, furono infatti corrisposti da Giovanni Matteo de Salas y León, uomo al servizio del viceré. Nel 1658 Luca Giordano si sposò a Napoli con la giovanissima Angela Margherita Dardi, andando inizialmente ad abitare in una casa in affitto in via Trinità degli Spagnoli, dove rimase fino al 1668, quando si trasferì a S. Anna di Palazzo, e di lì, nel 1686, in via Nardones. La moglie gli sarebbe stata accanto per tutta la vita, dandogli numerosi figli, almeno dieci tra maschi e femmine. A queste ultime, il Giordano avrebbe riservato un'adeguata educazione presso il collegio della Solitaria, nonché doti cospicue per contrarre ottimi matrimoni . Il nuovo decennio si aprì con altre importanti commissioni pubbliche. Il colto e potente cardinale Ascanio Filomarino proprietario di un'importante collezione di opere del Seicento romano raccolte a Roma e portate a Napoli nel 1642 quando assumeva l'incarico arcivescovile aveva fatto costruire nel 1652 in duomo un secondo organo, dirimpetto al primo realizzato con l'intervento di Giorgio Vasari circa un secolo prima per volere di Ranuccio Farnese. Al Giordano l'arcivescovo chiese di realizzare le portelle, raffiguranti all'interno la Vergine Annunziata e l'Angelo, all'esterno i Santi protettori di Napoli; le quattro tele, documentate nel 1660-61, furono rimosse alla fine del Settecento e poste nella parete alta del transetto sinistro ai lati del finestrone. Al 1660 risale pure la Sacra Famiglia che ha la visione dei simboli della Passione, la grande pala per l'altare maggiore della chiesa di S. Giuseppe a Pontecorvo. Al completamento della vicenda costruttiva e decorativa della chiesa, appartenente al ramo femminile dell'Ordine dei carmelitani scalzi, contribuì in larga misura il nuovo viceré, il conte di Peñaranda Gaspar de Bracamonte, che diede così seguito a quel rapporto avviato dal Giordano con l'autorità vicereale, e proseguito con altre commissioni di natura privata e pubblica. Molti sono infatti i dipinti pagati per conto del viceré al Luca Giordano tra il 1660 e il 1664 da Michele López Barrionovo, documentati nelle carte dei banchi napoletani ma quasi tutti dispersi, tra cui vanno forse inseriti quelli di soggetto cristologico oggi a Peñaranda de Bracamonte, nel convento delle carmelitane scalze fondato dallo stesso conte . Al Bracamonte è legata anche la commissione al Luca  Giordano delle tele per S. Maria del Pianto, chiesetta votiva edificata a seguito della peste del 1656 per volere della Congregazione di S. Maria Vertecoeli e grazie ai cospicui donativi del viceré e a quelli disposti, tra gli altri, dai mercanti fiamminghi Caspar Roomer e Jan Vandeneynden e dal fiorentino Santi Maria Cella , che proprio a partire dagli anni Sessanta acquistarono opere del Giordano, richieste da un mercato sempre più ampio .
Nell'impresa di S. Maria del Pianto furono impegnati i due artisti più importanti presenti a Napoli dopo la partenza definitiva di Preti per Malta: l'anziano Andrea Vaccaro, cui spettò di realizzare la pala dell'altar maggiore collocata nel 1660, e il Giordano, con le due grandi tele per gli altari laterali, il S. Gennaro intercede per la cessazione della peste e i Santi protettori di Napoli adorano il Crocifisso, entrambe già in situ nel 1662, data di consacrazione della chiesa . Ancora decisivo dovette essere il viceré per affidare al Giordano l'esecuzione dei due dipinti (Riposo durante la fuga in Egitto, e S. Anna e s. Gioacchino con la Vergine bambina) per gli altari delle cappelle di transetto in S. Teresa a Chiaia, datati al 1664, dove, specialmente nel Riposo, puntuali sono i richiami all'arte di Guido Reni e alla sua Adorazione dei pastori, in S. Martino dal 1642: ulteriore testimonianza di un'attenzione ai modelli del pittore bolognese è il S. Michele Arcangelo di Berlino (Staatliche Museen). Il legame con l'ambiente vicereale portò inoltre il Giordano a realizzare molti dipinti per committenti spagnoli. Tra di essi, Sebastiano López Hierro de Castro, marchese di Colforte e presidente della Regia Camera, agente generale del duca di Medina e intermediario, insieme con il figlio Antonio, di pagamenti al G. per don Sebastiano Cortizzo e per il marchese Agostino Fonseca. Quest'ultimo chiese all'artista alcuni dipinti (non altrimenti identificati) tra il 1662 e il 1664 e lo ospitò a Venezia, dove risiedeva, nel 1665 . In quell'anno, infatti, Luca Giordano risulta essere assente da Napoli, dopo aver dato procura al padre di riscuotere per suo conto e aver lasciato incompleta la decorazione della vecchia sagrestia (o cappella dell'Immacolata Concezione) della cappella del Tesoro di S. Gennaro, per la quale aveva sottoscritto un accordo alla fine del 1663, era partito alla volta di Venezia. Durante il viaggio si fermò, forse, a Firenze e in Lombardia . A Venezia poté confrontarsi direttamente con le opere del Tintoretto, del Veronese e di Tiziano, anche se, di quest'ultimo, aveva già avuto modo a Napoli di studiare e copiare (Madrid, Congregación del Cristo de San Ginés) l'Annunciazione allora in S. Domenico Maggiore. Tuttavia, i dipinti realizzati dal Giordano per Venezia e documentati dalle fonti furono eseguiti alla maniera di Ribera. La Madonna delle Grazie con le anime purganti della cappella Vendramin a S. Pietro di Castello risale a questo momento, ma non risulta citata in loco fino al 1684 . Si tratta, infatti, con ogni probabilità del "quadro grande con le anime del Purgatorio"  posseduto da Fonseca e rimasto presso di lui almeno fino alla sua morte, nel 1681. Al 1665 si collocano altri dipinti veneziani, caratterizzati da una maniera che raggiunse via via esiti simili a quelli proposti dalle contemporanee opere di Giovan Battista Langetti, Carl Loth o del giovane Antonio Zanchi: la Deposizione, già in S. Maria del Pianto e dal 1810 nelle Gallerie dell'Accademia; la Madonna con Bambino e i ss. Giuseppe e Antonio da Padova, per la chiesa dello Spirito Santo, oggi in deposito da Brera al seminario di Venegono; l'Annunciazione per S. Daniele, irreperibile. Il rientro da Venezia fu forse indotto da un'importante commissione: l'invio al monastero dell'Escorial in Spagna di un numero non precisato ma considerevole di dipinti, ordinati da Filippo IV per il tramite di Sebastiano Cortizzo, da eseguire "a imitazione di Tiziano e del Tintoretto" (Baldinucci, p. 345). Se ne ignora il soggetto, ma non è improbabile che tra essi ci fossero il Balaam fermato dall'angelo e l'Ebrezza di Noè, oggi entrambi nella sagrestia del monastero spagnolo. Comunque, almeno dal luglio del 1665 il Luca Giordano è di nuovo documentato a Napoli, da dove spediva a Venezia l'Assunzione della Vergine per la chiesa della Salute, firmata e datata 1667. Aveva certamente ottenuto la commissione l'anno prima, durante il suo soggiorno nella città lagunare; e, come si ipotizzava nella lettera del 20 ottobre 1668 indirizzata al cardinale Leopoldo de' Medici dal suo agente veneziano Paolo Del Sera, furono forse gli amici mercanti del Giordano a perorare la sua causa presso i procuratori di S. Marco, insoddisfatti delle ingiustificate lungaggini di Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, cui inizialmente era stata affidata la realizzazione dell'opera. Nel 1668 Luca Giordano lavorò nella nuova sagrestia della cappella del Tesoro di S. Gennaro in duomo, per la quale realizzò a fresco il S. Gennaro in gloria nella volta e i piccoli dipinti su rame di soggetto sacro (Santi e Storie cristologiche) applicati sugli armadi e sugli inginocchiatoi.
Fu quello anche il momento in cui si avviò il sodalizio con Giuseppe Recco che proprio allora firmava la Natura morta con pesci e un pescatore, figura dipinta dal Giordano. È quanto si desume dalla polizza di pagamento del committente, Giuseppe Paravagna marchese di Noja, in data 30 dic. 1669, per il quale i due pittori avevano già eseguito, con le medesime modalità, l'Interno di cucina con cuoca, in collezione privata napoletana ma proveniente dalla raccolta del marchese di Noja. Nel 1669 nacque il primogenito Lorenzo e nello stesso anno venne commissionata al G. la Deposizione per il Pio Monte della misericordia, datata 1671. Ancora nel 1669, in novembre, gli vennero saldati da Lucrezia de Sangro gli affreschi della cupola di S. Gregorio Armeno  vi sono dipinti di Luca Giordano alla maniera di Lanfranco e di Pietro da Cortona. Nei primi anni Settanta si devono porre le opere per la cappella dell'oratorio del Monte dei poveri, nel palazzo ora sede dell'Archivio storico del Banco di Napoli: la prima a essere eseguita fu l'Immacolata Concezione, a fresco, pagata il 25 ott. 1672, cui seguì nella seconda metà del 1673 la Circoncisione per l'altare maggiore. Quest'ultima anticipa compositivamente le pale veneziane per la Salute, la Presentazione di Maria al tempio e la Natività di Maria, eseguite entro il 1674. Il rapporto con il Veneto si intensificò in quegli anni: per due altari in S. Giustina, inviava a Padova la Morte di s. Scolastica e il Martirio di s. Placido, saldato tra il febbraio e il marzo del 1675; l'anno successivo eseguiva per S. Maria in Organo a Verona Il beato Bernardo Tolomei battuto dai demoni; si ricordano, infine, i dipinti, di dimensioni pressoché identiche - Strage degli innocentiCacciata dei mercanti dal tempio , Giudizio di Salomone e Ratto delle Sabine forse appartenuti a una medesima collezione lagunare . Intorno agli stessi anni Luca Giordano consolidava i rapporti con i mercanti veneziani, Guglielmo Samueli e Simone Giogali, e stringeva quelli con il lombardo Carlo Arici e con il fiammingo, trapiantato a Napoli, Ferdinand van den Eynden. Nella seconda metà del decennio le commissioni napoletane si susseguirono incessantemente. Oltre a realizzare per la cappella di S. Francesco Saverio al Gesù Nuovo i tre dipinti con Storie della vita del santo, il Giordano fu attivo in duomo, all'interno di un'opera di ridecorazione complessiva dell'edificio in chiave barocca, che andò a ricoprire di stucchi e cartigli le strutture angioine, promossa tra il 1667 e il 1685 dal cardinale Innico Caracciolo, successore di Filomarino alla guida della diocesi napoletana. Nel 1676 su incarico dell'arcivescovo, che nel febbraio aveva battezzato sua figlia, il Giordano realizzò i dipinti mistilinei tra le finestre della navata centrale (Apostoli e Santi protettori di Napoli), saldati il 1° agosto, e del transetto (Dottori della Chiesa e altri Sei santi protettori), eseguiti in fretta ricorrendo ampiamente ad aiuti e collocati nel settembre del 1678. Dall'aprile del 1677 fu attivo nella chiesa abbaziale di Montecassino, impegnato nella decorazione della volta della navata completata entro la fine dell'anno. Distrutte durante l'ultima guerra, le Storie di s. Benedetto furono realizzate da Luca Giordano, ancora per S. Gregorio Armeno  nel 1679, entro una preziosa spartitura in stucco bianco e dorato e costituirono, anche per la modalità compositiva "a quadro riportato", un illustre precedente delle più tarde scene di analogo soggetto, e persino superiore ricchezza decorativa; diversamente, lanfranchiana è l'impaginazione della Gloria di s. Brigida, che il Giordano portò a termine nel 1678 nel catino dell'omonima chiesa napoletana insieme con le Eroine bibliche dei pennacchi. Del 1680 sono i Ss. Francesco Borgia e Francesco Saverio  per l'altare maggiore della chiesa dei gesuiti già intitolata a S. Francesco Saverio e poi dedicata a S. Ferdinando, dove è di sapore cortonesco la grande macchina scenica allestita con un eccezionale dominio dei mezzi pittorici. Al contempo, eseguiva le tele con il Cristo che cade sotto la croce e il Cristo posto in croce sulle pareti laterali della cappella del Crocifisso in S. Maria Regina Coeli, dove sarebbe stato attivo nuovamente in seguito: nel febbraio e settembre 1681 riceveva, infatti, da Giovanni Battista e Giovanna Pignatelli pagamenti per i due dipinti (S. Agostino nel deserto e S. Patrizio vescovo di Ginevra) della cappella di S. Agostino, e nel 1684 ne firmava la pala d'altare (S. Agostino converte l'eretico). In quello stesso 1681 concludeva il Passaggio del Mar Rosso per S. Maria Maggiore a Bergamo.
La grande tela giunse a Venezia nell'aprile del 1682 presso Giogali, intermediario tra il Giordano e i committenti dell'opera, e suscitò profonda ammirazione non solo tra i veneziani, ma anche presso il consiglio della basilica bergamasca, che per voce di Leandro Basso, fu talmente soddisfatto da aggiungere 100 scudi ai 700 pattuiti; al contempo, fu disposto a intavolare trattative con Giogali per affidare al Giordano parte della decorazione della chiesa: dieci affreschi per la navata e quattro pitture a olio. Il fitto scambio di corrispondenza  tra 1682  e il 1686 non portò ad alcun risultato. Solo nel 1691, quando il Giordano era in procinto di partire per la Spagna, su proposta di Giogali si accettò la presenza a Bergamo di un suo allievo, Nicola Malinconico, che portò il lavoro a compimento nel 1694. Almeno dalla fine degli anni Settanta, il Giordano stava lavorando anche per committenti fiorentini. Forse già verso il 1678 giunsero a Firenze i quadri (tra cui l'Apollo e Marsia del Museo Bardini) che l'abate Pietro Andrea Andreini aveva acquistato nella città partenopea, dove tra il 1674 e il 1675 era stato agente del cardinale Leopoldo per l'acquisto di disegni. Quando Giovanni Cinelli nel 1677 pubblicò gli aggiornamenti alle Bellezze della città di Firenze di Francesco Bocchi, in casa del senatore Ascanio Samminiati si potevano osservare del Giordano un Trionfo di Venere  e un Pilato che si lava le mani  oramai perduto, proveniente dalla raccolta di Roomer della cui vendita, a eccezione di quei dipinti che passarono ai van den Eynden, fu lo stesso Giordano a occuparsi . E ancora, Cinelli ebbe occasione di vedere in casa di Andrea, Ottavio e Lorenzo Del Rosso alcuni dipinti del pittore napoletano, tra cui un grande Trionfo di Bacco, identificabile forse con l'esemplare della Herbert Art Gallery di Coventry. Il 7 febbr. 1682 Andrea Del Rosso scriveva ad Apollonio Bassetti, canonico di S. Lorenzo e segretario della Cifra del granduca, appassionato di antiquaria e illustre rappresentante della cultura del tempo: tra le altre informazioni, Andrea Del Rosso riferì che il Giordano era nella sua casa a Firenze, dove aveva eseguito il modello dell'affresco per la cupola della cappella Corsini al Carmine. Già dal 1676 i marchesi Neri e Bartolomeo Corsini avevano dato avvio, su disegni dell'architetto attivo anche alla corte medicea, Pier Francesco Silvani, alla costruzione della cappella dedicata al loro avo Andrea, canonizzato nel 1629. L'intervento del Giordano, certo favorito dalla fortuna incontrata dalla sua pittura presso i collezionisti fiorentini, si collocava all'interno di un apparato scultoreo approntato da Giambattista Foggini: a quest'ultimo spettò il compito di raffigurare sugli altorilievi marmorei delle pareti i miracoli del santo; al Giordano, di coronarli con la rappresentazione del suo ingresso in paradiso, attraverso il rutilante e affollato affresco della cupola, nel quale trovava posto anche la gloria familiare nell'episodio della dedicazione della cappella. Il Giordano condusse a termine l'opera - per la quale realizzò alcuni modelli in pochi mesi, dal febbraio all'agosto del 1682, quando venne pagato il doratore degli stucchi posti a cornice degli affreschi. La cupola del Carmine costituì una novità entro l'orizzonte artistico fiorentino: nuova, e solo in partenza lanfranchiana, la struttura compositiva delle figure poste a cerchi concentrici, continuamente contraddetti da gruppi di personaggi in movimento verso l'alto o il basso; inedito, e romano, il modo di rappresentare nei pennacchi le virtù del santo attraverso più personificazioni, sotto le quali il Giordano firmò e datò l'opera. La cupola venne scoperta più di un anno dopo la sua conclusione, il 24 ott. 1683, nell'ambito della fastosa cerimonia di traslazione ed esposizione del corpo di s. Andrea. Qualche mese prima, i Fiorentini avevano avuto modo di osservare un'altra opera pubblica del pittore napoletano (dipinta e saldata, anch'essa, nel 1682). Il 5 agosto era stata, infatti, presentata la Visione di s. Bernardo, la tela di grandi dimensioni per il soffitto della chiesa della Madonna della Pace (già dal 1790 all'Annunziata), nella quale il Giordano abbandonò il consueto modulo compositivo del quadro riportato, cimentandosi per la prima volta con il tipo di rappresentazione prospettica così caro alla decorazione barocca romana, già apprezzata a Firenze attraverso l'opera di Pietro da Cortona a palazzo Pitti. D'altro canto, la commissione era importante. La chiesa di patronato mediceo fu edificata per volere di Cosimo II, ornata sotto Cosimo III con un soffitto intagliato che ospitò il dipinto del Giordano, eseguito su incarico della granduchessa madre Vittoria Della Rovere, per la quale il pittore realizzò anche la Fuga in Egitto, databile a questo momento. Ancora per i Medici dipinse la cortonesca Allegoria della pace tra Fiorentini e Fiesolani, su tela, voluta da Cosimo III e incastonata al centro della volta dell'odierno salone verde, un tempo anticamera, o sala della guardia, dell'appartamento di palazzo Pitti riservato al figlio Ferdinando. L'attenzione che la corte granducale stava dimostrando nei confronti del Giordano fu di certo tenuta in gran conto dal marchese Francesco Riccardi, ministro fedele di Cosimo III (nominato nel 1688 consigliere di Stato e nel 1693 maggiordomo maggiore), quando si trovò ad affidare al Giordano l'incarico di affrescare la volta della galleria nel proprio palazzo, acquistato dai Medici un ventennio prima. Destinata anche ad accogliere le collezioni di oggetti antichi e rari, la galleria era anzitutto luogo di ricevimento e di rappresentanza: la decorazione, pensata quasi certamente da Alessandro Segni, accademico della Crusca, bibliotecario e memorialista granducale nonché precettore del marchese, doveva riflettere la condizione del signore, e la sua sudditanza nei confronti della corte medicea. Su tali premesse, a partire almeno dalla metà del 1682, il Giordano elaborò alcuni bozzetti (nove, nella collezione Mahon; uno, in collezione privata), eccezionalmente curati nella stesura, destinati certo al vaglio della committenza e a essere riproposti, con le opportune varianti, in scala monumentale sulla volta, incorniciata dall'architettura e decorazione scultorea ideata da Foggini. I lavori, iniziati forse già nel settembre del 1682, furono sospesi alla fine di dicembre, quando il Giordano si dovette recare urgentemente a Napoli per le precarie condizioni di salute del padre, che morirà nel novembre dell'anno successivo. La parentesi napoletana, specialmente nel 1684, lo vide impegnato, tra l'altro, nel proseguimento dei lavori a S. Gregorio Armeno (gli idilliaci episodi relativi alla traslazione delle reliquie del santo sulla parete che fa da balaustra al coro), e nella realizzazione della grande macchina scenica della Cacciata dei mercanti dal tempio per la controfacciata dei Gerolamini, con le quadrature del pittore e architetto Arcangelo Guglielmelli, che riproponevano il verde colonnato di Lanfranco ai Ss. Apostoli. Prima di tornare a Firenze, il Giordano si fermò a Roma, dove nel marzo del 1685 eseguiva la pala con S. Anna per la cappella omonima in S. Maria in Campitelli. Solo nell'aprile del 1685 il Giordano fu dunque in grado di soddisfare le pressanti e continue insistenze del marchese Riccardi, e di riprendere l'opera, terminata probabilmente entro la fine dell'anno. Attraverso l'uso di una tavolozza chiara, che meglio poteva esaltare l'abbondante luce naturale del luogo, e una struttura compositiva priva di quadratura o di compartizione dei singoli episodi, il G. mise in scena, proseguendo e superando la lezione fiorentina di Pietro da Cortona, una complessa allegoria del progresso del genere umano: dall'Antro dell'eternità (lato corto), dove la vita ha inizio, l'uomo può evolvere la propria condizione (episodi mitologici sui lati lunghi) guidato dalla Sapienza (la Minerva dell'altro lato corto) e dall'esercizio delle Virtù (ai quattro angoli); solo così l'anima, raffigurata come una donna nuda, può entrare nel paradiso, dove siedono i virtuosi che hanno raggiunto la grazia. Qui, al centro della volta, sono allora raffigurati, e celebrati, alcuni rappresentanti del casato mediceo (tra cui, oltre a Cosimo I, il regnante Cosimo III con figli), ciascuno dei quali, secondo l'iconografia dei Sidera Medicea, tanto diffusa soprattutto negli apparati encomiastici di corte, ha una stella sopra il capo; mentre quattro di loro tengono in mano gli attributi delle Virtù cardinali. La stessa tensione umanistica sta alla base del programma per il soffitto dell'adiacente biblioteca, realizzata dal Giordano subito dopo, e comunque entro la metà del 1686, quando il pittore risulta essere di nuovo a Napoli: l'Allegoria della Divina Sapienza, di cui esiste un bozzetto (collezione Mahon), è ancora una metafora del riscatto dell'intelletto umano, rappresentato come un giovane inginocchiato che si libera dei lacci dell'ignoranza attraverso l'intervento della Teologia - la figura alata che lo conduce verso l'alto - e della Verità - la donna nuda poco al di sopra. Un'iscrizione, "levan di terra a ciel nostro intelletto", rende perfettamente intellegibile il significato della figurazione, congruente al luogo di studio, e forse ancora su programma di Segni. Mentre portava rapidamente a compimento l'impresa Riccardi, il Giordano fu attivo ancora in una commissione di pertinenza, anche se solo in parte, granducale.
Concorrendo per metà alle spese per la chiesa di S. Maria Maddalena de' Pazzi, Cosimo III legava il suo nome a una delle imprese architettoniche e decorative più interessanti di tutto il Seicento fiorentino, che vide attivi Ciro Ferri e Pier Francesco Silvani, Pier Dandini, Carlo Marcellini, i più abili maestri nell'arte della fusione, dell'intaglio, del commesso in marmo e il Giordano, cui spettò la realizzazione delle due tele da porsi sopra le porte laterali, in loco il 26 maggio 1685. In realtà, la commissione del Matrimonio mistico di s. Maria Maddalena de' Pazzi e della Vergine che offre Gesù Bambino a s. Maria Maddalena de' Pazzi risaliva al precedente soggiorno fiorentino, sulla scorta della favorevole impressione suscitata dalla cupola Corsini, ed era inizialmente relativa a un solo dipinto; mentre l'altro era stato affidato al Volterrano. Fu il Giordano a proporre l'esecuzione di entrambi dietro il compenso di uno solo, ciò che fu accettato di buon grado dalle monache, che nel 1685 versarono le somme dovute al pittore presso l'abitazione di Andrea Del Rosso , dove era domiciliato; per il suo ospite il Giordano avrebbe realizzato ancora dipinti destinati alla sua collezione e all'arredo della cappella domestica. Dalla metà del 1686 il Giordano fu di nuovo a Napoli. Ciò non gli impedì di proseguire il suo rapporto di committenza con Cosimo III che in una lettera del 26 dic. 1687 chiese al pittore due tele per la chiesa dei Ss. Quirico e Lucia presso la villa medicea dell'Ambrogiana a Montelupo Fiorentino, giunte a Firenze nel settembre del 1689: l'Immacolata Concezione fu immediatamente sostituita con una copia e destinata alla galleria palatina, dove si trova tuttora, mentre in situ rimase il rovinatissimo S. Francesco riceve le stigmate. Nell'arco di circa sei anni, tra la conclusione dell'esperienza fiorentina  del 1686 e la non lontana partenza per la Spagna  nel 1692, Luca Giordano realizzò numerose opere a Napoli, con la rapidità di mestiere ormai così caratteristica della sua arte e secondo un linguaggio barocco che sempre più si avvicinava alle sperimentazioni berniniane viste a Roma, improntate sul dialogo tra spazio e luce. A questa fase risalgono la Madonna del Baldacchino eseguita intorno al 1686 per la chiesa di S. Spirito in Palazzo; gli affreschi di soggetto veterotestamentario dell'anno successivo nella cappella Merlino al Gesù Nuovo distrutti in gran parte durante il terremoto del 1688; l'intera decorazione su tela, ancora con Storie del Vecchio Testamento, della chiesa dell'Annunziata, perduta completamente nell'incendio del 1757. Tra il 1691 e il 1692 si collocano le tele per i Ss. Apostoli (Natività di MariaPresentazione di Maria al tempioAdorazione dei pastoriSogno di s. Giuseppe), le pale (perdute) per tre cappelle - S. Vittore, S. Apollinare, Ss. Gennaro e Guinazzone - nella chiesa abbaziale di Montecassino, gli affreschi di S. Maria Donnaromita (Trionfo di Debora), terminati per la partenza del maestro alla volta della Spagna dal suo allievo Giuseppe Simonelli, che portò a compimento anche il soffitto di S. Restituta con il Trasporto del corpo della santa, commissionato dai deputati del duomo, tra cui il canonico Carlo Celano, ritratto dal Giordano intorno al 1692 . Il 22 apr. 1692 il Giordano si metteva in viaggio per la Spagna sopra la galera del capitano don Antonio Gonzales, accompagnato dal figlio Nicolò, dal nipote Giuseppe, da tre aiutanti  Aniello Rossi, Matteo Pacelli, Giovan Battista Sottile un domestico e un confessore . Lo avevano convinto i favori concessi dal re Carlo II fin dal dicembre precedente al figlio Lorenzo, estesi poi anche ad altri membri della famiglia. Da almeno un secolo i sovrani spagnoli si servivano di artisti italiani per ornare le proprie residenze; e Carlo II non si discostò dalla tradizione quando, dopo l'incendio del 1671, dovette provvedere alla ricostruzione del monastero dell'Escorial, il tempio sacro della monarchia. Richiedere la presenza del Giordano in Spagna fu a questa data una scelta quasi obbligata. In fatto di pittura, il gusto spagnolo era profondamente influenzato da quanto giungeva da Napoli: e la scuola partenopea era quella più ampiamente rappresentata a corte. Con l'esperienza fiorentina, il Giordano aveva inoltre dimostrato di essere un decoratore brillante, confacente perciò alle esigenze celebrative del sovrano. Il 3 luglio giunse a Madrid; ma solo il 1° settembre si recò all'Escorial, dopo aver studiato e preso parte attiva, insieme con il priore Alonso de Talavera e con il padre Francisco de los Santos, alla definizione del programma da tradurre sulla volta dell'Escalera, lo scalone monumentale del monastero.
Nel febbraio 1693 alcuni bozzetti  furono inviati al re, che visitò il cantiere in marzo; in aprile l'opera era già terminata. Sotto il controllo a distanza del sovrano e dei suoi consiglieri, ma con una certa libertà di azione, il Giordano realizzò un'allegoria della funzione del monastero e della monarchia spagnola nel disegno divino: un fregio illustra episodi relativi alla vittoria riportata dagli Asburgo a San Quintino il giorno di S. Lorenzo del 1557 . Il monastero d'altro canto fu eretto quale monumentale ex voto per quell'occasione (nel fregio si illustra anche la Costruzione dell'Escorial in presenza di Filippo II, dove compare l'autoritratto del pittore). Carlo V e Filippo II figurano in paradiso, nell'atto di adorare la Trinità, secondo uno schema tizianesco già adottato per l'imperatore nella celebre Gloria del Prado. Spettatori terreni, più in basso e affacciati dalla balaustra, sono Carlo II, sua moglie Mariana di Neuburg, sua madre Mariana d'Austria e alcuni nani. La decorazione si completa nella parte inferiore, dove coppie di putti sostengono le armi dei sovrani spagnoli, mentre, al di sopra delle finestre, in finto porfido sono rappresentate scene della vita di Carlo V, oltre alle allegorie delle virtù cardinali. Già nell'aprile del 1693 si cominciava a pensare alla decorazione delle volte nella chiesa del monastero, per la quale il Giordano sottoponeva i modelli al re. I lavori s'iniziarono nell'ottobre. Si decise, forse ancora per cautela, di intervenire prima sulle quattro volte laterali, sovrastanti gli altari delle reliquie (Immacolata Concezione e altri temi mariani; Cristo trionfante e s. Girolamo; il Carro della Chiesa militante; il Carro della purezza verginale). Solo in seguito alla buona riuscita dell'opera, e alla soddisfazione mostrata dal sovrano, il Giordano passò con la rapidità richiesta dalla committenza all'esecuzione delle altre volte, più importanti, del presbiterio (Giudizio universaleTransito e assunzione della Vergine), della crociera (Passaggio del Mar RossoVittoria di Giosuè sugli Amalachiti) e del coro (Storie di David e Salomone), terminando l'impresa tra il giugno e il luglio del 1694. È probabile che al Giordano si debba ascrivere, se non tutto, almeno gran parte del programma, deciso in corso d'opera, dell'intera decorazione, a fondamento del quale stava l'identificazione del monastero con il tempio di Gerusalemme. Sebbene lo schema compositivo adottato un cerchio di figure in basso e un cielo aperto al centro - si ripeta sistematicamente nelle volte, il risultato qualitativo si differenzia, specialmente nelle parti ritenute più importanti, anche dalla committenza: nelle volte sopra la crociera, un vero capolavoro, come d'altronde quelle con Storie di David e Salomone, il Giordano recupera con grande maestria la continuità compositiva necessaria alla narrazione, dove gruppi di personaggi si agitano, ora in monumentale controluce, ora con effetti di evanescenza negli sfondi luminosissimi, raggiungendo esiti di cromatismo veronesiano. Gli stessi temi, legati al parallelo tra i profeti e gli Asburgo, furono alla base di un certo numero di opere eseguite da Luca Giordano. al suo ritorno a Madrid. Sono infatti documentate tele di grandi dimensioni per il Buen Retiro , forse concepite come replica o variante del ciclo escorialense e caratterizzate da un simile, delicato colorismo, unito a un gusto per la monumentalità delle figure che emerge esemplarmente nel David e l'orso del palazzo reale di Madrid o nella Morte di Assalonne del palazzo reale di Aranjuez. Simile atmosfera si ritrova non solo negli unici due dipinti datati di questo momento: la pala delle Commendadoras di Santiago a Madrid del 1695 (S. Giacomo a Clavijo) e il Martirio di S. Lorenzo nella vecchia chiesa dell'Escorial, siglato l'anno successivo; ma anche, con una declinazione più classicista, quasi raffaellesca, nella contemporanea serie della Vita della Vergine , forse di poco preceduta dalle tele di analogo soggetto del Real Convento de S. Jeronimo a Guadalupe, realizzate entro il 1696. È in queste ultime, in particolare, che il Giordano dimostra un'intensità espressiva certo favorita da un fare rapido e sommario negli sfondi e in alcuni particolari della composizione, spesso solo abbozzati, nonché dalla matura riflessione sulla contemporanea pittura spagnola di Bartolomé Esteban Murillo e di Claudio Coello. Ma anche di Diego Velázquez, già osservata dal Giordano mentre portava a compimento la volta dell'Escalera.  Lo dimostrano gli esiti luministici lì raggiunti, i ritratti a cavallo dei reali di Spagna (Prado), e soprattutto il cosiddetto Omaggio a Velázquez della National Gallery di Londra, dove, reinventando Las meninas, il Giordano produceva il ritratto della propria famiglia, presentata in basso dallo stesso pittore. Carlo II impiegò ancora il Giordano per decorare altre residenze reali. È oggi pressoché impossibile ricostruire la serie di affreschi e tele per il palazzo di Aranjuez, con storie degli elementi e delle stagioni. Sopravvivono, anche se non nella totalità, gli affreschi della volta del Casón, uno degli edifici principali e di maggior rappresentanza del Buen Retiro, il complesso costruito da Filippo IV negli anni Trenta ai limiti orientali di Madrid. Dopo un periodo di abbandono, il Retiro fu portato a nuovi splendori per volontà di Carlo II che mutava la destinazione originaria (sala da ballo) del Casón, eleggendolo a edificio di ricevimento degli ambasciatori. La commissione era dunque per il Giordano di grande importanza; e ciò giustifica la rutilante e laica allegoria della monarchia incentrata sul tema del Toson d'oro, istituito da Filippo il Buono per la difesa della Terrasanta e del cristianesimo, e portato in Spagna da Carlo V, suo legittimo erede. Alla base della finta balaustra, Apollo e le Muse intonano il canto per gli Asburgo, cominciando dall'origine mitica della dinastia rappresentata dal leggendario Ercole. Le sue fatiche vennero ritratte dal Giordano tra le finestre, nella zona inferiore della volta, in una serie di quattordici finti arazzi ora perduta, ma ricostruibile attraverso i bozzetti e le incisioni di Nicolás Barsanti e Juan Barcelón, eseguite tra il 1779 e il 1785. Ercole figura nella volta, nell'atto di consegnare il vello d'oro alla casa di Borgogna, che come Giasone aveva lottato strenuamente per la riconquista di un regno usurpato. Questo distingue la monarchia spagnola dalle altre; ed è perciò magnificata dagli dei. Portata in gloria, la corona reale è destinata all'Eternità, a sottomettere le genti del mondo, di diversa estrazione sociale, e a sconfiggere quei nemici, personificati in basso, che possono distoglierla dallo scopo: la Guerra (l'uomo incatenato e sottomesso dalla croce di s. Andrea, emblema della casa di Borgogna), l'Eresia (il dragone), il Potere (il leone), la Ricchezza (i preziosi sulla scalinata). Tutto ciò era amplificato negli affreschi e nelle tele delle due anticamere, ai lati opposti del grande salone, con episodi della Reconquista e della guerra di Granada, perduti, come le storie di Ercole, nella trasformazione ottocentesca dell'edificio. Fu intorno al 1698 che il Giordano venne impegnato in un'altra grande impresa: la decorazione della volta nella sacrestia della cattedrale di Toledo. Dovendo intervenire su una superficie molto allungata e di grandi dimensioni, concepì una struttura tale da collocare gli episodi principali alle due estremità brevi della volta (la Vergine impone la pianeta a S. IldefonsoS. Giovanni Evangelista scrive l'Apocalisse); dipinse inoltre una serie di balconate sui lati lunghi, tra le finestre, utilizzandole come balaustre per i gruppi di angeli musici che vi si affacciano, e, al di sotto, come nicchie per i Padri della Chiesa. Il centro del soffitto è ancora una volta un luminosissimo spazio di cielo aperto circoscritto da cerchi concentrici di angeli. Più che altrove, il Giordano realizzò dunque una struttura architettonica che gli permise di articolare l'intera composizione: un inedito quadraturismo, per il pittore napoletano, che forse aveva avuto modo di osservare le realizzazioni madrilene di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, invitati nel 1658 da Filippo V a decorare alcuni ambienti dell'Alcázar e del Retiro (opere completamente perdute nel Settecento), secondo uno schema messo a punto in Italia, che ebbe immediatamente seguito in Spagna, a partire dalle realizzazioni dei pittori di corte Francisco Rizi e Juan Carreño de Miranda. Purtroppo, è solo dalle copie di bozzetti  e da uno autografo fortunatamente conservato , che si può in parte ricostruire la decorazione, costituita dall'affresco della volta e dalle tele per le pareti laterali, della cappella reale dell'Alcázar di Madrid, perduta nell'incendio del 1734. Eseguita intorno al 1699, svolgeva di nuovo il tema dell'identificazione tra personaggi biblici e sovrani spagnoli. In particolare, con un gusto quasi rococò dell'ornato e del prezioso, caratteristico di quest'ultima fase della sua attività, veniva qui sviluppata la vicenda della costruzione del tempio da parte di Salomone. Ancora per questa cappella, nel 1703 Filippo V avrebbe commissionato altre Storie di Salomone al Giordano, ormai a Napoli, rimaste incompiute a causa della sua morte, e terminate probabilmente da Francesco Solimena .
Lo stesso intento celebrativo degli Asburgo, difensori della Chiesa per volontà divina, fu alla base della contemporanea impresa (interamente perduta) per la cappella reale della chiesa madrilena, all'interno del Retiro, di Nuestra Señora de Atocha, dove il Giordano realizzava, al di sotto di una cupola con angeli, santi, episodi biblici e due grandi quadri rappresentanti altrettanti momenti della Riconquista di Madrid con la protezione della Vergine. Nel novembre 1698, il Giordano aveva già avviato i lavori nella chiesa madrilena di S. Antonio de los Portogueses (o de los Alemanes), l'ultima sua opera pubblica condotta in Spagna. Dopo aver modificato gli affreschi sulla cupola eseguiti in precedenza da Rizi e Carreño de Miranda, il Giordano intervenne al di sotto del cornicione. Negli spazi tra le aperture delle finestre, dei coretti e degli altari, realizzò come finti arazzi e con un raffinato cromatismo le Storie di s. Antonio di Padova, intervallate da figure di re santi (anche questa chiesa era all'interno del Retiro) e elementi floreali e architettonici di carattere puramente ornamentale. Il 1° nov. 1700 moriva Carlo II, il re che nell'agosto del 1694 aveva consegnato al Giordano la chiave dello studio di palazzo, facendolo con ciò capo dei pittori di corte. Il rapporto dell'artista con il suo successore, Filippo V, si protrasse per pochissimo tempo e, certo anche per l'età ormai avanzata, il pittore decise di far ritorno in Italia. L'8 febbr. 1702 lasciò Madrid alla volta di Napoli, dove dimostrò di essere ancora in grado di condurre, sebbene con l'aiuto dei collaboratori, opere su grande scala. Tali sono le enormi tele di Donnaregina Nuova realizzate con rapide pennellate, quasi fossero bozzetti in scala gigantesca, rappresentanti le Nozze di Cana e il Discorso della montagna, lasciato incompiuto alla morte dell'artista e saldato ai suoi eredi l'11 marzo 1705 (Pavone); i dipinti di S. Maria Egiziaca (S. Maria Egiziaca nel desertoS. Maria Egiziaca ha la visione della Vergine); la Decollazione di s. Gennaro per la chiesa romana di S. Spirito dei Napoletani, di grande novità compositiva, tutta organizzata sul gioco delle diagonali; le sei tele con Storie di s. Filippo della cappella dei Ss. Carlo Borromeo e Filippo Neri ai Gerolamini. Vero e proprio testamento artistico dell'anziano e malato pittore è infine da sempre considerato il fantasmagorico Trionfo di Giuditta nella cappella del Tesoro Nuovo in S. Martino, per il quale sottoscrisse il contratto il 7 apr. 1703. Un anno più tardi, in aprile, l'opera era conclusa, saldata, e presentata ai Napoletani. Nell'abbagliante luminosità della volta, il Giordano riprese la struttura già sperimentata in Spagna del racconto continuo, svolto al di là di un finto zoccolo che corregge la struttura quadrata del soffitto in uno spazio circolare, con gli episodi principali: la Mortedi Oloferne, la Giuditta trionfante e la Vittoria degli Israeliti sugli Amalachiti. Tutto condotto con un'estrema, virtuosistica, rapidità di tocco cui non corrispose però un altrettanto immediato processo di invenzione. La composizione fu infatti a lungo studiata, come dimostra l'elevato numero di disegni e bozzetti, tutt'oggi in parte conservati. Questo modo di procedere costituisce in realtà una caratteristica precipua dell'arte del Giordano. Solo a cominciare dagli anni Settanta del Novecento si è cominciata a indagare sistematicamente l'attività grafica del Giordano, intensissima come la sua pittura, e con lo stesso grado di variabilità stilistica e tecnica. Se i problemi legati alla definizione di un corpus di disegni sono ancora quanto mai aperti, tuttavia è stato già possibile rendersi conto di quanto la sua velocità esecutiva fosse solo un atto finale, una riproduzione - spesso rimeditata - di quanto era stato, a volte anche dettagliatamente, studiato attraverso disegni e bozzetti. Il 31 dic. 1704 il Giordano faceva testamento, istituendo un fidecommesso perpetuo di primogenitura del quale fu beneficiario il figlio Lorenzo . Luca Giordano morì a Napoli il 3 genn. 1705. L’esposizione si apre con l’Autoritratto proveniente dal Pio Monte della Misericordia di Napoli, databile intorno al 1680-92, per passare ad alcuni disegni giovanili tratti dagli affreschi di Pietro da Cortona in Palazzo Barberini, a Roma. I dipinti che raffigurano San Sebastiano, gentilmente concesso dal Museo Nazionale di Palazzo Mansi e Apollo e Marsia (proveniente dal Museo Stefano Bardini di Firenze), presumibilmente eseguiti negli anni Sessanta del Seicento e ispirati al linguaggio tenebroso di Jusepe de Ribera e di Mattia Preti – largamente apprezzati a Napoli – ci riconducono invece a Firenze, testimoniando già in questo periodo la stima per il pittore da parte di committenti del capoluogo toscano: il primo dipinto proviene originariamente dalla collezione del Cardinale Leopoldo de’ Medici, il secondo da quella dell’Abate Pier Andrea Andreini. Il Trionfo di Galatea (concesso in prestito dalle Gallerie degli Uffizi) ben rappresenta il favore goduto dal pittore in città: esso risulta presente a fine Seicento nelle collezioni del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, ma rimanda anche a ulteriori redazioni dello stesso soggetto presenti nelle collezioni fiorentine Sanminiati e Del Rosso. La quadreria dei fratelli fiorentini Andrea, Ottaviano e Lorenzo Del Rosso annoverava in effetti nel 1689 oltre quaranta dipinti di Luca Giordano. La ricchezza e la varietà delle acquisizioni Del Rosso sono qui testimoniate dai dipinti con scene della Passione di Cristo: due quali oggi sono conservati a Siena e uno nelle Gallerie degli Uffizi. A essi si affianca il pregevole affresco su vimini raffigurante la Samaritana al pozzo (oggi di proprietà privata), esempio del virtuosismo tecnico del pittore. La Gloria di Sant’Andrea Corsini nella cupola sviluppata in chiave ariosa e splendente, è qui ben ricordata grazie ai preziosi bozzetti preliminari all’esecuzione dell’affresco, delle Gallerie degli Uffizi, cui si accompagnano due spettacolari dipinti di soggetto eroico, anch’essi riferiti ai Corsini e per la prima volta ripresentati in coppia. L’accostamento di questi due quadri, di dimensioni notevoli, e dei bozzetti per la Cappella Corsini, a loro volta riferiti a una decorazione murale, permette altresì di cogliere la versatilità di Giordano. All’intensa produzione per chiese e conventi corrisponde una resa altrettanto virtuosa dei temi storici, ben esemplificata dai due quadri che hanno come protagonisti i leggendari Marco Curzio (collezione privata) e Lucio Giunio Bruto (proveniente dal Museo di Casa Martelli a Firenze). A testimonianza dell’apprezzamento della corte medicea, Vittoria Della Rovere, moglie del Granduca Ferdinando II commissionò l’intima e devota Fuga in Egitto (di proprietà delle Gallerie degli Uffizi) e l’intensa allegoria della virtù teologale della Speranza (proveniente da una collezione privata). Il Giudizio di Paride (che fa parte della collezione del Museo Civico di Palazzo Chiericati di Vicenza) ugualmente riferibile al primo periodo fiorentino, è un’ulteriore prova della sapiente rielaborazione della lezione di Pietro da Cortona in tono classico, mentre la scena di Atalanta e Ippomene (collezione privata) si pone come esito magistrale della sua abilità tecnica: dipinto su vimini con una tavolozza chiara e luminosa, è inventariato nel 1715 in questo palazzo, fra i dipinti della collezione Riccardi. La Biblioteca Riccardiana, che ospita nella sua sala di studio uno dei due affreschi eseguiti da Luca Giordano per i Riccardi, apre in analogo periodo una mostra dal titolo Dai libri alla pittura. Viaggio tra le fonti iconografiche di Luca Giordano a palazzo Medici Riccardi a cura di Francesca Gallori con Rossella Giovannetti, Letizia Paolettoni e Giovanna Lazzi. Il percorso espositivo è composto interamente da libri, manoscritti e disegni della Biblioteca Riccardiana, ed intende raccontare alcuni miti degli affreschi attraverso le immagini delle diverse fonti letterarie che possono essere servite da modello al pittore: la Tabula Cebetis, La Sfera del Dati, Le Metamorfosi di Ovidio nelle sue tante versioni, le incisioni di Stefano della Bella, le rappresentazioni delle feste medicee, così come i celebri repertori di immagini del Ripa, del Cartari e dell’Alciati, la Flora di Giovan Battista Ferrari con le bellissime incisioni tratte da disegni di Piero da Cortona, Guido Reni e Andrea Sacchi. Concludono il percorso i tre studi di Giovanni Battista Foggini per gli stucchi e il disegno per uno specchio del salone di Anton Domenico Gabbiani, tutti parte della raffinata collezione riccardiana di disegni. Anche la Biblioteca Moreniana, gioiello della Città Metropolitana con sede in Palazzo, ha contribuito con una piccola sezione espositiva visitabile nella sua sala di lettura e nel percorso museale che propone alcune testimonianze seicentesche e settecentesche che attestano la fortuna del Giordano e delle sue opere a Firenze.
 
 
 
Palazzo Medici Riccirdi Firenze
Luca Giordano. Maestro Barocco a Firenze
dal 30 Marzo 2023 al 5 Settembre 2023
Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Mercoledì Chiuso