Giovanni Cardone Marzo 2022
Fino al 3 Luglio 2022 si potrà ammirare la mostra presso la Fondazione Magnani – Rocca Parma la mostra Lucio Fontana. Autoritratto a cura di Walter Guadagnini, Gaspare Luigi Marcone e Stefano Roffi. L’esposizione si fregia del supporto e del prestito di un importante nucleo di opere della Fondazione Lucio Fontana di Milano. Altre opere di grande rilievo vengono prestate dal Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dal Museo Novecento di Firenze, dallo CSAC, Università di Parma, dalla Collezione Intesa Sanpaolo, dal Patrimonio Artistico del Gruppo Unipol, dalla Collezione Barilla di Arte Moderna, dall’Archivio Ugo Mulas, dalla Biblioteca Fondazione Cariparma, Donazione Corrado Mingardi e da altri prestigiosi Archivi e collezioni private. La mostra nasce dal rapporto tra l’artista, maestro assoluto dello Spazialismo e dell’arte del XX secolo e la
storica dell’arte Carla Lonzi, allieva del grande Roberto Longhi, che ha rivoluzionato l’idea della critica militante con il suo volume di interviste Autoritratto. Accardi Alviani Castellani Consagra Fabro Fontana Kounellis Nigro Paolini Pascali Rotella Scarpitta, Turcato Twombly edito da De Donato, Bari, nel 1969, l’esposizione è composta di circa cinquanta opere del grande Lucio Fontana.
Carla Lonzi inizia il proprio percorso collaborando con celebri gallerie e periodici, presentando poi il lavoro di Carla Accardi alla Biennale di Venezia del 1964. Nello stesso periodo, inizia a raccogliere interviste ad artisti con l’ausilio di un registratore strumento innovativo per la critica d’arte dell’epoca poi trascritte e riassemblate per essere edite appunto nel volume Autoritratto del 1969. Ogni artista parla in prima persona - vi sono discorsi colloquiali senza filtri e quasi senza vincoli esponendo articolate riflessioni sulle proprie ricerche, sul sistema dell’arte nonché sulla propria vita privata. Emergono le idee di partecipazione e di complicità tra il critico e l’artista, che scardinano la visione della critica ufficiale del tempo, con giudizi molto schietti da parte di Fontana su grandi artisti come Jackson Pollock e Robert Rauschenberg.
Autoritratto è anche una soglia che segna l’uscita di Carla Lonzi dal sistema dell’arte per fondare, l’anno seguente, il gruppo Rivolta Femminile. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Lucio Fontana che è divenuta modulo monografico e seminario universitario apro il mio saggio dicendo : Lucio Fontana, comunemente conosciuto come l’artista dei “Tagli” e dei “Buchi”, nasce scultore ed è tale almeno per i primi venticinque anni di attività. È solo all’età di cinquant’anni, infatti, che inizia a forare le sue tele ed è solo a sessant’anni circa che inizia a praticare su di esse i suoi celebri tagli. La stessa azione di perforare o lacerare la tela, per cercare un altro spazio, una terza dimensione, non può essere definita pittura in senso classico. Invero, pur adoperando nel corso della sua carriera diversi mezzi e supporti, dal gesso alla terracotta, dalla ceramica al grès, dalla tela al legno, non è possibile distinguere un Fontana pittore dal Fontana scultore. Egli persegue “un’arte totale”, scegliendo di superare i limiti della forma e dei generei per sviluppare una maniera, uno stile, che non trova distinzione tra scultura, pittura o architettura, ma che ha la finalità di coinvolgere l’uomo nello spazio immateriale delle sue invenzioni. Ad intuire tale tratto distintivo è stato già Lionello Venturi che, in un articolo de “L’Espresso”, afferma: «è difficile parlare di Lucio Fontana , che non si sa bene se sia più scultore o pittore, che ha una genialità senza limiti Forse la colpa è nostra, che non abbiamo sufficiente fantasia per seguirlo.» Se Fontana ha potuto definirsi come “artista spaziale” è perché ha scelto lo spazio come proprio raggio d’azione creativa e immaginativa. Questo primo capitolo ha, dunque, la finalità di delineare l’attività non marginale del primo Lucio Fontana scultore – se è possibile definirla tale, separandola da quella di pittore attraverso un’analisi storico-critica dagli inizi in Argentina presso
l’atelier del padre, fino alle ultime sculture “missilistiche” realizzate sul finire degli anni sessanta, con l’intenzione di provare a delineare meglio come si sia sviluppata la sua tecnica in ceramica. Lucio Fontana nasce il 19 febbraio del 1899 a Rosario di Santa Fé, in Argentina. Il padre, Luigi Fontana, originario di Varese, era anch’egli scultore ed aveva avviato in Argentina una profittevole azienda specializzata in scultura cimiteriale e monumentale. È facile, quindi, comprendere come, fin da giovane, la formazione di Lucio sia orientata alla carriera artistica.
Affidato allo zio materno, Tiziano Nicora, studia in Italia presso l’Istituto Tecnico Carlo Cattaneo di Milano scuola di capomastri e costruttori edili – e contemporaneamente al Liceo Artistico annesso all’Accademia di Brera. Nel 1916 è ammesso alla Scuola Superiore di Arti Applicate all’Industria, nel Castello Sforzesco, dove studia presso la sezione di architettura. Interrompe gli studi nello stesso anno per arruolarsi come volontario nell’esercito italiano, allora impegnato nella prima guerra mondiale. Qui raggiunge il grado di sottotenente di fanteria, ma a causa di un infortunio e del conseguente congedo ritorna a Milano dove, ripresi gli studi, ottiene il diploma di perito edile. Nel 1922, in seguito alla morte del fratellastro Delfo, figlio di seconde nozze del padre con Anita Campiglio, fa ritorno in Argentina, dove inizia a lavorare nell’azienda paterna, Fontana y Scarabelli. Nel 1924 vince un concorso, bandito dall’Università di Medicina del Litorale, con un bassorilievo commemorativo dedicato a Louis Pasteur e decide di mettersi in proprio aprendo uno studio
personale in calle España 565, con la finalità di condurre una ricerca autonoma, indipendente dalla committenza e dall’influenza del padre. Il vero esordio professionale avviene nel 1925, quando partecipa all’ VIII Salòn de Bellas Artes di Rosario, nel quale espose l’opera Melodias «di fatto un ritratto femminile condotto in gagliardo e sommo plasticismo orientato all’accentuazione dell’espressività psicologica, diresti d’eco remota di matrice europea dopo Rodin, fra Bourdelle e Despiau» . Tuttavia, già l’anno dopo, nel Ritratto di Juana Zocchi, esposto nel I er Salòn de Artistas Rosarinos è evidente come la sua ricerca si sia orientata verso un rifiuto del modello tardo rodiniano dimostrando, di contro, un interesse per la scultura cubista a lui contemporanea, rappresentata all’epoca, in Argentina, da Antonio Sibellino, ispirato sia al lavoro di
Bourdelle che a quello di Archipenko e Lipchitz. In questi primi anni di attività, quindi, l’arte di Fontana è orientata a un gusto ufficiale, dall’accento simbolista e tardo secessionista, come appare già in alcuni disegni realizzati per il numero di febbraio del 1925 del mensile “Italia”, edito dalla Società Dante Alighieri di Rosario di Santa Fe. In realtà sono due le principali influenze artistiche di questi anni: la prima è rappresentata dall’arte di Archipenko «che lo seduce per l’eleganza e la disinvoltura della forma», come già aveva rilevato Edoardo Persico, mentre la seconda dall’artista simbolista Aristide Maillol, messa in evidenza da Enrico Crispolti in tempi più recenti. Quella di Maillol è un’influenza priva delle citazioni alla mitologia classica, dove però emerge «una figurazione tendente ad accentuare valori plastici assoluti: un plasticismo denso e turgido, con una continua rotondità delle superfici levigate.» Solamente nell’opera La mujer y el balde è stato evidenziato un accento più classicheggiante; emerge, infatti, un plasticismo che predilige la figura, il volume e l’incidenza della luce. L’influenza del sodo plasticismo di Maillol risalta, con maggiore evidenza, in opere come Maternidad, Mary o ancora nel monumento El puerto de Rosario a Jauna Blanco. L’arte di Maillol rappresentava a quel tempo la restituzione di pienezza plastica in senso figurativo in contrapposizione al vitalismo rodiniano. Dall’altra parte, invece, la sintesi plastica dinamica e il sodo plasticismo di Archipenko, emergono in opere come un piccolo nudo del 1926, oppure in la Mujer y el balde, databile tra il 1926 ed il 1927. In entrambe le opere emerge un interesse verso volumi articolati liberamente nello spazio, a cui si unisce la stessa maniera di Archipenko di torcere le figure a cui si unisce un certo decorativismo ancora di ascendenza secessionista e déco. D’altro canto la presenza di Maillol non abbandona il giovane scultore quando, nel 1927, lascia la carriera, già avviata dal padre, nella città natale, per tornare in Italia, con il desiderio di aggiornarsi con le nuove tendenze culturali europee.
Arrivato in Italia, scrive all’amico Julio Venzo: « sono a Milano da pochi giorni e già mi sento rinascere a nuova vita. Ieri sono andato a vedere l’Esposizione Permanente di Milano, in cui quest’anno prevalgono i novecentisti. La scultura è stata una delusione l’unico è Wuilt veramente meraviglioso, credo che se resto a Milano frequenterò il suo studio, si dà il caso che mio cugino architetto sia intimo amico di Wuilt . È grazie alle conoscenze del cugino, l’architetto Bruno Fontana, che Lucio inizia a frequentare lo studio dello scultore simbolista Adolfo Wildt, iscrivendosi successivamente ai suoi corsi di scultura, presso Accademia di Belle Arti di Brera, durante l’anno accademico 1927-28, dimostrando una maestria tale da essere promosso, a conclusione del primo anno, direttamente al quarto. L’arte di Wildt presenta una forte matrice romantica di impronta simbolista che risente, con riferimento ad esempio all’uso dell’oro e per l’esaltazione della superficie,
delle Secessione Viennese; le sculture dell’artista italiano sono caratterizzate da superfici estremamente levigate e smaterializzate. Le prime opere milanesi di Fontana risentono molto dell’influenza del maestro, come si evince, per esempio, in El Auriga, presentata all’esame di diploma. Conosciuto anche come Eroe che doma il cavallo è già evidente come i passaggi dei paini, concavi e convessi, tipici dell’arte del maestro, si modulano nella luce con una sintesi che rivela una predisposizione all’ambientazione spaziale . Oggi perduti, ma visibili tramite una fotografia del suo studio in via Generale Genova 27, sono un Cristo in croce e un San Sebastiano, evidentemente di destinazione funeraria, dove nel gusto calligrafico del San Sebastiano, impostato su uno sfondo piatto, è visibile la lezione wildtiana. Di contro, l’articolazione spaziale della figura stilizzata e la
composizione dei segni nello spazio rimandano ancora all’influsso di Archipenko. Queste opere dimostrano come Fontana sia, in questo primo periodo di attività, ancora impegnato nella scultura cimiteriale, soprattutto presso il Cimitero Monumentale di Milano. Questa esperienza rappresenta certamente una “palestra” utile per misurarsi con la scultura architettonica, ma, è, di contro, comunque legata al gusto della committenza e alla necessaria approvazione di una Commissione Tecnica, che ha il compito di verificare l’artisticità del progetto. Inoltre, il gusto dell’epoca è ancora di fortemente improntato al Decò e l’arte di Wildt è caratterizzata in massima parte da un linearismo secco, che rende l’immagine estremamente polita e levigata, quasi scarna. Testimonianza di questa attività è una Madonna in bronzo per la Tomba Mapelli, commissionata nel 1927, ma realizzata nel 1928, in collaborazione con il cugino Bruno ed Ercole Faccioli. La levigata fusione del bronzo denuncia l’influenza di Wildt, che in quel periodo è impegnato nella realizzazione di una Madre per il monumento Ravera, realizzato nel 1929, di cui Fontana ha sicuramente visto i disegni. Al Monumentale di Milano, Fontana lavora anche su commissione di Costantino Lentati alla realizzazione di due loculi. Il primo è quello per la madre, Emilia Pasta, mentre il secondo per la figlia Giuliana, morta precocemente all’età di tre anni. La Madonna Pasta appare la trasposizione in bassorilievo della Madonna Mapelli, qui la lezione del maestro emerge non solo nell’uso dell’oro, steso entro la cavità del marmo, ma soprattutto nella lavorazione dei piani fino alla trasparenza. Per la figlia del committente, Fontana esegue invece un grande Angelo con putto alato ricavato all’interno di una nicchia. Ancora figlia della scuola wildtiana è la politezza formale delle figure, le cui forme vengono quasi astratte e geometrizzate attraverso linee incise e un secco panneggio; ma nella grazia dei volti e nella leggiadria dell’intonazione è stata notata un’affinità con le figure di Giò Ponti e le ceramiche di Arturo Martini. Qualche tempo dopo, dallo stesso Lentati, gli è commissionata la tomba per il suocero Ettore de Medici, padre della moglie Maria, morto nel 1928. Questa è formata, secondo il progetto originario, dalla celebre scultura Dormiente, esposta successivamente alla II Sindacale Lombarda, che funge da coperchio ad un semplice sarcofago in granito. Considerata da Persico come realizzata «nel più puro stile novecentista»,
è stata accostata da Crispolti al sodo plasticismo di Maillol, mentre Paolo Campiglio la avvicina, per il primitivismo con cui viene delineato il volume della figura umana, alla produzione grafica di Domenico Rambelli.
Inoltre, il senso plastico delle figure e la concezione primeva delle masse si avvicinano molto alla plastica di Mario Sironi, filtrata da altri artisti novecentisti attivi nel Cimitero Monumentale di Milano. Allo stile di Sironi e Carrà si accostano, ancora, i bassorilievi in bronzo posti ai lati del sarcofago e di cui ci rimangono i bozzetti in gesso.
Il bassorilievo raffigurante ‘La famiglia’, se da un lato ricorda le composizioni di Carrà come l’Attesa o Le figlie di Lot, dall’altro rimanda alla scultura di Martini per la loro figurazione incerta e a tratti scabra e incisa. Mentre il secondo rilievo, quello rappresentante la Vedova, anticipa con il suo profilo squadrato quella che diventerà l’opera simbolo della rottura con l’arte del novecento, l’Uomo Nero, esposto nel 1931 alla sua prima personale milanese. Infine, in ambito cimiteriale, è da citare la Tomba Berardi che rappresenta “la sintesi plastica novecentista, nella compattezza dei volumi, nella sobrietà della composizione, nell’accordo preciso tra architettura e scultura”.
In conclusione, la lezione di Wildt si scopre nell’uso dell’oro, costante sia in opere successive che in altri esempi di questo periodo, come nel caso del Ritratto di Teresina o del Fiocinatore. Come ha voluto ricordare Guido Ballo è proprio da Wildt, «che esasperava i piani concavi e quelli convessi, che facevi i buchi negli occhi», che si può individuare la matrice concettuale da cui Fontana trae l’dea prima dei Buchi e successivamente dei Tagli. Intorno ai primi anni Trenta, la ricerca di Fontana si sviluppa e si orienta, di fatto, su almeno tre fronti: le sculture in terracotta colorata del 1931 – 1932, le celebri tavolette graffite e una serie di rilievi in terracotta dalle forme anatomiche appena definite, che trovano il loro antecedente diretto nell’Uomo nero. È con quest’opera, in particolare, esposta tra gennaio e febbraio del 1931, alla sua prima mostra personale, presso la galleria del Milione, che avviene la rottura con l’arte del Novecento. Tale scultura rappresenta «il primo segno di liberazione, un primitivismo un po’ ingenuo e arbitrario» . Primitivismo non da ricondurre a quell’arcaismo culturistico della corrente tardo-metafisica italiana, che aveva in Arturo Martini il suo esponente di punta, ma piuttosto influenzata ancora della lezione
di Ossip Zadikine e Archipenko. Purtroppo distrutta, dopo il secondo conflitto mondiale, l’opera è stata realizzata in gesso, sul quale è stato versato del catrame, «dove, in una compattezza di massa instaura motivi strutturali paralleli alla ricerca di Wotruba», cioè la stessa maniera, appunto, rendendo la figura quasi un solido geometrico. L’uomo nero è il superamento della lezione classica verso l’espressionismo, a cui è stato attribuito, tra l’altro, il significato del terrore di ciò che non c’è, lo specchio del non essere. La materia graffiata e incisa rimanda ai primi graffiti delle caverne, all’arte primitiva. Primitivismo che emerge soprattutto per il modo istintivo, arbitrario, con cui è stata realizzata la figura, «massivo concretamente, non idealmente, primevo come magma originario, e non come protostorico in senso più o meno storicistico». Con quest’opera Fontana, quindi, rompe con il passato, con la scultura classicheggiante del Novecento italiano che ha cercato di restaurare la figurazione dopo l’iconoclastica espressionista, futurista e cubista per aprirsi verso l’arte europea. Da questo momento in poi l’arte di Fontana non segue una cronologia logica, ma emergono più ricerche differenti; si susseguono l’un l’altra, come se già, fin dall’inizio, esistessero in lui e solo ora trovassero attuazione. Dopo l’Uomo nero, Fontana inizia a utilizzare materiali come il gesso e la terracotta, forse per quest’ultima influenzato da Arturo Martini, il quale ha avuto il merito di aver rivalutato criticamente le fonti scultoree italiane, rielaborando la scultura etrusca, il torso e il frammento in terracotta. Fontana, forse sotto il suo influsso, verso la fine del 1929, inizia ad utilizzare la terracotta, non come rivisitazione storico-archeologica, ma come mezzo per accentuare l’immediatezza dei caratteri e della forma. Si avvale del suddetto materiale soprattutto per quella serie di rilievi figurativi, appena consistentemente colorati, quali - inter alia - Le amanti dei piloti. Schiacciate, quasi da sembrare un bassorilievo, sono definite da un profilo inciso nella materia dai colori accesi,
quasi “fauves”, e lo stesso appiattimento dà alla composizione un spetto al limite tra scultura e pittura. La materia, invece, “appena rappresa, a rigonfi e depressioni improvvise, come di lava, “sa” di spazio, partecipa allo spazio.”
Il sopracitato primitivismo di Fontana de l’Uomo nero viene evidenziato, ancora di più, nelle celebri tavolette graffite in gesso, realizzate a partire dal 1930, esposte per la prima volta, presso la Galleria
del Milone il 14 gennaio del 1935. Definite da Carlo Carrà “rabeschi plastici”, rappresentano, con la loro figurazione molto sintetica e lineare, la perfetta fusione tra scultura e pittura e uniscono alla suggestione surrealista, anzi parasurrealista, del segno inciso in maniera automatica, l’astrazione organica e fitomorfa. La terracotta, per eseguire ritratti femminili e piccole sculture a tutto tondo. Qui il suo spontaneo primitivismo è risolto rendendo una figurazione al limite della narratività poichè la materia è trattata ancora in maniera elementare e informale. Le sagome delle figure risultano nuovamente segnate dalla materia graffiata e definita solamente con il colore posto a freddo che diventa il vero protagonista. Sono queste le opere a cui Crispolti fa riferimento parlando di “l’espressionismo fenomenologico di Fontana”, cioè di «una figurazione immersa del divenire della materia», «radicalmente opposta al naturalismo lirico della scultura di Martini». Sono opere tra cui Bagnante e Gli amanti, presentate come arredo alla V Triennale di Milano del 1933.
La Bagnante è stata realizzata per decorare il bordo piscina della Villa Studio per un artista eseguita dagli architetti razionalisti Figini e Pollini, mente Gli amanti sono pensati per la Casa del Casa del Sabato degli Sposi, opera del gruppo BBPR. Secondo Argan, «il colore non è un fenomeno di superficie, ma è il principio plastico, spaziale, della scultura» cioè viene utilizzato come mezzo per accentuare la superficie, al fine di rendere un risultato maggiormente drammatico. Altre opere, simbolo di queste ricerche in senso coloristico, sono Fiocinatore e la Signorina seduta.
Di quest’ultima si è detto come sia un’opera che guarda ancora al passato dialogando con certe figure femminili di Martini, con il Portiere accovacciato di Manzù e ancora con Archipenko e Zadikine, ma allo stesso tempo è piena di futuro poiché, per i colori con cui è realizzata (oro e nero) due colori non colori, astratti sembra rappresentare la stessa aspirazione all’assoluto di Yves Klein. Il Fiocinatore tra il 1933- 1934 realizzato interamente in oro, come fontana per il Mercato del pesce di Milano, sembra piuttosto un ritorno all’ordine, se confrontata con l’Uomo Nero, ma è piuttosto l’opera che più si avvicina al calco aureo di Arman realizzato da Yves Klein nel 1962. Contemporaneamente alle sculture figurative, la ricerca di Fontana si orienta verso la realizzazione di una serie di sculture astratte, eseguite a partire dal 1934, esposte per la prima volta nella celebre mostra alla Galleria del Milione nel gennaio del 1935 (la prima mostra di Arte Astratta in Italia) che è riproposta poco tempo dopo alla 1 a Mostra Collettiva di Arte Astratta Italiana a Torino, tenutasi presso lo studio di Felice Casorati ed Enrico Paolucci. Sono semplici forme ritagliate nello spazio o strutture dinamiche articolate in modo da captare il vuoto, bifronti, di piccole dimensioni, accostamenti di ferro e gesso, linee spezzate che si piegano e che si curvano secondo linee geometriche “fitomorfiche”. Nascono dall’intuizione delle tavolette graffite e hanno il loro miglior esempio nella, purtroppo oggi dispersa, scultura astratta per l’atrio di casa Ghiringhelli in Piazzale Lagosta, che rappresenta il primo esempio di astrattismo italiano su scala monumentale. La loro forma geometrica è stata considerata più semplice di quelle di Arp o dei cubisti ed è stato notato da Palma Bucarelli che, per la prima volta, la linea più elementare dei segni assurgeva a elemento plastico autonomo, unica determinante dello spazio. Anche se la forma di queste sculture viene definita geometricamente sulla base dell’imprevedibilità e della sperimentalità queste ultime non hanno, come le opere di Calder o di Melotti, il medesimo rigore dei calcoli matematici, ma sono tali per il disequilibrio o l’equilibrio involontario che nasce dalla sua immaginazione. Nel palare di questo artista la mente corre subito ai tagli. Queste tele incise in maniera netta da parte dell’artista argentino sono probabilmente i suoi lavori più famosi. Ma prima di tutto possono essere considerati come
le opere simbolo del movimento Spazialista, fondato dallo stesso Fontana nel 1947 con la scrittura e pubblicazione del primo manifesto dello spazialismo. Scritto in durante un periodo in Argentina il manifesto spazialista pone le base teoriche di questo movimento e pone le basi per gran parte del lavoro dell’artista argentino.
Questa corrente artistica aveva come obiettivo primario quello di “superare” l’arte classica, diventata agli occhi di Fontana stagnante e vecchia. Questo doveva avvenire attraverso la produzione di nuove opere con mezzi innovativi frutto dell’evoluzione tecnica e tecnologica. Il principio cardine doveva essere il superamento dell’arte naturalistica attraverso l’utilizzo di nuovi elementi e strumenti come la luce o, appunto, lo spazio. Ad esempio, possiamo ricordare la Struttura al neon che l’artista creò in occasione della
IX Triennale di Milano
. Fontana fonda quindi questo movimento con lo scopo di superare determinati limiti in cui l’arte precedente costringeva l’artista. L’obiettivo dello spazialismo diventa quindi quello di entrare e muoversi in nuove dimensioni inserendo il tempo e lo spazio all’interno della produzione artistica
. Nonostante la loro fama le prime opere spazialiste di Fontana non furono i tagli ma un ciclo di opere chiamato “Buchi
” che consistevano in spirali create appunto bucando la tela. Il ciclo dei buchi verrà portato avanti a lungo ma con alcune differenze. I buchi disordinati delle prime opere lasciano infatti spazio all’ordine con cui l’artista crea i suoi buchi costruendo costellazioni ordinate e regolari. Il ciclo dei buchi costituisce solo una delle molteplici parti che costituiscono il grande gruppo dei Concetti spaziali. Sicuramente i Concetti spaziali più famosi sono i Tagli che Fontana incominciò a produrre a metà degli anni Cinquanta.
Il senso e l’interpretazione di queste opere sono sempre stati molto vari. Possiamo però dire che Fontana con un solo gesto, non solo crea il taglio ma riesce anche ad andare oltre il confine della tela. Con i tagli e i buchi l’artista mette in discussione la bidimensionalità dello spazio pittorico mostrandocela come una banale superficie in cui ogni rappresentazione è illusoria. Con la lama Fontana riesce a creare una terza dimensione oltre la tela in pieno stile spazialista. Ma ritornando alla figura di Carla Lonzi e per meglio tracciare una storia delle relazioni tra arte e femminismo nell’Italia degli anni Settanta e nello specifico del contesto romano, risulta d’obbligo passare per l’esperienza di una delle protagoniste principali della riflessione teorica femminista del nostro Paese, Carla Lonzi. L’interesse nei confronti di questa pensatrice si rivela in questa sede determinante, perché l’approdo al femminismo si verifica dopo un’intensa attività nell’ambito della critica d’arte. Il lavoro di Lonzi come critica è passato per lungo tempo inosservato, sovrastato dal peso della teorizzazione femminista che si rivela, dopo una lunga riflessione, nel 1970 con il rivoluzionario Manifesto di Rivolta Femminile, oggi pietra miliare del pensiero femminista italiano e internazionale. Tuttavia un’ulteriore causa della mancata identificazione di Carla Lonzi come critica d’arte risiede nella persona di Lonzi stessa. Il passaggio al femminismo determinò un completo abbandono, o meglio un rifiuto, di qualsiasi forma di cultura, prima fra tutte di quella che le era appartenuta e in cui aveva creduto di potersi riconoscere: l’arte. Ciononostante è possibile oggi rintracciare delle linee di continuità nell’esperienza di questa pensatrice, a partire dall’impegno radicale e totalizzante che caratterizza prima il ruolo di critica e poi quello di femminista. Il passaggio per Carla Lonzi è doveroso anche a livello cronologico. Prima di tutto per la pubblicazione nel 1969 di Autoritratto, precoce esperienza di entrata del privato in ambito culturale alla figura di Lonzi è inoltre legata la nascita di Rivolta femminile, uno dei primi gruppi femministi italiani, fondato a Roma nel 1970. Laureatasi in Storia dell’arte a Firenze nel 1956 con Roberto Longhi, Lonzi rifiuta la proposta di pubblicazione del suo lavoro, rinunciando così alla professione accademica. Nel 1960 comincia a lavorare a Torino presso la Galleria Notizie diretta da Luciano Pistoi, attraverso la quale entra in contatto con gli artisti che occuperanno le pagine di Autoritratto. Nel frattempo collabora regolarmente con il periodico culturale della RAI,
“L’approdo letterario”, e con “Marcatré” nella rubrica Discorsi, lasciando emergere da subito un atteggiamento insolito. Dalla forma usuale dell’intervista, il rigido e strutturato alternarsi di domanda e risposta, si arriva a un fluire più libero di pensieri e parole, fino alla sostituzione delle questioni poste agli artisti con i puntini di sospensione. Così facendo Lonzi sottrae al critico d’arte ruolo e ragion d’essere, eliminando il tradizionale compito di direzione e organizzazione del dibattito. Lo scetticismo nei confronti della critica d’arte è già messo in questione nel corso degli anni Sessanta. Autoritratto, come detto, esce nel 1969, stampato dall’editore De Donato in poche centinaia di copie. L’autrice monta liberamente le conversazioni che ha registrato in momenti distinti nel corso di cinque anni, tra il 1965 e il 1969, con quattordici artisti tra i più significativi rappresentanti dell’avanguardia italiana degli anni Sessanta: Carla Accardi, Getulio Alviani, Enrico Castellani, Pietro Consagra, Luciano Fabro, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Mario Nigro, Giulio Paolini, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Giulio
Turcato, Cy Twombly. Il testo non è diviso in sezioni né tantomeno ordinato cronologicamente; si ha piuttosto l’impressione di un unico lungo incontro, una sorta di grande convivio, a cui Lonzi prende parte ponendo quesiti e formulando opinioni. I temi trattati sono molteplici, dal processo del fare artistico, al rapporto con la società e la critica, al confronto ossessivo con gli artisti americani, fino a questioni apparentemente slegate dal mondo dell’arte. Ne deriva un lavoro strettamente connesso al vivere quotidiano: le pagine di Autoritratto restituiscono efficacemente porzioni di vita. La trascrizione del parlato aderisce il più possibile al momento vissuto, garanzia di autenticità di quanto avvenuto. L’uso del registratore consente di mantenere intatto l’episodio a favore di un vero e proprio «culto della cosa accaduta». L’autoritratto a cui allude il titolo è contemporaneamente unico e plurimo. Ogni artista si ritrae singolarmente con le proprie parole, ma forse più verosimilmente è la stessa Lonzi che ritrae sé stessa, artefice arbitraria del montaggio di quanto viene pronunciato, responsabile della ‘forma’ del testo. Il discorso è
‘modellato’ da Lonzi, segue un percorso preciso da lei pensato, seppure tramite una mescolanza di parole sue e parole di altri. «Io voglio stare vicino agli artisti e liberarmi io», dichiara.
Proprio per questo primato della distanza, della visione, della personalizzazione risulta paradossale pensare che accanto alle vergini bizantine e ad alcuni miti pop anche Carla Lonzi abbia rischiato una sorte simile. Archetipo incarnato dell’anti-mito lei che abbandona la produttività dell’autrice per riparare lontano dagli sguardi da sotto in su che l’autorità produce Lonzi si presta bene, con le sue tracce sparpagliate scritti, fotografie, relazioni e i suoi modi non convenzionali registrazioni, ricerche, legami, a essere fatta icona. A lungo in bilico tra una vaga indifferenza troppo lontana dalle rotte consuete e una fiera celebrazione lontana dalle rotte consuete, ella è stata oggetto di una strana forma di appropriazione da parte di autrici, teoriche e artiste di tutti i sessi che ne hanno visto il valore. Distinguo autrici, teoriche e artiste poiché l’entrata nel mito di Carla Lonzi ha proprio a che fare con una lettura parziale che tiene conto solo di alcuni suoi tratti, elidendone altri. Tale scrematura avviene per lei in maniera particolare, ovvero distinguendo tra un pre- e un post-, tra la critica d’arte e la femminista, tra colei che è nel mondo e colei che celebra la differenza attraverso l’assenza. Così, del suo vissuto si racconta una rottura improvvisa, eclatante tra l’esperienza dell’arte e quella del femminismo, rischiando di offrirne un ritratto statico e distante, le cui linee di contorno saturano il quadro. Fuor di metafora, sezionare la vita di Lonzi in questo modo dà luogo a una «narrazione che ha avuto l’effetto di rendere opaco proprio il durante» , ovvero il percorso non il momento, o lo scoppio attraverso il quale il femminismo “si fa”. L’inizio, canonico, è Autoritratto. Tuttavia, nella lettura stimolante e fresca che ne dà Zapperi, quel testo appare come un’epigenesi. Lì, Lonzi devia dal ruolo della critica d’arte sia in quanto persona con una certa autorità, sia in quanto modalità di prendere visione (sguardo ed epistemologia) per istituire un rapporto orizzontale con gli artisti. Composto delle registrazioni delle conversazioni con questi ultimi, il testo lascia che siano gli artisti stessi i soggetti della parola dell’arte, presenti e non rappresentati. Al contempo, la critica d’arte (persona e opera di mediazione) non scompare: è la sua presenza a garantire la diffusione di queste voci. Lonzi è in quel lavoro il soggetto-prisma che incamera la luce e, attraverso l’operazione di montaggio di parole e immagini, la diffrange. Seguendo il percorso trasversale tracciato da Zapperi, la ricomposizione della complessità del pensiero di Lonzi avviene senza forzature, non per tappe, ma per transizioni.
Quando non relegato nel “pre-” della retorica sminuente della rottura, Autoritratto si può leggere come il canovaccio sul quale verrà organizzato un processo di liberazione femminile che, sebbene prenda le fattezze di una pratica molto personale il “partire da sé, l’autocoscienza, avrà delle ripercussioni dirompenti, molteplici e plurivoche, tanto da caratterizzarsi «come una pratica collettiva potenzialmente estendibile al di fuori del gruppo» .In Autoritratto, Lonzi si appropria, quasi istintivamente, essendo il femminismo ancora non fatto di una dimensione collettiva, in cui la partecipazione e i rapporti consentono lo schiudersi delle differenti soggettività. L’avvicendarsi di registrazione presenza degli artisti e montaggio presenza di un soggetto che ne fa esperienza e se ne appropria è una pratica sperimentale che si lega ai tanti fili che poi andranno a intessere il femminismo di Rivolta femminile. Qui già si manifestano la vocazione al riportare gli scambi su un piano orizzontale e la necessità a quella connessa di logorare i ruoli che andrebbero occupati. Il “disertare i ruoli”, la messa in mora di una istituzionalizzazione della propria soggettività, rimanda a sua volta alla sperimentazione costante da cui far emergere una soggettività
differente. Ancora, all’interno di un lavoro dalla possibile disposizione accademica, l’uso di tecniche sperimentali e l’integrazione delle conversazioni private, «aspetti tradizionalmente rimossi dalla vita sociale» , guadagnano l’allure di un preludio. Così, si vede come dalla modalità di composizione di questo esperimento affiorino già i «temi dal “significato apertamente politico» della ripetizione, dell’anacronismo e dell’interruzione” poi maturati appieno nel 1972 in Sputiamo su Hegel. Le conversazioni dirette momento quanto mai contingente estendono (e modificano) il loro valore nell’essere tramutate in segni materiali che si nutrono non solo dell’ascolto, ma anche e forse in primo luogo di un gesto di mediazione che li inserisce in un contesto più ampio e complesso. La tecnica della registrazione è la prima esperienza di quello che diventerà poi una «sorta di palinsesto» , sul quale si struttureranno il diario (Taci anzi parla. Diario di una femminista) e il congedo dal compagno Consagra (Vai pure), opere fondazionali per il femminismo di Lonzi. Il montaggio, la scrittura del diario, la trascrizione sono forme distinte, ma contigue tramite le quali rivalutare, a posteriori, un momento contingente ri-presentandolo, esse “segnalano il momento in cui passato e presente si sovrappongono, riconfigurandosi uno attraverso l’altro” . Questo turbinare di momenti, sfilaccia il tempo della storia linea retta che progredisce, tipica di una specifica lettura sui cui si è invitati a sputare, portando alla luce una temporalità fratturata, scandita in primo luogo dalla rivalutazione del presente, quale momento unico, contingente e indomabile in cui il soggetto “si incarna”, delineandosi «nei termini di una potenzialità all’interno di una dinamica collettiva» . In questa temporalità c’è, dice Lonzi, “tutto”. L’intreccio di passato, presente e futuro si pensi ancora al registratore: ascoltare nel futuro un presente che è passato e che viene, nel presente, rimodulato convoglia pratiche per loro natura plurali, collettive e “deperibili” «capaci di innescare processi di soggettivazione che contrastano il proprio assoggettamento» . Ritorna a questo punto centrale il legame che corre tra la femminista e la critica. Infatti, come ben si coglie dalla ricostruzione di Zapperi, è nel rapporto con gli artisti e, soprattutto, con le artiste che Lonzi capisce che l’arte (come chi la produce) non può farsi vettore di quelle forme liberatorie di costituzione del sé e di formazione dei legami. Di più, è a partire da una rinnovata concezione dell’arte impossibile da ottenere se non stando in quel dominio, agendo sui concetti a questa propri che si rende possibile l’articolazione di un pensiero politico imperniato sull’assenza. Andiamo per ordine: sono le incomprensioni con le artiste che gravitano intorno a Rivolta come Suzanne Santoro o quelle, dolorose, che gravano sui rapporti affettivi più intimi Carla Accardi e Pietro Consagra, che accompagnano l’autrice verso inquadramento dell’arte come ad appannaggio “maschile”. L’arte è un campo già strutturato, che presuppone il primato di un soggetto creatore, le cui produzioni possono essere fruite, al massimo possedute. Essa si mostra alfine una pratica istituzionalizzata, i cui prodotti presentano forti affinità con i frutti alienanti del lavoro.
Così, la creazione artistica rimanda all’idea dell’unicità del creatore non del prodotto, attenzione, siamo nel mito, postulando l’asimmetria tra l’artista demiurgo e lo spettatore recipiente la cui soggettività si dà nell’accettazione passiva del prodotto. Se in Autoritratto l’interazione con gli artisti era un moto di soggettivazione, Lonzi capisce che l’arte non può avere una vocazione liberatoria quando si avvede che il “mito dell’unicità” che permea arte, attività artistica e artista non lascia spazio per la ritrazione, per il vuoto, per l’assenza. Forme, queste, dello stesso movimento che Lonzi farà femminismo.
Il soggetto dell’arte non contempla la ritrazione, poiché pretende di riconoscere l’altra a partire da sé, piuttosto che aprirsi al riconoscimento di sé a partire dall’altra. Allo stesso modo, l’artista abbraccia l’autenticità quale attestazione di unicità individuale, invece di cercarvi l’appartenenza a una collettività riconoscendo il vuoto in sé, facendo vuoto di sé. E infine, la creazione artistica si cristallizza nella presenza, al cospetto del prodotto tangibile dell’attività artistica, mentre per Lonzi la creatività abita il ‘ruolo ricettivo’ che permette all’assenza di farsi compresenza, “permette di far esistere l’altra persona attraverso una relazione” . Eppure, attenzione. Tale movimento verso l’altra persona lo dimostra l’amarezza con cui Carla rimprovera ai suoi affetti assenti o presenti di non accordarle il giusto riconoscimento non è piano, oblativo, estraneo a dinamiche gerarchiche o verticalizzanti. Strappare Lonzi dal mito significa anche lasciar fiorire le profonde contraddizioni che abitano la persona, svelando il complicato rapporto tra vissuto e tessuto forse tra vita e arte della vita. Zapperi, con la levità della sua ricostruzione è difficile scrivere di vite convolute su cui molti, anche chi le ha vissute, hanno scritto, restituisce a Lonzi anche questa dimensione, riconoscendole una grande forza: non quella bruta di dare corpo a uno strappo netto chiusura, abbandono, rigetto, ma quella davvero tutta femminista per come Lonzi stessa tenta di definire cosa questo comporti di fare del fallimento l’occasione paradossale di una liberazione» . Interessante notare che questo passaggio viene confezionato da Zapperi a partire da un montaggio che mette in dialogo Lonzi con le teoriche queer e post-coloniali che molto hanno appreso dal femminismo, ma che anche molto lo hanno perturbato. Strane cose accadono a Lonzi: trascinata nel mito per l’appropriazione di coloro che le sono (state) prossime, viene riscattata da chi scompagina una distinzione sessuata che le è comunque fortemente appartenuta. Artiste e
femministe si sono avvicinate troppo spesso a Lonzi come a un’icona, ne sono prova e qui dissento dalla lettura appassionata di Zapperi i modi in cui negli ultimi anni il mondo dell’arte ha rimesso in circolo la voce e, meno spesso, la persona di Lonzi attraverso installazioni, performance e produzioni che ne fanno brillare la radicalità netta. Lavori che strillano che “siamo tutte clitoridee” appiattiscono l’irsuta, agitata pienezza di «colei che si è ribellata all’identificazione con quel prodotto già finito e disponibile che viene chiamato “donna” . Forse, il riconoscimento ready-made offerto da alcuni tributi sancisce l’oscuramento di un femminismo che «coincide con il fallimento» . La mossa di liberazione è proprio quella che si esprime in una “postura di diniego”, in una “soggettività impossibile”, in qualcosa che non “incarna”, né “agisce in conformità” con un sistema unico, univoco, unificante di valori. Il soggetto imprevisto non si fa trovare lì dove deve essere, né nel tempo che le è proprio: questo il nodo. Qualsiasi forma di riconoscimento tradisce Lonzi, perché la tinta della sua politica, vita, esperienza è quella dell’ineffabilità:completamente fuori dal campo della visione, Lonzi tocca, anzi parla. Ed è questo il maggiore dei riconoscimenti: anche quando ritagliata, appiattita, saturata l’esperienza di Lonzi mette in atto degli effetti, muove degli affetti, fa fare cose. Delle quali Lonzi stessa forse si sarebbe lamentata. Concludo con un’immagine per tener fede all’impossibilità di essere fedeli alla lettera lonziana. La bella foto di copertina del libro mostra una Lonzi aureolata dalle luci di un luna-park, che con le braccia conserte si schermisce per poi elargire uno sguardo d’intesa inafferrabile rivolto, comunque, a qualcuno che è poco più sopra e a destra di chi fotografa, o di chi guarda. L’esposizione dunque segue,
narrativamente, la conversazione tra Fontana e Lonzi, permettendo la realizzazione di un percorso antologico, ma non dogmatico, con lavori che toccano i momenti salienti e peculiari della ricerca fontaniana
, un itinerario nel pensiero e nella pratica di un artista che riteneva che l’arte dovesse essere vissuta attraverso una nuova dimensione, all’interno della quale entravano anche nuove tecnologie e materiali. Vengono esposte opere di vari periodi, dalle sculture degli anni Trenta ai “Concetti spaziali” (“Buchi” e “Tagli”) dagli anni Quaranta ai Sessanta, oltre ai “Teatrini” e alle “Nature” bronzee; spettacolari sono l’enorme
New York 10 del 1962, pannelli di rame con lacerazioni e graffiti,in dialogo con la luce a evocare la sfavillante modernità della metropoli, e la potentissima
La fine di Dio, 1963, grande opera realizzata a olio, squarci, buchi, graffiti e lustrini su tela, emblematica della concezione spazialista e insieme religiosa dell’artista. Il percorso si chiude con opere di Enrico Baj, Alberto Burri, Enrico Castellani, Luciano Fabro, Piero Manzoni, Giulio Paolini, Paolo Scheggi, provenienti dalla collezione personale di Fontana, artisti più giovani da lui seguiti e promossi. Particolarmente suggestive le serie fotografiche scattate da Ugo Mulas a Fontana, del quale sono esposte anche due opere appartenute al grande fotografo; di una di esse è esposta la documentazione fotografica dell’intera genesi, dal primo “buco” all’opera compiuta, un
unicum sia nella storia del fotografo sia in quella dell’artista. Una peculiarità del progetto è l’aver recuperato il file audio della conversazione originale e integrale, dove si può ascoltare la diretta
voce di Fontana che parla del suo lavoro, della sua vita d’artista, della sua attività di collezionista ma anche di esperienze e avventure quotidiane (Lonzi pubblicherà nel volume del 1969 solo una parte della lunga intervista).Le parole di Fontana vengono utilizzate sia come installazione sonora sia come filo narrativo lungo tutto il percorso della mostra Autoritratto. Il catalogo edito da Silvana Editoriale è curato, come la mostra, da Walter Guadagnini (già curatore di due prestigiose mostre presso la Villa dei Capolavori), Gaspare Luigi Marcone (storico e curatore di numerosi progetti sugli artisti italiani del XX secolo), Stefano Roffi (direttore scientifico della Fondazione Magnani-Rocca). Oltre a quelli dei curatori, contiene contributi di Paolo Campiglio, Mauro Carrera, Lara Conte, Maria Villa, con la riproduzione di tutte le opere esposte.
Lucio Fontana . Autoritratto
Fondazione Magnani – Rocca Parma
dal 12 Marzo 2022 al 3 Luglio 2022
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso