Giovanni Cardone Marzo 2023
Fino al 13 Settembre 2023 si potrà ammirare al Museo del Novecento di Firenze la mostra Lucio Fontana. L’origine du monde da un’ idea di Sergio Risaliti. La mostra si avvale del supporto e del prestito di un consistente nucleo di opere della Fondazione Lucio Fontana. Un ringraziamento speciale alla Fondation Marguerite et Aimé Maeght e Giò Marconi. L’indagine sulle forze primigenie che sono all’origine del manifestarsi della vita sulla terra e nel cosmo e della stessa creazione artistica, sono il fulcro tematico della mostra. Il titolo evoca il celebre quanto scandaloso dipinto di Gustave Courbet e declina il significato gnoseologico di quel dipinto ottocentesco verso un’interpretazione archetipica dell’eros come forza generatrice della vita umana e del cosmo. Eros sempre in bilico tra l’alto del mondo platonico e il basso materialismo delle funzioni corporali sessuali. La mostra intende proporre un’inedita riflessione sull’opera di Fontana, la cui arte appare essere non tanto maschile, vulcanica, demiurgica, come molta letteratura critica ha già sostenuto, quanto allusiva alla forza generativa femminile, che è attiva nella mente dell’artista come nella natura, nel cosmo e nel corpo fecondo della terra.

Nuova luce può essere gettata sui suoi “tagli”, i suoi “buchi”, le sue rappresentazioni grafiche, eseguiti spesso con gesto primario, infantile, come una pulsione istintuale, prima ancora di essere progetto e riproduzione. In una mia ricerca storiografica e scientifica su Lucio Fontana apro il saggio dicendo : Fin dai tempi antichi l’uomo arcaico si è interrogato sull’esistenza di entità soprannaturali, cercando di dare delle risposte alle domande esistenziali: Chi sono? Da dove vengo? Dove sono diretto? Mircea Eliade, uno dei massimi storici delle religioni del Novecento, ha compiuto numerosi studi sulle confessioni sorte nel corso dei secoli con l’intento di dare delle risposte esaurienti alle domande esistenziali. Eliade procede l’analisi concentrandosi inizialmente sull’uomo arcaico e arriva ad appurare una forte sacralità e spiritualità negli uomini antichi. La parola “sacralità” deriva dal termine sacro, che significa “separato”: La sacralità , non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che la relazione e contatto con potenze che l’uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata “divina”, pensata comunque come “separata” e “altra” rispetto al mondo umano . L’uomo percepisce l’esistenza di entità superiori qualitativamente diverse dalla sua natura umana e crede possano risiedere in mondi lontani, trascendenti la realtà terrena. L’uomo arcaico cosciente del sacro viene definito da Elide, homo religiosus e secondo lo studioso: L'uomo prende coscienza del sacro perché esso si manifesta, si mostra come qualcosa del tutto diverso dal mondo profano. Per tradurre l'atto di questa manifestazione del sacro abbiamo proposto il termine ierofania, vale a dire che qualcosa di sacro si mostra. Le ierofanie sono la manifestazione di qualcosa di completamente, e qualitativamente, diverso dagli enti nel mondo terreno e sono perciò la prova tangibile dell'esistenza di una, o più entità, che trascendono il mondo profano. Queste potenze incontrollabili sono così “altre” dalla condizione umana da essere temute dall’individuo, tanto da porsi di conseguenza in una condizione di sottomissione. La storia delle religioni può essere considerata una storia di ierofanie, partendo dalle credenze più primitive fino ad arrivare a delle religioni più elaborate con l’intento di raccogliere l’area del sacro. Le credenze primitive scorgono testimonianze del sacro in realtà elementari come pietre, alberi e in altri elementi naturali del mondo, ma con il passare dei secoli queste credenze sono mutate e, senza soluzione di continuità, sono sorte le religioni politeiste e successivamente le religioni monoteiste.
Dio è arrivato infatti molto tempo dopo, quando le comunità hanno elaborato credenze complesse, si sono sviluppati nuovi riti celebrati soltanto dai sacerdoti in luoghi adibiti a queste ricorrenze, separati da ogni altro spazio, e vengono istituiti tempi di festa qualitativamente diversi dallo scorrere del tempo ordinario. Nonostante ogni religione abbia sviluppato riti e credenze molto diverse si possono osservare elementi comuni a tutte le confessioni monoteiste, per esempio, sono concordi nell'affermare l’esistenza di un solo e unico Dio utilizzando però nomi diversi per invocarlo. Tra di esse si inserisce il credo cristiano in cui la ierofania suprema consiste nella fede in un unico e vero Dio, il cui figlio si è incarnato e si è fatto uomo per la salvezza dell’umanità. Alcune religioni, fin dai tempi antichi, si sono servite delle immagini come veicoli per trattare tematiche sacre. Il credo cristiano si è sempre affidato alla figurazione per rappresentare il Divino e gli eventi del testo sacro, la Bibbia; a differenza di altre religioni monoteiste, come per esempio quella ebraica o musulmana, ha sempre ritenuto fondamentale la trascrizione in immagine della parola di Dio . Alla luce di questo intento le istituzioni ecclesiastiche cristiane hanno incoraggiato e promosso le committenze artistiche al fine di utilizzare le immagini sacre per parlare, comunicare e coinvolgere il fedele: “ le immagini, proprio come le figure dei santi, sembravano possedere la capacità di toccare strati assai profondi dell’animo dei fedeli ed essere in grado di rispondere ad esigenze diverse da quelle che riuscivano a soddisfare gli ecclesiastici in carne e ossa” . Le prime testimonianze di immagini sacre risalgono ai primi secoli del cristianesimo, in particolare a partire dal VI secolo, e venivano realizzate principalmente in due centri di produzione: il Monte Sinai e Roma. Le icone inizialmente non erano considerate opere d’arte, come afferma Hans Belting dopo vari studi dedicati all’analisi delle prime immagini su tavola, ma erano elementi a cui si attribuivano poteri miracolosi. Nelle icone i ritratti dei santi, della Vergine o del Cristo fungevano da testimonianze tangibili sulla terra della loro effige: “Si realizzava così in esso un’esemplare connessione con la trasmissione della salvezza e questa gli assicurava una forma di esistenza talmente singolare, che nella messa in scena delle cerimonie di stato era presentato come se si trattasse di una persona” . Il ritratto del soggetto divino è realizzato secondo i dettagli corporei riportati nelle scritture e dalle caratteristiche figurative presenti nelle antiche icone ritenute “originali” successivamente agli aspetti meramente fisici vengono associati gli elementi provenienti dal profilo etico dell’effigiato, secondo le credenze consolidatesi nel corso del tempo. Purtroppo molte di queste icone sono state distrutte in una furia iconoclasta all’inizio del VIII secolo , nell’impero d’Oriente. Le immagini inducevano nei credenti un siffatto livello di entusiasmo che preoccupava molto i dirigenti politici: “ il culto delle immagini era giunto a tali livelli di fanatismo che si raschiavano i colori dei dipinti per miscelarli al vino che si distribuiva ai fedeli dopo la messa. Gli abusi erano tali che ebrei e musulmani presero a chiamare idolatri e iconoclasti i cristiani”. I cristiani furono spesso tacciati di idolatria, essendo accusati di adorare l'immagine di un “idolo” che non corrispondeva al vero Dio, ma la difesa a questa accusa consisteva nel precisare che non venivano adorate le immagini di dei pagani, ma le icone erano prodotte secondo le informazioni provenienti dai testi sacri. Queste immagini poi, secondo i cristiani, non erano fine a sé stesse, ma avevano la funzione di aiutare il fedele nella preghiera dell'unico vero Dio. Un altro argomento adottato per giustificare la trasposizione in immagine di figure sacre, come per esempio il ritratto di Cristo, era il tema dell’incarnazione; Dio si è incarnato, si è fatto uomo in Cristo suo figlio dotato quindi non solo della natura divina, ma anche di quella umana: “Se Dio si è incarnato nel figlio Dio ha voluto mostrarsi e farsi vedere; e il cristianesimo che si distingue dall’ebraismo proprio perché riconosce l’incarnazione di Dio afferma il primato della vista e dell’udito, quindi dell’immagine sulla parola”. Si giustifica quindi l’importanza delle immagini grazie all’enunciazione teologica elaborata nel 325: La versione originale del Credo niceno, dice che Cristo è consustanziale al Padre, cioè della stessa sostanza del Padre, e che per noi e per la nostra salvezza scese dal cielo e s’incarnò e si fece uomo. Talché, Cristo può essere raffigurato come uomo, e negare questa possibilità significa implicitamente aderire all’eresia gnostica del III secolo, secondo la quale Gesù, su questa terra, non è vero uomo, non è fatto di carne, ma è puro fantasma . Molti teologi e monaci nel corso del tempo hanno trattato dell’importanza e dell’efficacia dell’immagine visiva rispetto alla percezione uditiva, un monaco bizantino di nome Teodoro Studita affermava con convinzione: “La realtà, quando è assente deve vedersi solo intellettualmente, non può vedersi neanche intellettualmente se prima non è stata vista sensibilmente”. Per le comunità dei credenti non era possibile consultare in prima persona i testi sacri, non sapendo leggere o scrivere, e quindi le immagini diventavano un mezzo essenziale per raccontare ai fedeli gli eventi biblici, le storie sacre e i dogmi della religione rivelata. L'utilizzo della figurazione in ambito religioso è stata una conquista lenta, inizialmente i vescovi condannavano le immagini che rappresentavano il Divino, ma con il concilio di Nicea indetto nell'anno 787 d.C., si decise definitivamente in favore delle immagini per rappresentare Dio, suo figlio, Maria, gli angeli e i santi. I luoghi di culto vennero decorati con opere iconograficamente sempre più complesse e di alta qualità. Le pareti non erano più solo strutture architettoniche, ma diventavano pagine figurative del testo biblico. All'interno dell'Esodo viene trattata l'esigenza di produrre immagini con l'aiuto di certi uomini dotati “di saggezza e d'intelligenza” (Esodo v. 36,1), che hanno ricevuto direttamente da Jahvè il compito di decorare e costruire un santuario e un'arca per contenere le tavole della legge date al patriarca Mosè: “ tutti gli artisti che il Signore li aveva dotati di saggezza e di intelligenza, perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario, fecero ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato” (Esodo v. 36,1). Questa porzione di testo testimonia l'inizio della collaborazione tra l’arte e la religione cristiana. Tale rapporto è stato molto prolifico, infatti la Chiesa si è sempre affidata ad artisti di grande talento per la decorazione dei luoghi di culto ai quali ha concesso con il passare del tempo maggiori libertà d’esecuzione e d’invenzione iconografica, sempre nei limiti di una corretta trascrizione dei testi sacri. Spesso gli artisti erano aiutati da varie figure nella fase di ideazione del progetto artistico, come umanisti e teologi. Il committente ovviamente dava direttive precise e richiedeva agli artisti di lavorare in conformità alla liturgia. Come è noto lo sposalizio tra religione ed arte sacra ha portato alla produzione di capolavori che sono alla base della storia dell'arte. Si sono sviluppati con il tempo nuovi generi artistici, ma la committenza di arte sacra non ha mai subito forti battute di arresto, fino ai giorni nostri. La simbiosi tra comunità ecclesiale e artisti era qualcosa di assolutamente normale, in quanto non si manifestavano apertamente conflitti o pensieri anticlericali così forti da incrinarne il rapporto. Gli artisti erano ben coscienti di non poter esprimere apertamente le proprie idee religiose, se erano in antitesi con i dettami della chiesa cattolica. La sintonia tra comunità ecclesiale ed artisti cominciò però ad incrinarsi tanto che con il passare del tempo le opere di arte sacra mutarono notevolmente, si arrivarono a produrre delle iconografie spesso lontane da una trascrizione fedele dei testi sacri. Durante il Concilio di Trento , indetto nell’anno 1545 per riformare la Chiesa cattolica, si dettero delle direttive per realizzare opere conformi al credo e si imposero delle limitazioni alle sperimentazioni degli artisti. Molte immagini non erano ritenute in linea con il testo sacro, si evidenziarono infatti delle inesattezze nella trasposizione figurativa che potevano causare confusione nei fedeli. Dei delegati papali furono incaricati di fare numerosi controlli e di denunciare le opere non in linea con il credo e i dogmi religiosi. Questo è il primo segnale di un rapporto che si stava incrinando e che sarebbe mutato da lì a poco. Nel corso del tempo le immagini diventano sempre più temporali che spirituali, testimoniando una grande attenzione alla resa naturalistica dei personaggi. È proprio in questo momento che cominciano ad incrinarsi i rapporti tra la Chiesa e mondo dell'arte, tra “la grande arte” e “l'arte di Chiesa”. Questo momento di forte crisi è sentito in modo più evidente in Italia, in quanto il dialogo tra le due parti aveva portato a numerose testimonianze artistiche di alto livello, arricchendo di innumerevoli capolavori l’intero territorio. L’inizio della rottura avviene, come noto, nel settecento quando le nuove idee politiche e filosofiche determinarono la crisi di un rapporto secolare, che non trova ancora oggi soluzioni di pacificazione. Molto forte è il clima anticlericale sviluppatosi nel periodo illuminista, in cui si sancisce il trionfo della ragione e della scienza a discapito delle superstizioni e delle religioni. Solo ciò che è empiricamente verificabile e osservabile è accettato, mentre ciò che non è sperimentabile viene negato; sono secoli caratterizzati da un forte materialismo e da una profonda fiducia nelle possibilità scientifiche, a discapito delle religioni: “ occorre tener presente che la rimozione del sacro comporta l’assolutizzazione del cosmo della ragione, che, quando si fa sicura di sé, più non socchiude la porta dietro la quale si aggira la violenza dell’indifferenziato e il caos” . Precedentemente è stato affermato che l’uomo arcaico era un homo religiosus, fortemente legato al sacro e a tutte le sue manifestazioni, ma con il diffondersi delle idee illuministe si è giunti a quello che Mircea Eliade denomina, uomo profano: il mondo profano, totalmente profano, il Cosmo totalmente desacralizzato è una scoperta recente dello spirito umano. La desacralizzazione caratterizza l'esperienza totale dell'uomo non-religioso delle società moderne; e che, conseguentemente, quest'ultimo incontra sempre maggiori difficoltà a ritrovare le dimensioni esistenziali dell'uomo religioso delle società arcaiche. Nei tempi moderni si assiste ad una rivoluzione culturale con lo scopo di eliminare ogni credenza nel trascendente in favore della realtà empirica. L'uomo moderno, secondo Eliade, ha desacralizzato il mondo ed ha fiducia solo in sé stesso e in quello che può verificare empiricamente. Il sacro è avvertito come un ostacolo alla sua libertà e tale libertà non sarà davvero realizzata finché non verrà ucciso l'ultimo Dio. È evidente come questo passaggio teoretico si sia concretizzato nelle filosofie nichiliste moderne, che verranno approfondite in seguito. In campo artistico il XIX secolo inizia con una tendenza neoclassica, con citazioni del passato e iconografie tradizionali, fino ad arrivare a una corrente molto soggettivista che si concentra sulle esperienze intime degli artisti, i romantici. I sentimenti anticlericali sono sempre più forti e non si deridono più soltanto i ministri della Chiesa e il Papa, come durante la Riforma protestante o la Rivoluzione Francese, ma vengono derise anche le figure della fede cristiana: Cristo, Gesù, la Madonna. Lo storico e teologo François Bæsplung ha condotto per trent'anni una ricerca iconografica legata all'immagine di Dio nell'arte, che lo ha portato alla pubblicazione di un volume intitolato: Le immagini di Dio. In questo ricchissimo testo lo studioso ha evidenziato un'intensa circolazione di immagini satiriche di stampo anticlericale, alla fine dell'Ottocento: Per la prima volta intorno al 1870, o anche qualche tempo prima, in particolare in Belgio e in Francia ma anche in altre parti dell'Europa Occidentale, i simboli più sacri della religione dominante vengono derisi. Una cosa in effetti è prendersi gioco del clero un'altra è trasgredire il divieto plurisecolare di prendersela con le figure centrali della fede cristiana cercano di offendere i fedeli e senza più neppure più temere di farlo. Queste immagini, continua lo studioso, non sono di difficile comprensione ed hanno lo scopo di essere più immediate possibili per essere comprensibili da tutti. Si assiste ad una vera e propria svolta iconica offensiva, che prende di mira la tradizione cristiana sui giornali, sui fumetti e nelle pubblicità. È un nuovo e vasto ambito sorto accanto a quello tradizionale delle immagini di devozione religiosa, i santini, e a quello dell'arte commissionata nell'ambito dei contesti liturgici (pale d'altare, decorazioni, sculture). Resta poi esclusa dall'ambito clericale la “grande arte”, molti artisti hanno infatti intrapreso nuove vie allontanandosi da una figurazione religiosa e scegliendo di confrontarsi con temi legati al mondo profano commissionati da illustri committenti. Gli artisti meno innovatori si confrontano con il tema sacro, quelli invece più sperimentatori cercano di esporre le loro opere nei Salon e nei loro atelier.

Le avanguardie artistiche dei primi del Novecento si rifiutano di prendere come modello l’arte del passato e si sentono incaricate di aprire la via al nuovo, si considerano un élite culturale in grado di cogliere e investire concretamente nel progresso. Nonostante questa grande stagione anticlericale ci sono ancora artisti che si pongono in dialogo con le tematiche religiose, anche se non sempre in modo diretto. Carlo Sisi, nel catalogo della mostra tenutasi a Firenze e dedicata ad un excursus della produzione dell'arte sacra nel contemporaneo, vede infatti tra l’800 e il ‘900 una rinascita delle iconografie religiose. Tornano in auge temi come: la maternità di Maria, o episodi della sua vita, e le scene della vita di Gesù. Ogni artista ha intenti molto diversi: fondamentali furono le questioni dell'autonomia artistica nel rispetto delle iconografie tradizionali e della comunicatività dell'opera di tema sacro, che doveva necessariamente scaturire dall'esperienza personale dell'artista. Per altri la narrazione evangelica avrebbe consentito di estendere al sacro le componenti dello stile maturato nell'ambito dei movimenti, in un singolare amalgama di espressioni figurative corrispondenti ai diversi temperamenti degli artisti e delle contingenze culturali e politiche in cui essi si trovarono ad operare . Questi episodi biblici diventano veicolo d’espressione delle esperienze personali degli artisti e soprattutto delle conseguenze che gli eventi storici e culturali hanno sulla loro psiche e sulle loro riflessioni. Tutte queste simbologie vengono filtrate attraverso nuove tecniche e nuove stesure del colore. Gli artisti utilizzano nuovi linguaggi e risulta difficile una visione completa ed esauriente di tali possibilità, ma si possono comunque vedere delle correnti artistiche trainanti in questi anni movimentati. La studiosa Anna Mazzanti, nel catalogo della mostra fiorentina, riporta una convinzione dell'artista Denis sulla situazione di fine ‘800 e inizio ‘900: “ non esiste un'unica arte religiosa, ma le diverse espressioni artistiche sono invece accomunate da un'unica profondità religiosa, vale a dire la spiritualità divisionista, sintetista, simbolista o altra, ha prima di tutto il dovere di esteriorizzare l'emozione cristiana”. Con il simbolismo, in particolare, si è avuta una reazione alle concezioni materialiste della vita e dell'arte e spinse molti artisti a confrontarsi nuovamente con l'arte cristiana. Purtroppo sono pochissime le commissioni ecclesiali che mirano a coinvolgere gli artisti di questi correnti, la Chiesa infatti li vedeva con sospetto e li considerava non idonei ad esprimere le sue verità. Quando venivano richieste delle opere per i luoghi di culto, i committenti obbligavano gli artisti ad attenersi a forme rigidamente tradizionali, fortemente narrative ed aneddotiche; questa situazione si protrarrà fino alla seconda guerra mondiale. I committenti non si trovano più in competizione per aggiudicarsi i migliori artisti nei propri progetti, non sussiste più quello scambio prolifico che ha da sempre caratterizzato la storia dell’arte. I rapporti tra arte e Chiesa sono ufficialmente incrinati e sembra molto lontana una possibile ed immediata risoluzione. L'arte agli inizi del XX secolo è in un momento di grande confusione, la “grande arte” non ha più un codice comune di rappresentazione del Divino e cerca sempre il modo di rinnovarsi. Accanto a forme d’arte che trattano di temi soprattutto profani, ci sono artisti che si confrontano ancora con il tema sacro, ma: “ in un contesto di questo genere Dio è eluso o camuffato” . Tra le correnti sintetiste e simboliste, comparvero le prime opere degli artisti espressionisti, alcuni si confrontavano con il tema sacro, ma erano coscienti che le gerarchie ecclesiastiche non li avrebbero accolti nei santuari. Le opere d'avanguardia non venivano accettate nei luoghi di culto e avevano difficoltà anche ad essere ammesse nei musei. L'annessione ai luoghi d’esposizione permanente delle opere d'avanguardia è stato un processo graduale, avvenuto agli inizi degli anni venti e trenta. Come spiega infatti Francesco Poli, studioso e insegnante di storia dell'arte contemporanea: “ l'arte nuova è sostenuta da un numero limitato di collezionisti e di critici militanti, cioè da un élite culturale e mercantile in contrapposizione al sistema artistico ufficiale” . L'arte ufficiale, e cioè quella ritenuta tradizionale, aveva ancora la precedenza nei contesti museali, le novità invece erano viste come forti rotture della tradizione e quindi non inseribili in quel determinato contesto. I musei, solo successivamente, si resero conto che stavano eludendo la loro funzione essenziale e cioè quella di conservare e tramandare alle future generazioni le opere degli artisti delle varie epoche. Capirono che era fondamentale esporre le opere più influenti di quegli anni e, con il passare del tempo, assumeranno anche il compito di sponsorizzare e presentare le ultime tendenze e le novità del mondo artistico . Con l'avvento della prima guerra mondiale tutta la sperimentazione delle avanguardie subisce una battuta di arresto. Gli artisti alla fine del conflitto cercarono di riprendere da dove avevano interrotto, ma una nuova guerra era alle porte e avrebbe ulteriormente complicato le cose. In Italia con l'avvento del Fascismo saranno incoraggiati soprattutto gli artisti tradizionali. In Germania, con l'ascesa politica di Hitler nel 1933, le cose cambiarono radicalmente. L'arte moderna era considerata arte degenerata e frutto di menti disturbate; furono indette così due mostre: una con la grande arte germanica e l'altra con tutte le opere delle avanguardie. Hitler chiarì il suo punto di vista in un discorso tenuto nel 1935, in cui affermava che la grande arte germanica doveva essere un’esaltazione dell’imponenza e della bellezza umana ariana tedesca. Tutta l’arte precedente era stata troppo contaminata dal mondo giudaico e doveva essere abbandonata, se non distrutta. Tutte le opere prodotte delle correnti d’avanguardia, come dadaisti, cubisti, futuristi e soprattutto espressionisti, venivano viste da Hitler come il risultato di menti malate e corrotte. Le opere venivano considerate come dei segni di degenerazione, incapaci di trasmettere bellezza o benessere e in quanto tali dovevano essere derise ed eliminate. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, e nei periodi antecedenti e seguenti la seconda guerra mondiale, le scene bibliche della passione e della crocifissione diventano per molti artisti simboli delle sofferenze patite dall'umanità; come il figlio di Dio ha sofferto sulla croce per i peccati degli uomini, così l'umanità del ‘900 soffre per gli eventi che si susseguono e che insanguinano il secolo. Le vicende bibliche e le figure della cristianità tornano al centro della narrazione, diventando simboli e archetipi di sofferenze e virtù, perdendo la loro valenza religiosa e dogmatica. Già agli inizi del ‘900 ci sono alcuni esempi di questa trattazione simbolica del tema della crocifissione di Cristo; ne saranno presentati solo alcuni senza alcuna presunzione di esaustività. Edvard Munch pittore norvegese inserito nella corrente Espressionista nel 1900 realizza l'opera intitolata: Golgota . In questo lavoro è presente un unico crocifisso con un giovane nudo e davanti a lui si trova un’immensa folla di persone rivolta però verso lo spettatore.

Tutta la scena è pervasa da un senso d'angoscia trasmesso attraverso i cromatismi cupi, di tonalità brune e blu, e dai volti deformati delle figure in primo piano; sono poche le figure affrante, solo due donne sulla destra, la maggior parte delle persone sorride o non si interessa al giovane crocifisso. Munch sembra essersi ritratto nel ragazzo crocifisso, sentendosi un uomo solo e abbandonato come il Cristo sulla croce. Molti altri artisti si ritrarranno nelle vesti di Cristo, ad esempio l'artista belga Ensor nell'opera Entrata di Cristo a Bruxelles o anche Paul Gaugiun rappresenta sé stesso nel Cristo giallo . Un altro artista inglese tratterà di temi sacri, ma a differenza di tanti suoi colleghi dichiarerà apertamente il suo orientamento religioso: Georger Rouault. Nel periodo della seconda guerra mondiale molti artisti si confrontano ancora con il tema della morte di Cristo. La Crocifissione “bianca” di Chagall, realizzata nel 1938, è la prima opera che utilizza dichiaratamente la vicenda biblica della crocifissione del Cristo come denuncia delle sofferenze patite dagli uomini durante la guerra. Chagall è uno dei pochi artisti che dichiara esplicitamente la sua confessione religiosa e vuole descrivere attraverso la sua opera la sofferenza che tocca i suoi fratelli, il popolo ebraico. A causa del suo credo si è allontanato dalla Russia per rifugiarsi in America con l’intento di sfuggire dalla persecuzione. Quest'opera è stata realizzata dopo i drammatici avvenimenti della Notte dei cristalli tra il 9 e il 10 novembre di quell'anno e il patimento di Cristo sulla croce diventa quindi simbolo delle sofferenze degli ebrei. Gesù indossa un talit, il perizoma ebraico, e un copricapo usato nei momenti di preghiera ebraici con la corona di spine. L'iscrizione sulla croce, “Gesù Nazareno re dei Giudei”, è in lingua ebraica e in lettere gotiche. La bianca luce divina illumina Cristo e sopra il crocifisso si trovano tre inconsolabili uomini anziani e una donna, tutti in abiti tradizionali. Intorno a Gesù si svolge il dramma; sulla destra un nazista appicca un fuoco in una sinagoga e una madre con il proprio bambino in braccio cerca di fuggire dall’orrore e come lei tanti altri profughi tentano la fuga via mare. Tanti simboli della religione ebraica sono in fiamme e si vedono dei rabbini che cercano di fuggire e un armata rossa che avanza. La luce bianca al centro della scena è una luce di speranza che squarcia le nubi nere provocate dai fuochi e avvolge tutto lo spazio intorno alla croce. Viene realizzata un'altra crocifissione con un intento di denuncia molto criticata dall'opinione pubblica, in particolare dalle istituzioni ecclesiastiche. Il clero arriva a minacciare di scomunica chiunque avesse visitato la mostra in cui l’opera era esposta. Renato Guttuso realizza una Crocifissione per un concorso indetto a Bergamo nel 1941, ottiene il secondo premio, ma l’opera desterà scandalo tra le file del clero a causa di certi aspetti presenti nella sua composizione, come per esempio la mancata posizione centrale del Cristo crocifisso o per la presenza di una Maddalena nuda . Certamente lo stile di Guttuso è molto incisivo, combina forti colori espressionisti a uno stile picassiano. È una crocifissione molto umana, in cui la sofferenza non ha accenti spirituali e anche le figure intorno alla croce sono delle persone assolutamente concrete e comuni. Maria Maddalena è diventata l'incarnazione della sofferenza umana, di un dolore che viene rappresentato senza censure. Disse Guttuso commentando l'opera: Voglio dipingere il supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno peri nostri peccati ma come simbolo di tutti coloro che subiscono l'oltraggio, il carcere, il supplizio, per le loro idee . La crocifissione è ritenuta troppo laica e politicamente orientata alla denuncia di violenze perpetrate dagli uomini ai danni di persone innocenti. Il tema della crocifissione può essere trattato come metafora dei dolori degli uomini e al contempo come religiosa trasposizione della sofferenza di Cristo. L'artista inglese Graham V. Sutherland unisce proprio questi due aspetti, essendosi convertito al cattolicesimo, nella Crocifissione del 1947 . L’opera è su commissione di un vicario inglese della chiesa dedicata a St. Matthews a Northampton: I miei quadri di spine sono nati in maniera assai curiosa. In autunno cominciai pensai alla forma da dare a quest'opera; nella primavera seguente avevo ancora in mente il soggetto senza aver fatto alcuno schizzo. Mi recai in campagna: per la prima volta cominciai a notare i cespugli spinosi e le strutture delle punte che laceravano l'aria. Feci alcuni disegni e durante la loro esecuzione si sviluppò un curioso cambiamento: nel disporsi sul foglio le spine si trasformarono, pur conservando le loro punte, in qualcosa di nuovo che delimitava uno spazio vitale, una specie di parafrasi di una Crocifissione e di una testa crocefissa . Realizza tantissimi bozzetti in una garage vicino casa, alcuni di essi oggi sono conservati ai musei Vaticani e testimoniano l'intenso lavoro di ideazione e di riflessione sul tema. La drammaticità dell'evento è tradotta attraverso un forte realismo ed intensi toni cromatici, si passa dal rosso che cola dalle mani chiodate, al bianco cadaverico del corpo, fino al nero e alle tinte violacee gli attributi della passione, spine e chiodi, sono resi con particolare attenzione. Il Cristo è esanime, con il volto reclinato e la pelle bianca su cui si trovano tocchi di colore nero che hanno l'intento di sottolineare la magrezza di quel corpo sofferente. Nello scritto dell'artista, Pensieri sulla pittura, viene raccontato quanto lo avessero segnato profondamente le foto che gli alleati fecero nei campi di concentramento durante la guerra e quanto i corpi torturati degli innocenti gli sembravano figure deposte dalla croce. Sutherland testimonia una grande profondità spirituale e religiosa tradotta e resa evidente nei suoi capolavori. Nel secondo dopoguerra si presentò l'esigenza di ricostruire ciò che era stato distrutto e in particolare occorreva restaurare le chiese danneggiate. L'opinione pubblica composta da molti cristiani e laici, come ha notato molto lucidamente la studiosa Lucia Mannini, prese coscienza di quanto le committenze artistiche si fossero affidate ad artisti di scarsa originalità: “ si acquistava la consapevolezza della mancanza di decoro e di dignità estetica delle opere d'arte e degli arredi liturgici che erano stati commissionati negli ultimi decenni, per lo più espressioni di un attardato accademismo di matrice ottocentesca corrispondente al gusto conservatore e agli intenti didascalici della committenza”.

Si resero conto che era necessario ristabilire un dialogo con gli artisti e decorare le nuove strutture con un'arte che parlasse del tempo che stavano vivendo. Molte opere erano certamente di difficile lettura, ma erano qualitativamente migliori rispetto alle opere caratterizzate da una forte mancanza di originalità. Era necessario ristabilire un dialogo interrotto da molto tempo, la Chiesa poteva e doveva rinsaldare i rapporti con gli artisti affinché potessero essere ancora veicoli preziosi di evangelizzazione: si riconobbe che l'arte, anche quella che per nostra educazione e sensibilità ci sembra perfetta, ha sempre dei limiti proprio di ogni epoca e che, quindi, occorreva accettare l'arte nel nostro tempo, espressione di una cultura che la Chiesa non avrebbe potuto evangelizzare e salvare se non incarnandosi in essa . Il professore universitario di estetica Juan Plazaola ha sottolineato, nel suo testo La Chiesa e l'arte, un aspetto molto importante e cioè che ogni opera d'arte, ogni espressione artistica, è inserita in un determinato contesto storico e sociale. Ogni epoca è legata ad una particolare corrente artistica e se la Chiesa vuole continuare ad evangelizzare attraverso le immagini, per comunicare le verità di fede ai credenti, deve utilizzare i mezzi della modernità. Il cambiamento che piano piano si stava auspicando trovò concretizzazione con la Biennale di Venezia del 1958 a cui parteciparono ministri ecclesiastici e da quel momento in poi si rianimò un certo interesse per l'arte d'avanguardia. I rapporti però tra mondo ecclesiale e mondo artistico non sembravano essere totalmente risolti e lo dimostra il discorso pronunciato da Papa Pio XI. Nel 1963 venne inaugurata la nuova sede della Pinacoteca Vaticana, destinata ad ospitare le opere dal XIV al XVIII e il Papa disse: certe sedicenti opere d'arte sacra non sembrano invocare e rendere presente il sacro ma lo sfigurano fino alla caricatura e molte volte fino a una vera e propria profanazione. Si cerca di diffondere tali opere in nome della ricerca del nuovo e della razionalità delle opere. Ma il nuovo non rappresenta un vero progresso se non è almeno bello e buono come l'antico . Terminerà il discorso sottolineando con estremo vigore la volontà di non permettere che nelle chiese una simile arte possa eccedere, né che si costruiscano o che si ornino con tali elementi. È una forte apologia della tradizione ed è evidente come sia determinante il concetto di “bello” nell'orientamento del giudizio di gusto, restando fedele agli assunti dell’estetica classica. L’estetica è quella disciplina filosofica che si è occupata di valutare le opere d’arte attraverso delle categorizzazioni estetiche, stabilite fin dall’antichità, con Aristotele e poi con Platone. Nel corso del tempo si sono susseguite numerose riflessioni estetiche fino ad arrivare ai filosofi dell’800 come Kant e Schopenhauer, i quali hanno ulteriormente arricchito la disciplina di importanti teorie. Le categorie di “bello” o “brutto” sono state per molto tempo parametri di giudizio per le opere realizzate dai vari artisti. Quelle definite “belle” erano ritenute automaticamente in grado di rappresentare la realtà e le emozioni dei personaggi attraverso una grande capacità illusionistica, ma soprattutto dotandole di una bellezza ideale quasi trascendente. Solo con il passare del tempo le figure diventavano sempre più naturalistiche abbandonando l’aura di bellezza pura. Le opere che invece erano definite “brutte” non riuscivano a tradurre gli elementi del reale attraverso una rappresentazione idealizzata e perfetta e di conseguenza non erano ritenute vere opere d’arte. Nel campo artistico i criteri che determinavano la “bellezza” di un’opera d’arte sono mutati nel corso del tempo, fino ad arrivare alla loro definitiva inutilità negli anni ’60 del ‘900, quando le vecchie categorie persero di validità a causa di lavori che esulavano dalle categorizzazioni tradizionali; di questo si parlerà approfonditamente nell’ultimo capitolo. Per la Chiesa cattolica le opere “belle” erano quelle prodotte dall’inventio di un talento artistico in armonia con le direttive del committente e con i dettami teologici. Le immagini che riguardavano il Divino dovevano essere in grado di rappresentare una bellezza ideale, lontanissima dai canoni naturali umani e che poteva essere solo immaginata. Quello che era ritenuto “bello” era accettato, mentre le opere “brutte” venivano rifiutate. La bellezza, e in particolare la bellezza divina che l’arte avrebbe da sempre tradotto, non viene più espressa nelle opere moderne secondo le parole di Papa Pio XI e secondo la Chiesa in generale. L'arte moderna, secondo il pontefice non può che essere quindi definita come “brutta” e “caricaturale”. Secondo questa linea di pensiero le nuove tendenze non possono nemmeno essere definite arte. Certe categorie e certi assunti non sono stati più validi con la nascita dei nuovi linguaggi nell’arte contemporanea, dalle avanguardie in poi sono state infatti considerate degne di nota opere non esteticamente belle, ma che erano comunque in linea con una certa poetica. Le cose cambiarono radicalmente con Papa Paolo VI, un uomo che incentivò la cultura nel suo pontificato e che riuscì a rinsaldare un rapporto incrinato da tempo. Nel 1964 Papa Paolo VI invita tutti gli esponenti del mondo artistico nella cappella Sistina per un incontro chiamato Messa degli artisti, a conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. È veramente un momento cruciale per la ripresa del dialogo tra le due parti: Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte . La chiesa si rende conto che il legame deve essere ristabilito, un rapporto che non si è mai rotto del tutto: bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Non è che l’amicizia sia stata mai rotta, in verità; e lo prova questa stessa manifestazione, che è già una prova di tale amicizia in atto. E poi ci sono tante altre manifestazioni che si possono addurre a prova di una continuità . Voi Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre . Certe scelte prese dagli artisti avevano allontanato la Chiesa, essa infatti non comprendeva le novità e vedeva gli esiti raggiunti molto lontani dai fini e dagli intenti che voleva perseguire. Anche la Chiesa però, come ammette il Papa, ha le sue colpe: anche Noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo l'imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi - vi si diceva - abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Siamo ricorsi ai surrogati, all’ «oleografia», all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate . Noi dobbiamo ritornare alleati noi e la Chiesa, firmato un grande atto della nuova alleanza con l’artista. La Costituzione della Sacra Liturgia, che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo ha emesso e promulgato per prima, ha una pagina che spero voi conosciate che è appunto il patto di riconciliazione e di rinascita dell’arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica. Ripeto, il Nostro patto è firmato. Aspetta da voi la controfirma . Gli artisti sono invitati a ristabilire un dialogo diretto con la Chiesa Cattolica, alla luce anche delle nuove direttive in materia di arte sacra decise durante il Concilio Vaticano Secondo. Durante il Concilio vennero trattati vari temi e tra questi si intavolò proprio una discussione sull'arte sacra ritenendolo un punto molto importante da trattare. Le conclusioni a cui sono giunti i vescovi durante le discussioni sono riportate in numerosi scritti e il Papa durante il discorso nella Cappella Sistina con gli artisti ha ritenuto opportuno ripeterne alcune. La Chiesa ha voluto riaffermare il suo ruolo di committente, cercando di coinvolgere i nuovi artisti e le nuove tendenze nei loro progetti. Come è stato ripetuto nell'incontro con gli artisti, ogni periodo storico ha un determinato stile artistico e la Chiesa si è sempre posta in dialogo con le tecniche artistiche del tempo, senza sceglierne una in particolare. L'arte sacra è sempre stata al servizio della Chiesa e con il Concilio si è cercato di sottolineare nuovamente quanto sia importante che gli artisti continuino a tradurre in termini figurativi i messaggi cristiani e la gloria di Dio.

L'arte religiosa avrebbe quindi un ruolo fondamentale, quello di trasmettere e comunicare ai fedeli i misteri della fede; l'arte diventa essa stessa evangelizzazione. Molte volte il clero si è sentito lontano dalle nuove tendenze, proprio perché non erano ritenute in grado di svolgere la missione evangelica. I simboli e i segni tradizionali non erano più riconoscibili e quindi, secondo il loro giudizio, l'arte non era più idonea per i luoghi di culto e non riusciva più a tradurre la “bellezza divina”. Se l'artista utilizzasse uno stile moderno nel rispetto nel culto, il dialogo sarebbe ristabilito e rinsaldato.
Nel testo del Concilio vengono date anche nuove direttive sui percorsi di formazione dei chierici, i futuri ministri della chiesa. Oltre allo studio della teologia e della filosofia è importante che si informino sulla storia dell'arte sacra, per acquisire un'elevata competenza critica e poter valutare con maggiore consapevolezza le opere che dovranno tutelare e commissionare. Si ritiene che un grande errore commesso dalla Chiesa sia stato proprio quello di allontanarsi dal mondo dell'arte tanto da non essere più in grado di saper selezionare correttamente le opere che potevano accedere agli edifici sacri. Il clero sembra pronto ad accettare le innovazioni, a patto che siano in linea con i messaggi cristiani, le novità possono e devono essere messe nuovamente al servizio della Chiesa, come è avvenuto per secoli con benefici da entrambe le parti. Il Concilio è sicuramente un punto fondamentale di discussione e presa di coscienza della situazione, ma certamente il cambiamento non può avvenire in tempi brevi; ancora durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II il dibattito resta aperto. In un suo discorso all’interno della Lettera agli artisti, prende atto di un momento di grande difficoltà della Chiesa cattolica e vede concretizzato questo clima nel mondo dell'arte: Ogni forma autentica d'arte è, a suo modo, una via d'accesso alla realtà più profonda dell'uomo e del mondo. Nell'età moderna si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall'assenza di Dio e spesso dall'opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco dal mondo dell'arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi, Voi sapete tuttavia che al Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell'arte come tale. Questa infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un'intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco dalla cultura della Chiesa, proprio l'arte continua a costruire una sorta di ponte gettato verso l'esperienza religiosa. Lucio Fontana è un artista italo-argentino del secondo dopoguerra molto amato e seguito, le cui opere sono nelle collezioni e nei musei più importanti del mondo. È un artista di “avanguardia”, grazie alla sua poetica e alla sua creatività ha aperto nuove strade alle future generazioni e agli artisti del proprio tempo. Ha saputo introdurre nuovi linguaggi che hanno riempito innumerevoli pagine di scritti critici, alla luce della sua originalità e innovatività. Lucio Fontana nasce il 19 Febbraio del 1899 in Argentina a Rosario, da genitori italiani di Varese. Il padre, scultore di professione, decide di trasferirsi in Argentina per motivi di lavoro e la madre, Lucia Bottino, è attrice argentina di teatro. Il nonno di Fontana, di parte paterna, è un pittore: “e dà il via alle fortune artistiche della famiglia fondando un’impresa di decorazioni architettoniche”. Anche il padre di Fontana si inserisce nel mondo artistico, dopo aver conseguito il diploma presso l’Accademia di Brera decide di partire per il Sud America, come tanti altri suoi colleghi, per aprire una ditta di scultura.

Raggiunta l’età scolare Fontana viene mandato a studiare in Italia e dopo qualche tempo viene raggiunto dai genitori. Il padre apre a Milano uno studio di scultura in cui Fontana muove i primi passi del suo apprendistato artistico. Parallelamente a questo si iscrive a una scuola per periti edili e successivamente all’Accademia di Brera, seguendo le orme del padre. Lo scoppio della prima guerra mondiale interrompe i suoi studi e nel 1921 congedato dalla guerra, per cui è partito come volontario, torna con la famiglia a Rosario. Riprende il suo tirocinio artistico presso la bottega famigliare "Fontana y Scarabelli", la cui produzione è focalizzata soprattutto sulla scultura cimiteriale. Dimostra notevoli doti artistiche che gli consentono di ricevere le prime commissioni e inizia ad aderire a diversi concorsi pubblici e ad alcune esposizioni: “Le scultoree di questi anni, nella loro variabilità sperimentale, ci mettono di fronte a un artista ancora alla ricerca di una cifra personale, che elabora le proprie forme ragionando sia su suggestioni fluidamente dinamiche sia, soprattutto sui modelli di più accentuata sodezza plastica e monumentale ” . Nel 1927 torna in Italia, nuovamente a Milano, e si riscrive all'Accademia di Belle Arti di Brera seguendo con molto interesse i corsi di scultura di un rinomato artista, Adolfo Wildt.
Fontana è sempre stato insofferente al clima culturale Argentino e ambiva di trasferirsi in un contesto che gli permettesse di mettersi in contatto con le sperimentazioni europee. È deluso dalle ricerche di alcuni suoi colleghi scultori, l’unico che davvero ha catturato il suo interesse è il professore, e scultore, Adolfo Wildt. È un artista anticonformista, che nel corso della sua carriera lavorò con il gesso, con il bronzo, ma soprattutto con il marmo. Ha uno stile figurativo molto espressivo e vuole infondere vitalità alla materia plastica, le sue opere sono caratterizzate da una forte drammaticità e tensioni spirituali. I sentimenti vengono espressi attraverso eccessi espressionistici che sfociano in deformazioni. Alla luce degli insegnamenti del suo professore in questa prima fase, Fontana si concentra soprattutto sulla terracotta con colori “a freddo” o pura: Quando sono entrato in accademia non ero più giovanissimo avevo ventisette anni. Ma poiché sentivo con serietà il desiderio di trovare una strada radicalmente nuova, volevo dare alle mie ricerche una base classica. Avevo per guida un grande maestro, Wildt. Bene io credo di essermi impossessato della sua arte. Tanto è vero che ero considerato l’allievo migliore del corso. E Wildt, anzi, mi aveva espresso più volte la speranza che io diventassi il suo continuatore in arte . Dopo il diploma decide di rimanere a Milano nonostante le numerose insistenze del padre che lo rivorrebbe in Argentina per lavorare nella ditta di famiglia. Fontana non vuole tornare a Rosario, nonostante le difficoltà che deve superare a Milano: “io lotto si può dire con la fame ma questo non ti deve preoccupare io sono contento sono convinto che un giorno trionferò e più grande sarà la mia soddisfazione il mio metodo è più duro ma più giusto è lotta come nella trincea si vive di fame e di fango ma gloriosi”. Le difficoltà non lo scoraggiano, anzi prosegue nella sua ricerca essendo convinto delle sue scelte artistiche e porta a termine alcune committenze, anche se non numerose. Nel 1930 inizia anche a partecipare a numerose mostre ed esposizioni in Italia, partecipa infatti alla Biennale di Venezia e viene organizzata la sua prima esposizione personale alla galleria del Milione a Milano, entrando così sulla scena artistica. Da questo momento in poi abbandona la via della figurazione tradizionale per orientarsi sempre di più in direzione dell’astrazione. Nella sua personale espone Uomo nero che è un’evidente inversione di rotta orientata verso un sintetismo attraverso l’utilizzo di forme primitive e geometrizzate: “Nel corso del decennio 1930, egli allargherà in altre direzioni la sperimentazione figurativa e tecnica, inaugurando una fase creativa molto aperta e problematica, sospesa tra primitivismo, astrazione e espressionismo” . Abbandona l’insegnamento del maestro Wildt per aprirsi ad una strada totalmente nuova: Se Wildt rappresenta il punto limite della possibilità formativa della materia, nel marmo che diventa sottile come una pelle e flessuoso come un nastro nel suo estremo ripiegamento su di sé, quasi un’ulteriore drammatica estenuazione della forma che rivela al suo interno un vuoto incolmabile, l’Uomo nero (1930) , rappresenta la rinuncia radicale al titanico virtuosismo del maestro per riappropriarsi della sostanza originale, di una prima immagine dell’uomo che emerge da un corpo a corpo con la materia . Tra il 1930 e il 1931 compie numerosi busti femminili e torsi maschili in terracotta. Nel 1930-31 realizza per esempio il Torso italico , una scultura monumentale in grès policromo matericamente mossa e tendente ad un forte primitivismo. In contemporanea a queste produzioni stilizzate esegue sagome geometrizzate in vari bozzetti e tavolette. In quegli anni la tendenza astrattaconcreta è condivisa da tantissimi artisti e in modo particolare dai colleghi che espongono alla galleria del Milione. Negli anni del secondo dopo guerra, e in particolare nei primi anni cinquanta, nel panorama artistico italiano c’è un grande dibattito tra quegli artisti che scelgono una via realista e quelli che optano per una via astratta. La via astratta non si traduce in forme rappresentative uguali Fontana infatti, pur aderendo a questa matrice, mantiene una linea di sperimentazione autonoma. Sfortunatamente molte opere di questi anni sono oggi disperse, ma le poche rimaste testimoniano la scelta sintetizzante e la volontà di semplificare la rappresentazione umana. Fontana si orienta sempre con maggior consapevolezza verso forme astratte e in una lettera del 1949 apre un dibattito epistolario, con un suo allievo, sull’utilità dell’arte per l’umanità e in questo frangente sottolinea l’importanza della sua scelta di un linguaggio astratto: se un artista si lascerà trasportare dalla bellezza di un arte solamente astratta e ideale si arriverebbe a fare molto bene all’umanità. La gente vuole emozionarsi in arte come in una corrida o in una corsa, noi altri dobbiamo coinvolgerla con nuove esperienze, con nuove emozioni . Nel ’49 è ormai in una fase di grande maturazione artistica, ma prima di giungere in modo compiuto a questa fase è opportuno trattare della sua attività artistica a metà degli anni trenta. Fontana si orienta verso un’intensa sperimentazione che lo porta a confrontarsi con un’arte artigiana, attraverso la riscoperta di materiali come: la terracotta e la ceramica. A partire dal 1935 si dedica totalmente alla realizzazione di opere in ceramica e in alcuni casi in terracotta. Collabora, su invito, con la manifattura di Giuseppe Mazzotti ad Albissola Marina . Lavora a stretto contatto con Tullio Mazzotti, un ceramista che si è avvicinato nel corso della sua attività artistica al movimento Futurista e ha redatto un volumetto nel 1939 intitolato: La ceramica futurista. In una lettera inviata il 5 Febbraio del 1930 all’albo degli artisti Milanesi, Mazzotti descrive la sua poetica artistica: Nato da una famiglia di ceramisti proseguo nella mia arte con grande fervore ed immensa passione, sicuro di marcare un indirizzo assolutamente nuovo nell'arte ceramica italiana. Niente che possa, anche lontanamente, ricordare le ceramiche vecchie, antiche o preistoriche. Voglio fare delle ceramiche che rovescino la tradizione. Forme policentriche, anti imitative, meccaniche. Strati colorati, futuristi, violenti, abbaglianti, luminosi. Tecnica perfetta, ottenuta con materie locali, italiane, anche se povere, curandone accuratamente l'esecuzione . Fontana è sedotto da questo nuovo mezzo, la ceramica, e si allontana dalle sperimentazioni futuriste del collega cercando di tradurre con questo nuovo materiale le sue fantasie astratte. La ceramica è una materia molto fluida e consente grandi possibilità espressive per uno scultore dotato di grande manualità. Con questa ricca sostanza plastica si avrà un Fontana: “ radicale, istintivo, sorgivo”, un artista: “ con animate convinzioni ma anche con ‘la libertà di non fare sul serio’, ovvero con una capacità da giocoliere di toccare gli estremi e di esserne toccato, di giocare con influenze alte, raffinate, colte, guardate con passione, studiate, riprese e sviluppate in assoluta autonomia ” . Realizza principalmente ceramiche policrome, ispirandosi al mondo animale e alle nature morte: in piccole porzioni di raccolto, scendeva la mano tiepida sopra il bozzolo della terra, e per fremiti trattenuti casti, quasi, diresti: tant’è sommessa la parola che, appena sfiorandoli, li emoziona scriveva per lenti gorghi per crampi brevi e interrotti, la vicenda aurorale, nascosta ancora in un suo grembo segreto, d’una materia chiamata a dirsi per autonoma germinazione . La superficie delle figure è molto levigata e lucida, si creano bellissimi effetti di luce e ombra attraverso i solchi nella materia. Fontana compie un’intensa ricerca nella lavorazione delle forme plastiche, attraverso una resa espressiva esuberante. La materia è irruente e capricciosa e la superfice è lucida e decorata con colori anche molto sgargianti, si passa da tinte rosse, nere, oro fino a quelle violacee. La colorazione è importantissima, come spiega lo stesso Fontana: “La mia forma plastica dai primi agli ultimi modelli non è mai dissociata dal colore. Le mie sculture sono sempre policrome. Colorivo i gessi, colorivo le terrecotte. Colore e forma indissolubili, nati da un’unica necessità”. La colorazione non è un elemento meramente estetico, ma è in diretta relazione con segno, spazio e materia. Nel periodo ad Albisola, e precisamente nel 1936, realizza delle nature morte in ceramica policroma e successivamente si dedica ad una serie di lavori inerenti agli elementi marini come: alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste. Come illustra lo stesso Fontana: Soltanto nel 1936 iniziai alla fabbrica Mazzotti di Albisola una vera e propria attività in questo campo con una cinquantina di pezzi , tutto un acquario pietrificato e lucente. La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore.
Tra le opere più emblematiche della serie marina c’è il Coccodrillo , realizzato nel 1936. È un’opera molto grande che invade lo spazio, caratterizzata da una ricca colorazione, la superficie è molto lucida e percossa da tanti fremiti materici. La figura è ben riconoscibile, ma lo saranno molto meno le opere degli anni successivi. Realizza anche nel 1937 una Seppia e nel 1938 Stella marina e due conchiglie . Sono tutte ceramiche policrome che richiedono allo spettatore uno sforzo d’immaginazione, supportati anche dagli aiuti dati dall’artista grazie ai titoli delle opere: “Lampi di movimento e materia colorata. Sono gli elementi essenziali, riflessi di un primordio sentito e vissuto e suscitatori di utopia, di sensibilità ‘moderna’, che danno alle opere di Fontana la loro speciale bellezza”. Questi lavori sanciscono l’unione tra pittura e scultura e dialogano anche con lo spazio. Richiedono una precisa collocazione spaziale rifiutandosi di essere dei meri soprammobili. Questa convinzione la condivide anche un critico e grande amico di Fontana, Guido Ballo, che diventerà il portavoce del suo lavoro. Queste mie riflessioni arriveranno a esiti davvero originali e di questi esiti si parlerà in seguito, per ora è importante sottolineare quanto la ricerca spaziale si accordi con l’astrazione e quanto sia in linea con le sperimentazioni neobarocche, avendo coniugato pittura e scultura. Il critico d’arte Enrico Crispolti, che ha conosciuto in vita Fontana e si è interessato per tutta la sua attività critica alla sua produzione, vede in questo linguaggio fontaniano una presa di distanza dalla drammaticità e dalla mera deformità: “tale immagine riporta ad una condizione di divenire fenomenologico, spingendola al rapporto materia - spazio, campi dell’attivismo umano, e il cui rapporto si consuma attraverso il segno e il colore impressi sulla materia, così da suggerire un’unica continuità appunto di campo vitale e di apertura spaziale”. Tutta la produzione scultorea sembra quindi evidenziare un divenire, un movimento vitale della materia, inserita in un preciso contesto spaziale. La scultura non può essere pensata e realizzata senza i legami tra movimento, luce, spazio. Fontana decide poi di trasferirsi per un breve tempo in Francia dove lavora nelle fornaci della cittadina di Sèvres. Nelle fabbriche parigine realizza altre opere di ispirazione zoomorfa creando per esempio galli e chimere, ed aderisce anche al gruppo francese astrattista: “ quando da Albisola passai alle fabbriche di Sèvres e modellai nuove conchiglie e scogli e polipi e figure e stranissimi animali marini mai esistiti, le mie ricerche plastiche continuarono senza lusinghe”. In questa fase della sua attività artistica raggiunge un moderato successo e non vuole definirsi ceramista, ma desidera essere considerato come uno scultore e uno sperimentatore. Fontana espone le sue ceramiche nel 1938 alla galleria del Milione, sia quelle fatte ad Albisola che quelle realizzate in Francia. Ottiene molto successo dalla critica che si rende conto dell’originalità della sua ricerca, viene definito infatti “divoratore di terra graffiata, foggiata e compiuta d’espressione”. Se da una parte la critica lo elogia, una larga parte del pubblico accorso alla galleria osserva le opere senza comprenderle davvero nella loro peculiarità. Motivato dalle buone recensioni della critica la lavorazione della ceramica non si interrompe, ma evolve attraverso nuove sperimentazioni durante il suo trasferimento in Argentina. Nel 1940 Fontana ritorna in Argentina per volere del padre, assecondando le sue continue esortazioni, per lavorare nell’attività di famiglia. Nel sud America è molto attivo, viene infatti incaricato di diventare professore in due istituti contemporaneamente, in uno come ‘modellatore’ e nell’altro come decoratore. Realizza nel 1941 altre sculture in ceramica, come le due teste di Medusa una delle quali è acquistata da un suo collega in Accademia e l’altra da un critico, suo estimatore. I mesi passano e non tutte le committenze per cui collabora sono portate a termine. Il lavoro come professore gli dà una certa stabilità economica, ma spera in cuor suo di tornare a Milano, purtroppo lo scoppio della guerra cambia i suoi piani: “ però io attendo con ansia che ritorni il sereno per ritrovarmi a Milano, nella nostra Italia, dove dopo tante esperienze per il mondo è per me ancora l’unico paese dove l’artista, con le sue lotte e contrarietà ha l’unica ragione di vivere” . A causa della guerra non riuscirà a far ritorno in Italia fino al 1947.
Al suo rientro in Italia ne redigerà altri due, uno nel 1947 con la collaborazione di giovani artisti e intellettuali, che viene intitolato Manifesto dello spazialismo. Il secondo è redatto nel 1948 e le convinzioni che sono alle base di tutte queste stesure teoriche sono le medesime. C’è la volontà di superare l’arte del passato, utilizzando nuovi linguaggi e le nuove possibilità tecniche. È una vera e propria rivoluzione dei concetti, oltre che dei materiali. La nuova arte auspica a un rinnovamento totale grazie alle nuove possibilità tecniche offerte dallo sviluppo tecnologico e scientifico. L’arte è secondo Fontana: “ una manifestazione dell’intelligenza dell’uomo, per esprimerla l’uomo ha usato i mezzi e le tecniche del suo tempo, idee e espressioni della sua epoca ”. Ambisce ad un’arte totalmente nuova, essendosi sviluppata una civiltà nuova, quella post bellica. Le nuove possibilità permettono un cambiamento, non solo tecnico, ma anche concettuale: “ un’arte rivoluzionaria né pietra, ma movimento e luce e spazio, il problema dell’arte contemporanea non è più nel cambiamento dello stile ma è rivoluzione dei concetti e dei materiali”. Fontana e gli altri artisti hanno compiuto un’attenta riflessione su come produrre arte nell’epoca contemporanea, dopo le due guerre mondiali e dopo tutti i cambiamenti sociali, e politici, l’arte non può essere in linea con le precedenti sperimentazioni. È necessaria una nuova arte che incarni e traduca le nuove esigenze. La spazialità è una conquista fondamentale e una ricerca che Fontana ha sempre cercato di tradurre nelle ceramiche: “Considerare realtà quegli spazi, quella visione di materia universale, di cui scienza, filosofia, arte in sede di conoscenza e di intuizione hanno nutrito lo spirito umano”. Il movimento e il colore sono componenti dell’opera fontaniana che si legano alla terza componente, quella dello spazio: “ Colore, l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo, e il movimento che si svolge nel tempo e nello spazio, sono le forme dell’arte nuova che contiene le quattro dimensioni dell’esistenza. Tempo e spazio”. La nuova arte deve invadere e conquistare gli spazi coinvolgendo lo spettatore. Il movimento è infatti un elemento molto importante per Fontana e, come detto precedentemente, si lega ad altre due componenti, al tempo e allo spazio. Nelle numerose rielaborazioni del manifesto, e in particolare nell’elaborazione del manifesto pubblicato nel 1951 , Fontana insiste molto sulla componente del movimento nella sua arte. Fontana è molto cosciente dell’importanza di questo fattore nelle sue materie plastiche, come gli enti materiali del mondo sono soggetti alle forze fisiche, così anche le sue sculture si muovono nello spazio. Il Manifesto spaziale e le sue successive integrazioni testimoniano una riflessione artistica che parte da elementi già evidenziati da precedenti correnti. Come afferma anche Crispolti citando delle parole di Fontana, la sua poetica unisce aspetti dell’arte del passato come quella Barocca e alcuni aspetti dell’avanguardia Futurista. Viene inserito all’interno della componente creazionista dell’artista, il subconscio. Luogo dal quale emergono, nella concezione psicoanalitica, le pulsioni che determinano gran parte dell’individuo. Secondo Fontana è grazie a questo livello non cosciente che l’artista crea e, come in questo caso, trasforma la materia e crea un’arte nuova. L’attività di ceramista viene portata avanti da Fontana parallelamente ad altre sperimentazioni e arriva a produrre opere sempre più astratte. Le nuove produzioni in ceramica vengono alla luce tra il ’47 e il ‘49. Realizza opere più complesse, vengono infatti modellate stravaganti figure al limite tra figurazione e astrazione e lo spettatore è chiamato a riconoscere la figura completando nella propria mente la forma: “L’Artista Spaziale non impone più allo spettatore un tema figurativo, ma lo pone in condizione di crearlo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni che riceve”. Come afferma anche in riedizioni successive del manifesto: Noi spaziali scavalchiamo la comoda conoscenza per ridare all’arte il privilegio della intuizione, usando come materia plastica da fermare - gli spazi -, affidandoci a quell’intuito che è il solo a far camminare l’opera d’arte sul piano del mistero su quel misterioso filo magico che è conoscenza immersa nel mistero delle cose ancora non rese formula ma intuite sicuramente vere. Noi spaziali riconduciamo l’arte alla gioia di indagine che possono avere solo le speci giovani, le classi giovani, oggi il proletariato. Noi spaziali, vecchi decrepiti come abitanti del mondo, vogliamo sentirci cittadini del cosmo, giovani, gioiosi come gioiosa sarà la civiltà nuova redenta dal bruto bisogno del pane e del letto, in ognuno dei suoi componenti, nella nuova realtà . Molti critici parlano di questa fase della sua arte come “barocchetta”, le figure sono più increspate, agili ed animate. Viene resa più evidente la sua abilità manuale, in cui la figurazione definita si perde in favore di una magmatica vitalità orientata all’astrattismo. Per barocco non si intende meramente lo ‘stile’ storico, ma nel caso di Fontana è una sensibilità, una visone del mondo e della vita che travalica i periodi . In questa particolare fase della sua produzione sceglie di confrontarsi con temi religiosi e in particolare si concentra sulla narrazione del tema della Via crucis cristiana. Nella Via Crucis, attraverso le quattordici stazioni, vengono raccontate le sofferenze del Cristo che si accinge al monte Golgota per essere crocifisso. La prima delle tre Vie Crucis che realizzerà è fatta alla fine del 1947, ad Albissola Marina, quando torna alle fabbriche liguresi dopo la paretesi Argentina. In quell’estate era presente alla fabbrica Mazzotti un certo Giampiero Giani e racconta di quel momento focale: Nell’estate successiva, ad Albisola, fra la modellazione di un “piatto” e di un” arlecchino”, uscì improvvisa, al sole ad asciugare, la sua Via Crucis. Se non sbaglio gli suggerì quest’idea Marco Valsacchi; ed io la ricordo bene quella splendida armonia di furori dove il maggior impegno sembrava essere quello e di scomporre con acutezza e spezzature la ragione plastica di ogni personaggio E quando uscì coloratissima e “riflessata” dai forni, quella Via Crucis ci apparve carica di una violenza anti-classica, vivificata da una squillante tinta locale giallo-ocra dove si incassavano, come schegge di luce, sottili strati di rossi, di verdi, di cremisi, di azzurri e di bianchi . Riprende con grande intensità la sua attività di ceramista e ne realizza a distanza di tempo altre due: una nel 1955 e la seconda del 1957. Queste opere narrative saranno trattate in modo più approfondito nei capitoli successivi, per ora è importante sottolineare la forza astrattiva e vitale, in linea con le teorizzazioni dei manifesti spazialisti. Sono la concretizzazione scultorea di una forma “barocca”, movimentata: E sinfonia fu: intensa, ritmata, avvolgente; dalle sculture alle ceramiche, dalla superficie alla materia, essa si proporrà in maniera così travolgente e innovativa da oscurare perfino la sua origine. Annettere alla sensibilità barocca i liquori surrealisti e i dinamismi futuristi significava introdurre i principi spaziali dello spaesamento, e quelli dinamici dal movimento, in un conturbante flusso metaforico. In cui spazio e tempo coincidessero nella spirale di una dimensione ‘altra’ e tuttavia presente e tangibile . La materia si fa tangibile e cerca di fuoriuscire dalla seconda dimensione, giungendo in uno spazio “altro” e indefinibile. Nella sontuosità dell’elemento prodotto e nella sua forte matericità si arriva alla non fisicità, a uno spazio percepibile solo attraverso la luce e la concettualitá. La materia viene: “Manipolata, raggelata, riscaldata dai tepori della mano e delle pennellesse, o infuocata nei forni della cottura, la materia si rapprende o svapora, annichilisce o trasmigra nella cangianza della materia stessa”. In questo “barocco” scultoreo la materia, la luce e l’ombra sono legate al fine di superare i limiti fisici e indagare il mondo non visibile. È tutto un dialogo di presenze e di assenze. Parallelamente a queste opere scultoree del 1947, già nel 1949 espone in una nuova mostra le sue nuove opere intitolate Concetti spaziali. Questi lavori sono preceduti da una riflessione, dall’elaborazione di un’idea, che viene poi tradotta in opere che invadono lo spazio attraverso tubi fluorescenti. In linea con le teorie del manifesto e quindi con la convinzione che si debbano utilizzare elementi e materiali nuovi per produrre arte nuova, Fontana comincia a utilizzare il neon. Nel 1949 realizza un “ambiente spaziale con forme spaziali a illuminazione a luce nera”, presso la galleria del Naviglio. È un opera che invade lo spazio con la luce, le strutture al neon sono appese al soffitto e sembrano secondo il critico Guido Balla: “ rami di alberi in fondi marini. Era come entrare in una grande ceramica dello stesso Fontana”. In una lettera del 1961 indirizzata a Crispolti, Fontana racconta del proprio intento artistico attraverso la realizzazione del neon nero: È stato il primo tentativo di liberarsi di una forma plastica statica, l’ambiente era completamente nero, con la luce nera di Wood, entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva col suo stato d’animo del momento, precisamente, non influenzavi l’uomo con oggetti, o forme impostegli come merce in vendita, l’uomo era con se stesso, colla sua coscienza, colla sua ignoranza, colla la sua materia. L’importante era non fare la solita mostra di quadri o sculture ed entrare nella polemica spaziale . Si orienta verso installazioni di luce che vogliono invadere lo spazio e permettono un dialogo tra scultura e architettura. Nel 1951 realizza una struttura in neon Wood per la IX Triennale a Milano, che oggi si trova al museo del Novecento. È un’installazione spaziale composta da vorticosi giri di questo neon lungo 100 metri e crea una struttura astratta e lucente, che invadeva e occupava lo spazio sovrastante lo scalone della Triennale. Questa installazione ambientale fa parte di una: “serie di manifestazioni che si sono impegnate ad aggredire la nuova visione del creato nel micros immerso negli spazi visti come ‘materia plastica’” . Tutte queste sperimentazioni anticipano di svariati anni le installazioni di un componente della corrente Minimal americana degli anni 60, Dan Flavin . L’ artista della corrente artistica utilizza per le sue installazioni lampade luminose di diversi colori al neon, che dispone alle pareti in modi sempre diversi. Crispolti osservando questa installazione ha affermato: “Se nell’ ambiente spaziale del 1949 Fontana usa la luce nera come rivelazione misteriosa di spazio, nel 1951 usa invece la luce direttamente come segno dello spazio”. Lo stesso Fontana ammette l’importanza di questa installazione astratta è infatti: “l’inizio di un’espressione nuova: abbiamo semplicemente sostituito (al soffitto decorato) un nuovo elemento entrato nell’estetica dell’uomo di strada, il neon, abbiamo creato con questo mezzo una fantastica decorazione nuova, che certamente dà fastidio ai geni d’oltre confine ed ai loro satelliti italiani” . Fontana sviluppa anche delle sperimentazioni con il supporto della tela e inaugura la serie dei “buchi” consistenti nella disposizione di buchi su tele dipinte, con ritmi circolari. Nonostante si parli di tele colorate tutta questa ricerca si pone in linea con le sperimentazioni extra pittoriche spaziali. Dai buchi passerà a dei veri e propri “tagli”, grandi o piccole lacerazioni. Tutta questa ricerca sarà approfondita in seguito, per ora è opportuno sottolineare quanto queste opere siano in linea il movimento spaziale, in quanto Fontana con queste lacerazioni ha voluto superare la seconda dimensione per giungere alla terza dimensione, quella dello spazio, che era sempre stata preclusa alla pittura. La sua attività di ceramista non si conclude, anzi viene messa al servizio di collaborazioni con degli architetti milanesi. Nel 1947 realizza infatti dei grandi fregi spaziali in grès su degli edifici milanesi in collaborazione con gli archetti, Marco Zanuso e Roberto Menghi, con cui lavorerà anche in futuro. Ha ampliato il suo campo applicativo riversandosi in contesti architettonici. Gli edifici sono tra via Senato e via Sant’Andrea a Milano ed erano stati molto lesionati dai bombardamenti. Fontana collabora con questi architetti realizzando dei fregi per il fronte di questi palazzi, dei pannelli da disporre sotto le finestre e anche delle maniglie per i portoni, molti elaborati. I pannelli realizzati sono lastre molto semplici, di un marrone denso e scuro, disposte in orizzontale. Non sono delle mere decorazioni staccate dal contesto, ma anzi sono in linea con l’impianto architettonico. Come afferma anche Joppolo un artista spazialista del gruppo milanese: Lo spazio di un muro non più sentito come una materia inerte che deve sopportare passivamente le figure dell’arte, ma come una forma plastica e dinamica, suscitatrice di immagini che hanno una loro coerenza specifica . L’artista mira ad essere in dialogo con il contesto architettonico attraverso la sua arte. È fondamentale questa ricerca e questa collaborazione nell’ambito dell’architettura, perché consente a Fontana d’invadere lo spazio esterno, di portare nello spazio pubblico l’arte spazialista. Dagli anni ’60 in poi la sperimentazione fontaniana si arricchisce di nuove ricerche e prosegue con le precedenti riflessioni sviluppate negli anni ’50, apportando alcune modifiche. Sono gli anni dei: “buchi”, “tagli”, “quanta”, “nature” sculture in terracotta o bronzo, “teatrini”, “ellissi” sculture metalliche, “metalli” e degli “olii”. Sperimenta tantissimi diversi materiali per invadere e arricchire lo spazio: I diversi materiali, quali la carta, la tela, la creta, perfino la lamiera di rame e di zinco sollecitano la sua immaginazione.
Le portentose opere realizzate con le superfici metalliche, che apre con lo scalpello e martello, forzando la materia con forza fisica oltre che intellettuale, quasi in un corpo a corpo con la superficie dell’opera, dimostrando la volontà di non sfuggire ad alcun confronto. Le lamiere, superfici metalliche forate e tagliate, sono potenti e violente nel loro mostrarsi, come violento è il gesto che le ha prodotte118 . Il lavoro artistico fontaniano, che sviluppa in questi numerosi cicli, testimonia la forte implicazione di due elementi base: la matericità e la forte gestualità. Continua vivacemente con la serie dei “tagli” e dei “buchi”, incominciata alla fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, intitolata Concetti spaziali. Attese. Queste lacerazioni della tela sono il segno di una forza gestuale dell’artista sul supporto pittorico, solitamente ricoperto da una colorazione. Inizialmente la tela è ricoperta di colori neutri, poi è passato a colorazioni più intense: “Il bianco non ha nessuna importanza perché i miei quadri, i primi, eran senza colore, era la pura tela bucata, o una macchia di giallo. I primi eran senza niente, li ho ancora lì, no? Poi gli ho dato i colori, proprio per decorarli, perché non c’è nessun male a dire che io decoro una parete ”. Con queste lacerazioni Fontana vuole invadere la terza dimensione superando lo spazio bidimensionale: la scoperta del cosmo è una scoperta nuova, è l’infinito, allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita l’idea è proprio quella lì, è una dimensione nuova corrispondente al cosmo è la dimensione . Il buco era, appunto, creare questo vuoto dietro di lì. La scoperta di Einstein del cosmo è la dimensione dell’infinito, senza fine. E, allora ecco che: primo, secondo, terzo piano… per andar più in là cosa devo fare? Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere . Nelle prime fasi della sua produzione artistica Fontana realizza tele su cui ci sono solo dei buchi, solo in un secondo momento passa a delle lacerazioni che consistono in un netto “taglio”. Il taglio: “ è una delle icone dell’arte contemporanea che più hanno permesso di portare la riflessione critica su un livello concettuale, per l’immediatezza con cui si impone una lettura che vada oltre il fenomeno fisico e il fatto formale - e d’altro canto proprio i «Tagli» sollecitano le obiezioni di quella critica ‘triviale’ che trova in essi un facile bersaglio per dimostrare a un pubblico non specialistico l’inconsistenza dell’arte contemporanea” I “tagli”, come anche le successive lacerazioni della tela, hanno un profondo tessuto filosofico e poetico che trova espressione artistica in queste modalità . Fontana in varie interviste lascia testimonianza delle implicazioni spirituali e poetiche che sono a fondamento della sua attività: I miei tagli sono soprattutto un’espressione filosofica, un atto di fede nell’infinito, un’affermazione di spiritualità. Quando io mi siedo davanti a uno dei miei tagli, a contemplarlo, provo all’improvviso una grande distensione dello spirito, mi sento un uomo liberato dalla schiavitù della materia un uomo che appartiene alla vastità del presente e del futuro . Questi tagli hanno quindi una profonda valenza filosofica e mirano a delle conquiste spaziali extra materiche. Regalano anche un senso di liberazione, e di pace, nella contemplazione successiva all’azione e proprio i momenti di esecuzione e di riflessione motivano la denominazione Attese nel titolo della serie. È un concetto che esprime: “ caratteri poetici, più che razionali anche se in alcuni casi può introdurre un senso di proiezione o anticipazione del futuro, secondo i risvolti propri a una fiduciosa concezione del divenire” . Questa serie sarà sviluppata in molte tele e con molte varianti, tanto che realizzerà opere per questa serie fino agli ultimi anni della sua vita. Negli anni ’50 arriva a elaborare alcuni Concetti spaziali con il supporto di diversi materiali, tra cui delle pietre colorate: “Molteplici sono le possibilità che l’uso di pietre e buchi in combinazione dialettica o’ casuale’ genera, dove questa relazione tra ordine e disordine si ripropone”. Vengono anche utilizzate sabbie e lustrini e la base della tele viene ricoperta da tinte di vario colore, tra cui anche il nero. Per Crispolti queste opere sembrano alludere a un caos sospeso in cui è difficile trovare un ordine. Per il critico la serie: “ assume tutto il valore di apertura di una pagina nuova dopo le esperienze materiali informali. Ed è proprio in questo senso, come apertura cioè a una nuova visione assoluta, in certo modo quasi metafisica che i ‘tagli’ rappresentano un po’ l’ossatura di quella polarità più ordinata e distesa lungo tutta l’attività di Fontana negli anni Sessanta. Quantitativamente sono certo, lungo dieci anni, il ciclo più ampio e ricco nell’intera sua opera” . Queste riflessioni sembrano riferirsi al cosmo e ai suoi componenti, sono gli anni infatti in cui l’uomo indaga e cerca di superare il mondo terrestre per osservare cosa c’è oltre l’atmosfera, nell’universo. Lo spazio d’indagine non è più solo quello terrestre, ma diventa lo spazio cosmico. La matericità è sempre più forte, tanto che vengono inseriti degli elementi naturali esterni che vengono poi manipolati e colorati. Nella serie Quanta , iniziata a partire dalla fine degli anni ‘50, Fontana trae ispirazione da un termine della fisica quantistica. Ogni ciclo è composto da un diverso numero di tele richiamanti diverse forme geometriche e caratterizzate da un’intensa tinta rossa. Sulla superficie non mancano tagli di diversa lunghezza con cui Fontana continua a lacerare la tela e ad oltrepassare la seconda dimensione. Nel 1959 sviluppa una serie intitolata Nature , che concluderà nel 1960. Sono sculture circolari irregolari, in terracotta o in bronzo, realizzate durante un nuovo soggiorno ad Albissola. Sulla loro superficie si possono trovare profondi buchi o tagli che lacerano la superfice generando spazi oscuri in cui la luce non riesce a filtrare. Sembrano entità organiche, come semi o uova, ingigantiti per invadere lo spazio attraverso materiali “poveri” e scuri: grandi sfere materiche che modella e poi spacca, taglia, apre, sono il risultato di una precisa volontà, quella di mettere in discussione, lui scultore, la struttura plastica della scultura, così come è già avvenuto per il piano della pittura. Quasi a voler aprire la forma compiuta e perfetta della sfera, mettendone in mostra l’interno, evidenziandone la vera natura . Il titolo di queste opere mantiene la formulazione Concetto spaziale, in quanto rimangono produzioni che invadono lo spazio e fungono da testimonianza di un passaggio: “ pensavo a quei mondi, alla luna con questi buchi, questo silenzio atroce che ci angoscia, e gli astronauti in un mondo nuovo. E, allora, queste in una fantasia d’artisti queste immense cose da miliardi di anni sono lì arriva l’uomo, in un silenzio mortale, in questa angoscia, e lascia un segno vitale del suo arrivo erano queste le forme ferme con un segno di voler far rivivere la materia inerte, no?”. I tagli, i solchi profondi su queste sfere materiche, sono una testimonianza gestuale e grazie ad essi la materia da inerte diventa per un momento vitale. Tra il 1964 e il 1966 realizza delle “quinte” teatrali in legno colorato che inscrivono delle sagome inizialmente astratte, per passare poi a sagome sempre più figurative e riconoscibili. La serie Teatrini è composta da quinte e sagome che instaurano un gioco di cromatismi intensi, portando i critici a vedere questa serie di lavori come una parentesi “pop” nel lavoro di Fontana. I movimenti artistici nati oltreoceano negli anni ’60 cominciano certamente a influenzare l’immaginario Europeo e Fontana elabora tutti questi input in modo originale, ricrea infatti degli spazi teatrali con cornici che: “ evocano mondi evanescenti, irreali, poetici”. Le sagome recitano il loro ruolo, con scenografie retrostanti di colore uniforme, solcate in alcuni casi da una serie di buchi: “I piani agiscono l’uno sull’altro, affiorano e sprofondano come in un teatro che affascina e continuamente stupisce”. Le forme sono leggibili e lo stesso Fontana ammette che: L’introduzione di forme leggibili o che spingono all’interpretazione figurativa sia solo un espediente per riproporre il tema che gli sta maggiormente a cuore, quello dell’idea di spazio o «concetto spaziale», indipendentemente dalle definizioni formali che vi appaiono . Le quinte in cui sono collocate queste sagome, realizzate il legno laccato colorato con lo stesso cromatismo delle figure, sembra alludere anche a uno schermo televisivo. In uno spazio virtuale si vedono immagini in movimento e questa nuova invenzione ha sicuramento affascinato Fontana portandolo magari a pensare a come elaborare artisticamente il mezzo, anche se non ci sono testimonianze dirette. Il teatro diventa per Fontana un luogo di: “manifestazione di una nuova nozione di spazio e spettacolarità ”, uno spazio “rappresentato” lontano da quello fisico dello spettatore. Fontana si dedica allo spazio della rappresentazione per presentare il suo concetto spaziale, in cui si orienta verso la traduzione di una passeggiata dell’uomo nello spazio: figurazioni dell’uomo nello spazio, quest’angoscia che cerca delle forme e non le ha ancora trovate, la paura di perdersi, questa traccia di buchi indicherebbe il cammino dell’uomo nello spazio, queste, sarebbero delle forme di abitanti di altri mondi. Io mi metto in una posizione non dell’artista, ma quasi di uno studioso, di un ricercatore, che si chiude nel mondo136 . Ricerca, sperimenta e riporta con una grande originalità le sue riflessioni sull’uomo e il mondo in cui vive e si muove e realizzando un bel composto di pittura, scultura e architettura. La serie Ellissi è realizzata tra il 1964 e il 1967, le tavole sono in legno a forma di ellisse laccate con diverse colorazioni luminose chiare, che in un certo senso richiamano anche in questo caso ai cromatismi positivi e invitanti della Pop art. L’ideazione di questa serie è maturata dopo un viaggio a New York essendo stato affascinato dalle imponenti strutture dei grattacieli e anche in questa scelta Fontana dimostra quanto sia stato attento a scegliere un luogo tipico nell’immaginario popolare. Le tavole sono costellate da numerosi buchi disposti in modo sempre diverso, ma realizzati con grande precisone. Sempre in questi anni realizza anche un’altra serie con strutte metalliche verniciate a caldo, costellate da tagli profondi e decisi, realizzati con forte intensità manuale che riversa in materiali “nuovi” per la carriera artistica. La serie di Olii iniziata nel 1961 è caratterizzata da opere pittoriche quadrate in cui Fontana utilizza il colore ad olio e si rapporta con una materia abbastanza plasmabile da incidere e sollecitare. Le superfici in alcuni casi sono arricchite da frammenti di vetro colorato e vengono chiamate anche Venezie , l'artista infatti dedica queste tele di grande formato alla città di Venezia. Fontana ha frequentato la città più volte nella sua vita per partecipare alle varie Biennali, esponendo per esempio i suoi “tagli”, “buchi” e “gessi”. Partecipò anche a numerose mostre in cui espone le sue Nature e gli Olii stessi nella mostra intitolata Arte e contemplazione, che sono: “una sequenza di flash analogici relativi appunto a una appassionata, quasi romantica, giornata lagunare”. Ogni tela è intitolata in modo diverso, a seconda del momento in cui Fontana osserva e si lascia trasportare dalla bellezza della città e aggiunge spesso anche commenti personali. Le opere possono essere il frutto della visione di tramonti, albe, cieli azzurri, monumenti e piazze in particolari momenti del giorno o della notte, oppure eventi che si svolgono nella città lagunare. In questa serie, come sottolinea intelligentemente Crispolti, convergono temperature sentimentali scaturite dall’ambiente atmosferico della città, tradotte poi in forme materiche astratte: paradossalmente per un artista certo di magistero propositivo non-figurativo negli ultimi vent’anni di attività, di definirle proprio a partire dalla questione di uno specifico rapporto d’immagine quale appunto si manifesta nel ciclo di olii del 1961, anzitutto cioè come riscontro, dunque tuttavia tutto immaginativo analogico, ma sentimentalmente evocativo, rispetto a una circostanza, esaltante, situazione ambientale . Crispolti vede anche in questo caso un eco della corrente Pop in Fontana: “ tonalità affettivosentimentali evocative, un tema assai scontato, e tuttavia sempre vivo nell’immaginario popolare planetario, quale appunto l’immagine di Venezia, proprio con la consapevolezza di una personalissima, pur certo istintiva, risposta alle incipienti fortune del Pop art ” . In tutte queste sperimentazioni Fontana mantiene una linea non-figurativa, prodotta da una smaterializzazione mentale nella fase di ideazione, per essere poi tradotte in spazi cosmici. Nell’arco di un anno, tra il 1963 e il 1964, Fontana realizza un ciclo di tele ovali colorate con degli olii. La superficie monocroma è ripetutamente perforata da piccoli buchi, graffi o da grandi squarci. Questo ciclo è intitolato La fine di Dio, perché come spiega lo stesso Fontana: “Per me significano l'infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla”. Di questa serie si parlerà approfonditamente nel terzo capitolo di questo scritto, per ora è opportuno sottolineare quanto sia importante questa serie soprattutto per la riflessione filosofica in questa fase di grande maturazione artistica. Tutta questa attività polimaterica e gestuale ha alla base una forte progettualità riflessiva, concettuale, che si traduce in un primo momento in una fase disegnativa. In un secondo momento arriva alla produzione dell’opera in sé, solo dopo aver scelto quale materiale è in grado di tradurre la determinata riflessione poetica. Si passa proprio, come afferma Crispolti, dal disegno al segno riportato nella materia, a seconda del linguaggio scelto, per invadere lo spazio.
Fontana indaga la dimensione fenomenologica del reale attraverso il proprio vissuto e le proprie riflessioni filosofiche sulla realtà. Si concentra sulla dimensione vitale dell’uomo nello spazio e non solo in quello terrestre, ma anche in quello cosmico che l’uomo moderno comincia ad indagare, fino ad arrivare a domande spirituali. Le sue formulazioni teoriche, tradotte nei numerosi scritti frutto di confronti intellettuali, mirano a rendere più cosciente l’uomo moderno del suo esserci, del suo essere nel mondo, e perciò la sua arte è legata alla vita. Riporta la “vita nell’arte”, in una realtà: “ dinamica fluida, infinita” . Parallelamente alle riflessioni spaziali, nel corso di tutta la sua attività, si confronta con tematiche che vanno oltre la dimensione terrestre e sembrano orientarsi verso una dimensione spirituale. Realizza numerose Vie crucis, Crocifissioni e scene bibliche per numerose committenze, sempre secondo un linguaggio che si allontana da una figurazione chiara e definita. È proprio di questa parte della sua produzione che si soffermeranno le pagine seguenti, cercando di capire se Fontana sia, oltre che un artista d’avanguardia del XX, anche un artista di arte sacra del XX secolo. L’attività di Lucio Fontana negli anni ’60, come è stato appena appurato, è caratterizzata da una forte produttività sia in pittura che in scultura. In questi anni tanto ricchi di soddisfazioni artistiche instaura intensi e prolifici rapporti di collaborazione. Tra questi vari legami il più interessante è forse quello con Yves Klein, un artista francese con cui instaura sia un rapporto di collaborazione che di stima. Il Museo del ‘900 di Milano ha ospitato recentemente, dal 22 ottobre al 25 marzo del 2015, una mostra nella quale erano proprio messe a confronto le produzioni artistiche di questi due personaggi molto importanti per il XX secolo. Le loro ricerche vennero presentate in una mostra capace di mettere in luce la vicenda lavorativa e il legame personale intercorso tra due importanti interpreti del rinnovamento artistico. Il raffronto si snodava attraverso un itinerario espositivo nel quale erano messe a confronto le opere principali di entrambi, attraverso accostamenti tematici e visivi distribuiti lungo tutto il percorso del museo. La mostra, caratterizzata da una grande ricchezza di materiali, era composta da oltre 90 opere, da una ricchissima documentazione di fotografie, filmati d'epoca e carte d'archivio. Il sodalizio tra questi due artisti è avvenuto in un arco cronologico ben definito, tra il 1958 e 1962, interrotto dalla prematura morte di Klein. Il rapporto artistico inizia nel gennaio 1957 quando Yves Klein tiene la prima personale di monocromi blu presso la Galleria Apollinaire di Milano. In quell’occasione un personaggio molto importante per la scena artistica espone una presentazione critica della mostra: il francese Pierre Restany. Restany è il critico teorizzatore del movimento francese Nouveau Rèalisme di cui lo stesso Klein fa parte e decide infatti di accompagnare il suo grande amico, e collaboratore, in un momento tanto importante per la sua carriera. In quell’occasione Lucio Fontana fu tra i primi acquirenti di un monocromo dell'artista francese e proprio da quel momento in poi instaurarono un legame di stima reciproca e di scambio artistico. Tra Milano e Parigi, i due centri fondamentali per l’arte del primo Novecento, il percorso dei due artisti si interseca più volte grazie ai contatti che condividono e al contesto nel quale si trovano: con la rinnovata affermazione di Fontana a livello europeo circa dalla fine degli anni ’50, si comprende come lo scambio fra giovani generazioni e il maestro sia biunivoco. Il “passaggio” a determinate giovani gallerie europee e la progressiva ingerenza del sistema mercantilistico, associate alla formazione di circuiti “alternativi” e promossi dagli stessi artisti, creano una piattaforma culturale dalla cospicua valenza propagandistica . Il contesto di inter culturalismo e la capacità di Fontana di affermarsi sulla scena internazionale, oltre che europea, hanno consentito un forte interscambio tra gli artisti che molto probabilmente non si sarebbero mai incontrati. Klein instaurò prolifici rapporti con gli amici e i galleristi di Fontana, tanto che in una particolare occasione vengono aiutati nella realizzazione di un progetto importante. Nel 1960 collaborarono all’ideazione di un lavoro da esporre alla XII Triennale di Milano dello stesso anno, purtroppo però l’opera non verrà mai realizzata. Esposero insieme in molte mostre, come per esempio in quella organizzata nella galleria di Klein in cui presenta nel 1960 le Nature di Fontana al pubblico parigino; anche l’artista francese espone numerose volte in Italia, come si è visto precedentemente. Entrambi compiono diversi viaggi nella città dell’altro, alimentando le rispettive riflessioni artistiche. Fontana aveva una grande considerazione dell’artista francese e comprendeva perfettamente le sue linee artistiche, nel 1967 disse infatti: Klein rappresenta lo spirito nuovo. È diverso da un pittore espressionista come Rothko che è interessato alla vibrazione luminosa dello spazio, e da Pollock, che vuole distruggerlo, farlo esplodere, rompere il quadro. È diverso da me, perché io cerco uno spazio ulteriore. Lui voleva l’infinito . In questo commento Fontana descrive perfettamente sia la propria operazione artistica, che quella del collega. L’artista italo-argentino è alla ricerca, in tutte le serie pittoriche, scultoree e architettoniche, di uno spazio ultra dimensionale capace di travalicare la seconda dimensione; le ricerche fisiche e concettuali hanno infatti tutte questo fine. Klein d’altra parte vuole rappresentare e ricreare l’infinito attraverso forme nuove e rivoluzionarie, cercando di superare le forme canoniche. Fontana attraverso le sue tele lacerate dichiara la ribellione iconoclasta all’arte tradizionale, come attua per esempio attraverso gli squarci istintivi nei Concetti spaziali, che aprono allo spazio ultra dimensionale. Yves, detto “Yves – le Monochrome”, per il suo smisurato amore nei confronti della monocromia blu, cerca di rappresentare l’infinito attraverso ogni mezzo possibile: “La qualità autentica del quadro, il suo stesso ‘essere’, una volta creato, si trova oltre il visibile, nella sensibilità pittorica della materia prima ”. All’interno di un suo manifesto elabora ulteriormente questi concetti: Stabilito che per quindici anni ho dipinto monocromi. Stabilito che ho creato delle situazioni di pittura immateriale. Stabilito che ho manipolato le forze del vuoto. Stabilito che ho scolpito il fuoco e l’acqua e dal fuoco e dall’acqua ho tratto dipinti. Stabilito che ho usato pennelli vivi per dipingere, cioè il corpo nudo di modelle vive spalmato di colore. Dato che ho inventato l’architettura e l’urbanesimo dell’aria. Dato che ho proposto una nuova concezione della musica con la mia Sinfonia-Monotono-Silenzio. Allora penso a quelle parole, che un’ispirazione improvvisa mi fece scrivere una sera: L’artista futuro non sarà forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimerà un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione? Come si può osservare anche Klein ha una grande ambizione, quella di tradurre qualcosa di immenso e incontenibile attraverso la sua arte ed un linguaggio innovativo. È comune ad entrambi la ricerca di qualcosa che si colloca al di fuori degli eventi terreni e quotidiani, vogliono trasmettere al fruitore uno spazio cosmico infinito, evocabile con il vuoto e l’indefinibile: “Della sintonia di Fontana con Klein si è detto; si può aggiungere che la ricerca di un equilibrio tra pittura come essenza cromatica e forma nello spazio dunque il colore puro, astratto, non rappresentativo ma assolutamente simbolico – anche per negare una spazialità semplicemente reale ”. Entrambi evocano infatti uno spazio immateriale, cosmico o spirituale, attuando attraverso riferimenti storici, e il supporto di elementi naturali, una grande rivoluzione artistica. La luce o gli elementi offerti dalla contemporaneità sono i mezzi grazie ai quali tutte le teorie concettuali dei due artisti vengono tradotte nella realtà. Lucio Fontana nel secondo dopoguerra si trova in una fase di intense sperimentazioni tradotte attraverso la ceramica, modellata e vitalizzata dall’abilità manuale dell’artista. Le opere sono lavorate secondo una strategia che gli permette di tradurre nel materiale plastico le fantasie concettuali, ottenendo così stravaganti forme al limite tra figurazione e astrazione. Lo spettatore è chiamato a interpretare il soggetto dell’opera attuando una fase tutta concettuale di riconoscimento, in cui i titoli dei lavori gli vengono in aiuto. Nel 1947 Fontana ritorna a lavorare presso la fabbrica Mazzotti ad Albissola Marina dopo la parentesi argentina e parallelamente alle opere scultoree a tema zoomorfo, e fitomorfo, inizia un ciclo narrativo a tema sacro: una Via Crucis. Questa si colloca in una fase fortemente innovativa della ricerca scultorea fontaniana, nella quale l’artista indaga le possibilità espressive della ceramica, un materiale duttile molto amato dall’artista: “ un esempio del più lussuoso ritorno di Fontana alla ceramica, appunto non molti mesi dopo il rientro in Argentina, avvenuto nell’aprile di quel medesimo anno. E si sa che il suo maggiore impegno in tale ‘impresa’ italiana fu subito proprio come ceramista e in particolare quale risoluto scultore ceramista ”.
Nel corso della sua attività scultorea Fontana si è confrontato con materiali diversi, dalla fine degli anni ’20 lavora con la terracotta: “ l’ha scelta quale mezzo immediato, duttile e sensibile, risponde al segno corsivo inciso, trasgressivo d’ogni ideale plasticità, e subito risponde anche all’intervento del colore, d’impronta di dialogo spaziale anziché descrittiva”. Decide poi di confrontarsi con la ceramica dagli anni ’30 presso le fabbriche di Albissola, dalle cui fornaci ottiene nel 1947 questa prima Via Crucis: È stato così scultore in terracotta e anche propriamente ceramista, come è diventato poi con prestigio e virtuosità professionale, strepitose nel folto suo lavoro del 1935, ’36, ’37, ’38, ’39, (fra Albissola soprattutto e una presenza importante a Sèvres) . La ceramica può essere considerata un materiale “ricco”, rispetto alla terracotta che è da sempre considerata un materiale “povero”; con essa realizzerà la terza Via Crucis degli anni ’50, di cui si parlerà in seguito. Attraverso la ceramica riflessata elabora quindi un tema religioso molto importante durante il periodo pasquale in cui si assiste alla ricostruzione e alla commemorazione del percorso doloroso di Cristo, che si avvia alla crocifissione sul monte Golgota. Il lavoro di Fontana si sviluppa in quattordici stazioni di piccole dimensioni, definite episodi plastici dal critico Enrico Crispolti, le varie scene sono composte da personaggi che si pongono in denigrazione o in aiuto del Cristo. Nella prima stazione Gesù viene condannato a morte e sono distinguibili varie figure ricoperte da una colorazione verde scura o dorata aventi le braccia alzate in segno di animato giudizio di condanna. Nella seconda stazione Cristo carica la croce sulla schiena per incamminarsi verso il Golgota su cui sarà crocifisso e durante il cammino, precisamente nella terza stazione , cade sotto il peso della croce accerchiato dalla folla. In queste tre prime stazioni le figure sono difficilmente distinguibili, come peraltro in tutte le formelle di questa serie, e sono ricoperte da una colorazione bluastra e oro. Nella quarta stazione incontra la Vergine Maria abbracciandola calorosamente , le figure fuoriescono a malapena da un magma materico in cui sono distinguibili solo alcune braccia; è importante sottolineare la colorazione della ceramica caratterizzata da colori pastello in accordo con la serenità sentimentale della scena. Nella quinta stazione il Cristo è aiutato da un Cireneo a portare la croce , a causa della grande fatica infatti rallenta sempre il passo, e si possono osservare nuovamente varie figure bluastre e oro disposte intorno alla scena. Nella sesta stazione una donna tra la folla porge a Cristo un candido lino per detergersi il sudore e gli elementi della scena sono più riconoscibili. Nella settima e nella nona stazione Gesù cade sotto il peso della croce e i soldati romani si accaniscono per rialzarlo, la colorazione utilizzata per le figure corrisponde a quella delle precedenti stazioni. Nell’ottava è aiutato da delle pie donne e nella decima viene spogliato per essere posto sulla croce , in questa formella viene aggiunto un colore violaceo per caratterizzare le figure femminili. Dalla decima stazione in poi diminuiscono i personaggi, sono poche infatti le persone che rimangono con Gesù negli ultimi attimi della passione. Nelle ultime formelle sono raffigurati i momenti cardine, la crocifissione e la morte del Cristo , la più drammatica con intense tinte cupe. Nella penultima si posso osservare dei tocchi di colore bianco sul corpo proprio per enfatizzare la purezza e la trascendenza del figlio di Dio morto per la remissione dei peccati. La scena forse più ricca di figure è proprio l’ultima, la quattordicesima , in cui Cristo viene deposto nel sepolcro con l’aiuto di varie persone. Il cromatismo è una componente fondamentale di questa produzione plastica, il colore sgargiante si lega alla superficie lucida percossa da numerosi fremiti creando intensi effetti di chiaro - scuro. La gamma di colori, come si è potuto osservare precedentemente, è molto ampia: si passa da un intenso oro, al marrone, al verde, a un blu acceso, ad un giallo ocra, fino a colori violacei e purpurei. I tocchi di rosso alludono al sangue versato dal Cristo durante la passione e si possono osservare numerosi tocchi di bianco nelle ultime stazioni con le implicazioni dette precedentemente. La serie in ceramica riflessata è dotata di: grande effetto coloristico, in un alto rilievo spinto praticamente appunto alla libertà del “tuttotondo”, si articolano gruppi di figure gesticolanti intrise in una materia dunque di rutilante cromatismo, e di esuberante espansione quasi tentacolare nel rapporto dialettico con lo spazio. Legate da un filo narrativo, al tempo stesso avvertibile e trasgredito nei liberissimi movimenti plastici dell’immaginazione fontaniana . La colorazione, come è stato ripetuto più volte, è fondamentale e anche il critico Giulio Carlo Argan osservando le opere fontaniane afferma: “Il colore non è un fenomeno di superficie, una determinazione o una variazione tonale del chiaroscuro inerente alla solidità materiale della cosa scolpita, ma è il principio plastico, spaziale, della scultura di Fontana” . Le varie stazioni sono un succedersi di liberi movimenti plastici animati dalla manualità fontaniana, in cui la scena narrativa è dispiegata in uno spazio che sfugge dalla bidimensionalità. Giampiero Giani, un artista che collaborava con la fabbrica Mazzotti, aveva assistito alla realizzazione di questa Via Crucis e vide in quest’opera una forte “ violenza anticlassica” . L’opera unisce due elementi molto rilevanti: “ la cristiana pietà che quelle ceramiche suscitavano e le ragioni della forma e della materia ”. Fontana infatti è sicuramente interessato a sviluppare un nuovo linguaggio, vuole plasmare la materia secondo una manualità capace di decostruire la forma e al tempo stesso mantenerla. Occorre un forte esercizio immaginativo per leggere e comprendere correttamente gli episodi narrati alla luce di uno stile altamente astratto. Questa scelta stilistica non viene definita dai critici soltanto come informale per la sua scarsa leggibilità, ma Crispolti per esempio parla anche di barocchetto alludendo alla sontuosità materica e cromatica che caratterizza l’intera serie. L’opera è frutto pertanto di un “barocchetto informale” in cui pittura e scultura sono armonizzate in un “bel composto”: È il tempo della lingua “barocca” di Fontana scultore, quella ove diviene canonico, usuale per lo meno, quel connubio d’opposti già altre volte, anteguerra sfiorato Esplode nello spazio, la figura; per ritmi vorticosi e franti, s’alza improvvisa e improvvisa crolla, in picchi e vertigini. L’oro e il nero, il rosso e il violetto colori di gemma ovunque accompagnano il crepitare mai stanco degli slanci e delle prospettive. La luce, che la tecnica della ceramica riflessata raddoppia verso l’esterno, folgora anch’essa, in un da per tutto senza soste e senza sazietà . Gli episodi di questa Via Crucis non sono facilmente leggibili, richiedono infatti uno sforzo interpretativo da parte del fruitore: si insinua immaginativamente (e in movenze di soluzioni plastiche) entro un’esuberanza che, mettendo a frutto intuizioni e pratiche di un dinamismo plastico-materico (ma anche cromatico) affermatosi proprio attraverso la sua originale scultura in ceramica nella seconda metà degli anni trenta, si colloca in stretta connessione con il momento fondativo della importante e pioneristica esperienza del suo “informale” . L’artista elabora in un linguaggio astratto, e altamente innovativo, una tematica religiosa molto conosciuta e riprodotta traducendo le sue produzioni immaginative in forme plastiche fortemente dinamiche. Nell’opera si avverte una profonda ricerca artistica: Fontana, di fronte alla tematica religiosa, o cerca di svincolare quanto possibile in un’impennata creativa dai condizionamenti della committenza, o utilizza tale tematica quale pretesto ulteriore d’invenzione plastico-compositiva . La difficile leggibilità dell’opera, anche se il fruitore è comunque aiutato dalla popolarità del tema e da alcuni indizi formali posti dallo stesso Fontana, può essere motivata dal fine per cui è stata realizzata. Non è prodotta con l’intento di essere collocata in un contesto pubblico, ma per essere fruita in un contesto privato. La funzione pubblica avrebbe richiesto maggiore leggibilità, come infatti avverrà per le successive Vie Crucis, mentre la ricezione in un contesto privato permette una certa libertà espressiva da parte dell’autore. Su questo punto sono concordi sia il critico Biscottini che Crispolti: “ Fontana progettava in proprio, anziché per commissione, e dunque si muoveva a livello della sua maggiore libertà inventiva, e nei termini pienamente liberi appunto del suo essere scultore”160 . L’opera rimane per molto tempo nella sua collezione personale, successivamente viene venduta e ancora oggi fa parte di una collezione privata. Nonostante la fruizione privata, come si è detto in precedenza, Fontana inserisce numerosi elementi figurativi riconoscibili, come per esempio le varie figure gesticolanti che si vedono nelle prime stazioni o nella donna che nella VI stazione cede il proprio lino al Cristo per detergersi il sudore. La sagoma del volto di Gesù è ben riconoscibile sul candido lino bianco tenuto tra le mani dalla stessa Veronica.
Il critico Biscottini in una sua riflessione sullo stile e l’evidente libertà esecutiva di quest’opera, si sofferma a riflettere sulle possibili implicazioni religiose alla luce del fatto che una tale libertà esecutiva lo porti a confrontarsi con un tema sacro: Pare sorprendente che la Via Crucis del 1947, priva di una specifica committenza e dunque frutto di libere scelte condotte da un artista nel pieno rigoglio della sua ricerca, possa non fondarsi su confronto inevitabile del Cristo e del suo destino, quand’anche esso non venga totalmente accolto o compreso nell’accezione propria della devozione cristiana- e non determinare, a sua volta, un altro e altrettanto inevitabile confronto tra la propria limitata verità d’uomo e l’eterna verità dell’actus tragicus del Golgota. La mostra riunirà una serie di disegni e piccole sculture che permetteranno di interrogarsi sulla genesi degli
Ambienti Spaziali, dei
Concetti Spaziali e delle
Nature, e sulle prefigurazioni in essi implicite. Com’è noto, la ricerca di Lucio Fontana si svolge all’insegna di una nuova esperienza e concezione non solo dello spazio, ma anche del tempo, colto in una doppia dimensione: verso il passato dei primordi, quello della nascita della Terra, e verso il futuro dell’Universo, quello della sua dimensione incalcolabile. La sua ricerca approfondisce la dimensione ctonia, originaria, tellurica di una materia appena generata, non in senso religioso ma cosmologico. Una dimensione che riporta il nostro immaginario agli inizi del creato, della Terra e della Luna, alla cui conquista Fontana fu sensibile, come se quegli ammassi di materia compatta e carica di energia, come meteore, o come se quell’insieme di perforazioni, in forma di spirali e vortici, fossero galassie in formazione. Una esplorazione che abbraccia e riunisce il micro e il macrocosmo, il livello più organico, primario, notturno della sessualità e quello diuturno dell’immaginazione concettuale.
Museo del Novecento Firenze
Lucio Fontana. L’origine du monde
dal 2 Marzo 2023 al 13 Settembre 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 20.00
Giovedì Chiuso