ludovica trezzani

  

Dopo la laurea in Storia dell’Arte alla Sapienza di Roma, Ludovica Trezzani ha lavorato con Giuliano Briganti collaborando a vari progetti di ricerca sulla pittura del 600. Tra le sue pubblicazioni, il libro sui “Bamboccianti” uscito nel 1983; i volumi sugli affreschi e i dipinti  nel palazzo del Quirinale del 1993-94; la nuova edizione della monografia di Briganti su Gaspar van Wittel (1996); numerosi interventi sulla pittura di natura morta, veduta e paesaggio, tra cui il volume curato per Electa nel  2004. Insieme a Laura Laureati, nel 2002 ha curato la mostra  “Gaspare Vanvitelli  e le origini del vedutismo” per il Chiostro del Bramante a Roma. A partire dal 1988 è stata responsabile del Dipartimento di Dipinti Antichi e dell’Ottocento della sede romana di Finarte Casa d’Aste. Tra il 2007 e il 2012  si è occupata del reparto Old Master Painting di Christie’s Italia. Lavora attualmente come “independent consultant”.

D. Innanzitutto vorrei una tua valutazione d’insieme sul momento attuale del mercato dell’arte antica in Italia e fuori dall’Italia. Che effetti ha prodotto  nel nostro settore la famigerata crisi economica che grava sull’occidente? In secondo luogo vorrei chiederti: perché giganti come Christie’s  e Sotheby’s considerano ormai il nostro paese come un imponente bacino di reperimento delle opere ma non più un luogo interessante per venderle?

R.
Tanto per cominciare, c’è da dire che fuori dall’Italia si fa davvero fatica ad accorgersi della crisi nel nostro settore:  alle aste di Londra o Parigi vediamo stime e  risultati di vendita perfino superiori a quelli del recente passato. Sicuramente gli acquirenti dell’arte antica che entrano nel mercato adesso sono diversi da quelli di una volta e certamente non sono più italiani. Alle aste di Londra, dove un tempo mercanti, antiquari e collezionisti italiani erano di casa, non vedi più quasi nessuno venire dall’Italia e quei pochi che ancora presenziano indubbiamente non sono protagonisti delle vendite come lo erano ancora fino a sei-sette anni fa: perché, precisiamo, la crisi non dura solo da due-tre anni ma ha radici più lontane. Chi siano i nuovi collezionisti, o comunque i nuovo compratori, non è semplicissimo capirlo, anche perché ovviamente spesso si affidano per i loro acquisti a mercanti o a figure di fiducia: comunque è evidente che non solo, com’è ben noto, per l’arte contemporanea ma anche per quella antica gli acquirenti russi e orientali sono diventati grandi protagonisti. Anche nelle ultime aste milanesi di Christie’s sono comparsi giovani mercanti cinesi, interessati un po’ a tutto su una fascia di valore medio-alta (licenze di esportazione permettendo).
In Italia la situazione è molto diversa, con un’evidente contrazione del volume di affari. Da noi non c’è stato indubbiamente un ricambio generazionale della clientela e in pratica quasi non esistono collezionisti “giovani” che comprino l’arte antica. Le ragioni possono essere tante, anche al di là della crisi economica, a partire dal ruolo della storia dell’arte nel nostro attuale sistema scolastico; e forse, almeno in parte, lo si deve considerare un fenomeno naturale, un salto generazionale che corrisponde anche a un fisiologico mutamento di gusto.
D’altro canto, almeno negli ultimi vent’anni, l’arte antica, anche nei suoi momenti più brillanti, non è mai stata davvero la componente trainante del mercato, non ha mai avuto, cioè, un giro d’affari e una mole di acquirenti paragonabili all’arte moderna e contemporanea: anche perché sull’arte antica grava sempre il fardello dell’incertezza attributiva. Oggi pensi di comprare Tiepolo o Van Laer (per restare ad argomenti di cui ho esperienza diretta) e domani ti ritrovi un’opera di scuola o di un seguace: questo rende gli acquisti più incerti e costituisce un freno psicologico al collezionista. La certezza del nome, per quanto spesso convenzionale, che accompagna le opere d’arte contemporanea rappresenta senza dubbio un motivo di appeal per l’acquirente  che l’arte antica non potrà vantare mai, per non dire del suo linguaggio, almeno apparentemente più immediato, semplice da intendere (e da collocare in un ambiente  attuale) e “internazionale”. Piuttosto, sempre più spesso l’arte antica è oggi usata come riferimento colto che conferisce prestigio e aiuta a vendere l’arte moderna, per cui, ad esempio, in un catalogo di vendita di arte contemporanea si può trovare un Taglio di Fontana accostato alla riproduzione del panneggio in un ritratto di Antonello da Messina, o particolari della Madonna di Senigallia di Piero della Francesca accanto alle bottiglie di Morandi, per non parlare del nesso, in parte abusato, tra Velàzquez e Francis Bacon.
Inoltre, e senza dubbio a ragione considerate le cifre, oggi si pretende da ciò che si acquista lo stato di conservazione perfetto, la provenienza e il pedigree giusto, la bibliografia affidabile: tutti fattori che, evidentemente, possono penalizzare l’offerta media di arte antica. Una volta si comprava più “allegramente” e si era disposti a rischiare di più, anche perché si potevano fare acquisti interessanti a cifre molto contenute; sapevi  inoltre di poter contare su un mercato vivace che ti avrebbe comunque permesso di rivendere con una certa facilità. C’è anche da dire che gli studi erano molto meno sviluppati, non c’era bibliografia su tutto, c’erano meno libri, meno mostre, meno fotografie ed era più facile fare il colpo, o quanto meno illudersi di farlo, magari con un grande margine di fantasia: insomma, c’era più spazio per il sogno. Sta di fatto che una volta il collezionista, quali che fossero i suoi mezzi, era (o riteneva di essere) un esperto, e in ogni modo aveva un suo gusto preciso. Se un dipinto gli piaceva era disposto a prendersi i suoi rischi; quel tipo di collezionista oggi è quasi sparito ed è stato sostituito da un compratore forse meno competente ma che, appunto per questo, pretende pezze d’appoggio apparentemente precise che gli diano la certezza dell’acquisto “sicuro” e “garantito”.
Un altro fenomeno che è in corso forse già dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ma che oggi è arrivato alle sue estreme conseguenze ed è particolarmente evidente sulla scena internazionale, è la radicale  polarizzazione del mercato dell’arte antica:  in pratica si vendono solo le opere di alta qualità e alto prezzo, oppure le cose che costano poco, mentre c’è un’enorme sofferenza per tutta la massa  di opere di fascia media, di discreta o buona fattura a costi non elevatissimi ma neanche minimi, che un tempo costituiva lo zoccolo duro del mercato e che oggi si vende molto a fatica e a prezzi sensibilmente più bassi rispetto a dieci o vent’anni fa. La crisi di questa tipologia di prodotto corrisponde all’eclissi dell’acquirente medio-alto borghese, che fino a dieci-quindici anni fa, magari senza fare follie, investiva con continuità in opere d’arte antica e che oggi non compra più. Purtroppo il mercato italiano ha avuto  momento felici, spesso in relazione a  bolle speculative congiunturali, ma nel tempo si è dimostrato intrinsecamente fragile, perché legato di fatto a un bacino molto esiguo di collezionisti che progressivamente è andato esaurendosi, o per cause naturali o perché qualcuno si è orientato su altri generi, o ha subito rovesci di fortuna o perché, semplicemente, si è stancato di comprare. Si potrebbe dire che il nostro non era propriamente un vero mercato ma che, negli anni buoni, in realtà è stato nutrito da fenomeni esterni e a volte anche non del tutto sani.

D. Senza pensare di stravolgere l’impianto della nostra legislazione artistica, com’è noto rigorosamente protezionistico, alla luce della tua lunghissima esperienza di studiosa ma anche di “operatrice di mercato” quali ragionevoli interventi suggeriresti per dare un po’ di respiro al mercato dell’arte in Italia?

R.
Per cominciare, trovo molto sana e razionale l’impostazione della legislazione francese, la quale, destinando lo Stato fondi per l’acquisizione di opere d’arte assai maggiori dei nostri, in pratica lega l’esercizio del vincolo all’acquisto del bene. Ma chiaramente da noi questo modo di procedere è impedito di fatto dalla carenza di mezzi in cui versa il Ministero. Naturalmente, da italiana e  storica dell’arte sono addolorata dal fatto che il nostro paese sia stato storicamente terreno di saccheggio, e sono convinta dell’indispensabilità dell’azione protezionistica dello Stato attraverso il vincolo. Ma ciò non toglie che questo debba seguire un criterio logico ed evidente legato alla qualità, all’importanza storica e collezionistica, al rilievo nell’ambito di un determinato contesto, al valore documentario, alla rarità di un certo oggetto nelle nostre collezioni pubbliche o accessibili al pubblico, del bene che viene vincolato. Ma nella mia lunga esperienza ho visto notificare tantissime opere che non rispondevano a nessuna di queste caratteristiche, e francamente mi sembra che questo non abbia molto senso. Trovo corretta altresì la vecchia convinzione di Casimiro Porro, secondo il quale se quello italiano, nel tempo, fosse stato un mercato aperto le opere d’arte sarebbero non solo uscite ma anche entrate o rientrate, così com’è sempre accaduto in Francia o in Inghilterra. Inoltre, in concreto, il limite dei cinquanta anni per poter esportare liberamente le opere d’arte è chiaramente troppo ridotto; ormai non ci rientrano più nemmeno opere eseguite negli anni Cinquanta e questo mi pare onestamente un po’ esagerato. Come in realtà fanno tanti bravi funzionari di Soprintendenza, bisognerebbe applicare comunque quei parametri di giudizio stabili e per quanto possibile oggettivi che ricordavamo poc’anzi: anche perché un effetto non trascurabile di questa normativa è che, tra l’altro, quegli stessi funzionari siano oberati di lavoro per pronunciarsi su una miriade di richieste relative a beni di importanza modesta o nulla importanza, a danno del lavoro indispensabile che devono svolgere su altri fronti. Ma purtroppo si direbbe che alla politica di tali questioni non importi un granché.

D. In un momento come questo, di chiara contrazione, soprattutto in Italia, di coloro che impegnano risorse per acquistare arte antica, si riesce a capire dove va il mercato, cosa incontra oggi il gusto degli acquirenti? A parte la quota d’inaggirabile casualità che governa il lavoro dell’esperto di dipinti antichi, che cosa cerchi, o speri di trovare, nell’attività di reperimento delle opere da proporre all’incanto?

R.
Per fare esempio, ho potuto constatare  che alcuni collezionisti di arte moderna e contemporanea amano accostare alle loro opere quadri di alta epoca: possono magari cercare il fondo oro che ritengono accordarsi felicemente col gusto espresso nell’arredo delle loro case (tendenzialmente asciutto, minimalista, con pochi oggetti di design) e nelle loro raccolte di dipinti contemporanei, magari combinato a qualche oggetto di arte orientale. Per quanto riguarda quelli che cercano specificamente arte antica si registra ormai da anni un evidente calo di interesse nei confronti dei generi cosiddetti “decorativi” (paesaggi, nature morte, battaglie etc.) che tanta, e a volte eccessiva, fortuna avevano goduto nei decenni scorsi, con una conseguente saturazione del mercato. Quelle tipologie di dipinti hanno subito una significativa riduzione dei valori, che del resto in passato avevano raggiunto livelli spesso superiori ai loro meriti. Quello che oggi sicuramente viene premiato è l’ottimo stato di conservazione: oggi chiunque ti chiede il condition report anche sul quadro da poche migliaia di euro.

D. Che consigli daresti a un aspirante collezionista di arte antica che si affacciasse al mercato in questo momento? Come muoversi nell’abbondanza un po’ caotica e spesso obiettivamente deregolata dell’offerta?

R.
E’ chiaro che in questo momenti i prezzi dell’arte antica sono bassi e dunque si può comprare molto bene. Comunque bisogna sempre ricordare che non ha molto senso acquistare l’arte antica come investimento perché raramente, o comunque non necessariamente, essa può rivelarsi tale. Il primo consiglio quindi, a prescindere dalla congiuntura economica, resta sempre quello di comprare opere che piacciono molto, infischiandosene delle mode ma trovando oggetti che corrispondano al proprio gusto, a prescindere dai generi, dai soggetti e dalle epoche . Ovviamente, io cerco sempre di guidare i clienti ad acquistare opere di buona qualità, di giusta attribuzione (sempre nei limiti delle conoscenze attuali!) e in buono stato di conservazione:  ma il proprio gusto è e deve restare il criterio ultimo che spinge all’acquisto, perché in definitiva una fetta importante dell’investimento, quale che sia, riguarda proprio il piacere che un’opera d’arte è in grado di dare. Quando riesci a garantirti questo hai già ammortizzato una bella quota della spesa.

Luca Bortolotti