Poco o nulla si è invece detto, in letteratura, su un’altra arma che pure compare in alcuni dipinti del maestro: ed è su questi specifici dipinti che intendo qui brevemente soffermarmi. Esistono infatti quattro opere - e precisamente, il cosiddetto Concerto di giovani (detto anche la Musica) del 1595ca. (ora a New York, Metropolitan Museum, fig. 2), l’Amore vincitore del 1602ca. (ora a Berlino, Gemäldegalerie, fig. 3), l’Amore dormiente del 1608ca. (ora a Firenze, Galleria Palatina, fig. 4) ed il Martirio di S. Orsola del 1610ca. (ora a Napoli, Palazzo Zevallos, Collezione Intesa San Paolo, fig. 5) - nelle quali compare non già una spada o un pugnale, bensì un arco con le frecce: e tuttavia, quasi nessuno degli studiosi che hanno commentato codesti quattro dipinti ha segnalato alcune «incongruenze», pur singolarmente evidenti.
§ 1. Sul lato sinistro del Concerto compare infatti un Cupido (chiaramente fornito di ali) il quale tiene, alla sua spalla destra, una faretra legata (ancorché essa non risulti visibile) e riempita di sei frecce, le cui punte fuoriescono con grande evidenza (fig. 6) all’altezza dell’omero destro del Cupido stesso, intento a cogliere chicchi di uva da un tralcio reciso.
Epperò, come si può notare, le frecce non fuoriescono dalla faretra con la loro parte terminale, e cioè con l’impennaggio – come dovrebbe essere – bensì fuoriescono con le loro punte di ferro bene in vista.
La cosa non può avere, a ben riflettere, alcuna giustificazione, dato che, come è noto (e come è normale nell’iconografia dell’arciere in generale, ma anche specificamente del Cupido) le frecce dovevano e devono essere riposte invece nella faretra con la punta metallica verso il fondo e con l’impennaggio verso l’esterno, al fine di consentire all’arciere di prendere la freccia alle sue spalle per la cocca ed innestarla così, con movimento rotatorio rapidissimo, sulla corda dell’arco per poterla poi lanciare.
Si parlerà ancora infra del problema degli archi, ma, per approfondire ora il particolare delle punte metalliche delle frecce così vistosamente evidenti nel Concerto (dove è ben da supporsi una faretra, ancorché non visibile), si pone certo la domanda di come mai Caravaggio – sia che quel dipinto risulti opera autografa, sia che esso sia considerato una copia molto fedele di un perduto originale – rappresenti invece le frecce nella posizione esattamente opposta a quella che ogni arciere dovrebbe predisporre, in particolare quando regge giustappunto la faretra alle spalle. In realtà, nulla può spiegare quella erronea posizione delle frecce se non il fatto che Caravaggio non doveva aver forse mai praticato o eseguito, nella sua vita, alcun tiro con l’arco.
Poco valida sarebbe infatti la spiegazione secondo la quale codesto particolare della Musica potrebbe essere un unicum – e cioè, un brano di singolare bravura pittorica e di efficacia nella rappresentazione delle punte metalliche (che non si vedrebbero se poste correttamente verso il fondo della faretra, sebbene però così non si vedrebbe – come infatti non si vede - il loro presumibilmente ben più colorito impennaggio), giacché nel secondo dei dipinti citati, e cioè in quell’Amore vincitore del 1602 ca. che costituiva – com’è universalmente noto – il vanto della collezione del marchese Vincenzo Giustiniani, Caravaggio rappresenta di nuovo e con grande efficacia due frecce con le loro punte metalliche ben in evidenza (fig. 7), nonostante che in questo caso non si veda la faretra dalla quale le due frecce sarebbero state estratte (a meno che essa non sia un’ombra, attualmente non meglio distinguibile, sul fondo del dipinto, dietro il sederino del Cupido): il particolare delle punte metalliche nel Concerto non può dunque essere considerato come un singolare unicum all’interno dell’opera caravaggesca.
§ 2. Come difatti, se vogliamo approfondire l’interrogativo legato alla incongruenza specifica delle frecce che fuoriescono dalla faretra dalla parte delle punte invece che dalla parte dell’impennaggio, dovremo in aggiunta notare che la medesima incongruenza si può riscontrare nel terzo dei dipinti sopra richiamati, e cioè in quell’Amore dormiente ritenuto autografo nella versione oggi a Firenze (e copia in quella oggi ad Indianapolis). Prescindo qui da ogni discussione relativa all’autografia di questo Amore dormiente, accolta dagli studiosi in misura pressoché unanime ancorché sopravvivano alcuni non secondarî interrogativi: peraltro le due versioni sembrano essere identiche, tranne che per un particolare delle frecce nella faretra, come in seguito indicherò.
E dunque, in entrambe le redazioni il Cupido dorme con la testa appoggiata esattamente sulla sua faretra, dalla quale fuoriescono anche qui con ogni evidenza le frecce, ma anche qui non già dalla parte dell’impennaggio bensì, di nuovo, dalla parte delle punte: ché anzi, come si può vedere dal particolare relativo alla redazione autografa di Firenze, non esiste alcuna possibile giustificazione per un ipotetico brano virtuosistico relativo alle punte delle frecce, dato che invece, con ogni evidenza, qui le punte metalliche non compaiono affatto (fig. 8).
Ad osservare bene il dettaglio, infatti, le punte delle numerose frecce presenti nella faretra appaiono tutte con la cuspide appiattita (blunt, in termini moderni). Questo particolare della posizione delle frecce con la punta verso l’esterno della faretra è stato genericamente già rilevato da Keith Sciberras nel catalogo della mostra Caravaggio e l’Europa, Milano 2005, p. 166, senza tuttavia che esso sia stato messo in relazione con il Concerto, ovvero si sia notato il particolare delle aste delle frecce prive della parte terminale metallica appuntita, ovvero ancora se ne sia tentata una qualche spiegazione.
In realtà, la forma di tali cuspidi a tronco di cono (nel dipinto, di colore più scuro rispetto al resto del legno della freccia) aveva in età medioevale e moderna una motivazione ed uno scopo precisi. Tale tipo di freccia - con la parte terminale non appuntita, ed invece indurita sul fuoco e perciò più scura (anche se poi col tempo forse la tecnologia potrebbe averle trasformate in terminali metallici, ma comunque senza la parte appuntita) - serviva infatti quando si voleva uccidere un animale o un volatile senza rovinarne la pelliccia ovvero il piumaggio: in tal caso, la freccia veniva privata della sua parte appuntita in ferro (che avrebbe lacerato la pelliccia dell’animale o il piumaggio del volatile), in modo da determinare la morte dell’animale, per così dire, per trauma interno provocato dall’impatto su un organo vitale della punta lignea ed appiattita della freccia, privata giustappunto della parte terminale, metallica ed appuntita.
Non è possibile rilevare con certezza, ricorrendo alle sole foto reperibili dell’altro dipinto ora ad Indianapolis (detto anche Amore dormiente Murtola), se anche in tale copia le cuspidi delle frecce siano state rappresentate nello stesso identico modo che troviamo nella redazione oggi a Firenze. La riproduzione presente nel Caravaggio«pictor praestantissimus» del Marini (ed. 2005, p. 155), come del resto quella da me reperita (fig. 9), non consente di rilevare vistose differenze, tranne che per la seconda freccia da destra, sulla punta della quale sembrerebbe di poter identificare (fig. 10) riflessi metallici per una cuspide che, però, non pare a punta ed anzi appare piuttosto incongruamente arrotondata o globulare (a meno che non sia una qualche guarnizione metallica relativa alla faretra, e così registrata nel dipinto nella prospettiva che vediamo).
Ma è chiaro che di otto o nove frecce (quante, cioè, sono nella faretra della copia di Indianapolis) solo una recherebbe una cuspide metallica, peraltro dal formato difficilmente identificabile ma non (come pare) a punta: il che è un po’ poco per poter sostenere che le altre sette od otto frecce abbiano altrettante punte metalliche, che infatti non si vedono per nulla.
Come che sia, resta però il fatto che in entrambi i casi fin qui citati (e cioè: nel Concerto come nell’Amore dormiente) il Caravaggio abbia rappresentato le frecce nelle faretre in una posizione esattamente inversa rispetto a quella che esse avrebbero dovuto avere, e tale fatto non può essere ancora una volta casuale.
In realtà, Caravaggio non doveva conoscere molto della tecnica del tiro con l’arco, per il quale di necessità le frecce devono essere posizionate con la punta (appuntita o non) verso il fondo della faretra, e con l’impennaggio e la cocca verso l’esterno, giustappunto per consentire all’arciere – come si è detto - di estrarre dalla faretra alle sue spalle la freccia e di incoccarla così sulla corda. Resta, evidentemente, in sospeso per ora l’interrogativo del perché mai Caravaggio abbia voluto rappresentare le frecce del Cupido che dorme come tutte prive di punta, tanto più perché egli non aveva avuto alcuna difficoltà, anni prima – come si è notato - a rappresentare in modo estremamente efficace le punte metalliche sporgenti dalla faretra del Cupido nel Concerto, o quelle due, ancora più definite nella loro interezza, dell’Amore vincitore.
§ 3. L’esame del particolare di codesti ultimi due dipinti (e della copia “Murtola”) assume ancor maggiore importanza ove essi vengano confrontati con il quarto dei dipinti all’inizio richiamati, e cioè con quel Martirio di S. Orsola oggi a Napoli, nel quale è rappresentato sulla sinistra il re unno che ha appena scoccato la freccia contro la principessa, mentre a destra è rappresentata la santa martire che ha appena ricevuto la freccia mortale nel petto, dal quale stillano infatti fiotti di sangue (fig. 11).
Anche per quest’opera è stato notato, in occasione del restauro (L’ultimo Caravaggio. Il Martirio di Sant’Orsola restaurato, Milano 2004, p. 102), da una parte che l’arco retto dalla sinistra del tiranno sembra essere «mongolo» – ma forse potrebbe essere anche un arco «turco», dato che quelli mongoli avevano per lo più i due flettenti disuguali - e dall’altra parte che la freccia che ha colpito la martire non sarebbe priva nel dipinto della parte terminale con l’impennaggio, essendo essa in realtà (come si è sostenuto) una freccia corta di balestra: sebbene non si sia però, sul punto, segnalata l’evidente incongruenza del fatto che una corta freccia di balestra non potrebbe essere stata scoccata da un arco, che prevede invece frecce ben più lunghe.
E tuttavia, l’incongruenza maggiore del dipinto, sotto questo preciso rispetto, è un’altra: ed infatti l’arco non potrebbe essere tenuto in quella precisa posizione dalla mano sinistra del re unno che ha scoccato la freccia (fig. 12), dato che, immediatamente prima dello scocco, l’arco non può che essere in posizione quasi verticale (trattandosi di distanza presumibilmente ravvicinata), mentre invece immediatamente dopo lo scocco – che è l’attimo fermato dall’autore del dipinto sulla tela – la parte alta dell’arco (flettente e nocca) dovrebbe tendere nella scena non già verso il tiranno, bensì verso la martire già colpita dal dardo, dove spingono cioè sia la forza residua della corda dopo lo scocco, sia la dinamica del braccio che regge l’arco medesimo. Detto in altre parole, la posizione dell’arco nel Martirio risulta erronea, né resta convincente invocare al proposito il personaggio che «tenta con la destra di spostare l’arco per impedire alla freccia di colpire» (L’ultimo Caravaggio cit., ibidem), in quanto, con ogni evidenza, la misteriosa mano emersa dopo il restauro (fig. 13) resta nel dipinto più avanzata rispetto al flettente inferiore dell’arco, che dunque non potrebbe essere spostato da quella mano.
Un utile confronto in tal senso può essere fatto con un dipinto di pochi anni successivo a quello caravaggesco, ma relativo al medesimo tema agiografico del martirio della principessa brettone, e forse derivato dal Merisi. Come infatti Bernardo Strozzi nel suo Martirio di S. Orsola del 1615ca. (ora a Milano, coll. Köllliker, fig. 14), rappresenta anch’egli il tiranno in posizione ravvicinata alla martire nel preciso momento successivo al lancio della freccia mortale: ma lo Strozzi rappresenta qui l’arco nella mano sinistra del tiranno in posizione rivolta, correttamente, verso il basso (come deve essere) ed in particolare con la parte alta dell’arco più discosta dall’unno rispetto a quella inferiore (e non già innaturalmente rivolta verso l’alto e con la punta superiore più vicina al petto del personaggio, come troviamo invece nel Martirio del Caravaggio).
Viceversa, le dita della mano destra che ha già scoccato il dardo – e che dunque non regge più (come è stato scritto erroneamente di recente) la corda dell’arco, che infatti non è più in tensione - risultano in Caravaggio, più correttamente, unite e compatte l’una con l’altra, mentre invece nel dipinto dello Strozzi l’indice destro risulta in posizione accentuatamente distinta, non come avviene per chi ha appena scoccato una freccia, bensì quasi per un suonatore di arpa. Ciò tuttavia non modifica il fatto che la posizione dell’arco come rappresentata da Caravaggio risulta scorretta sotto il profilo fisico e balistico: che è la considerazione che qui più a noi interessa.
§ 4. Ma sull’elemento specifico dell’arco va aggiunto un ulteriore confronto con l’altro capolavoro del Caravaggio che prima si è già citato, e cioè con l’Amore vincitore della collezione Giustiniani. Ed infatti a tal proposito è da notare come Caravaggio avesse già rappresentato in questa precedente opera, e cioè otto anni prima della Sant’Orsola, un arco di fattura simile (ma non identica), sebbene esso resti scarsamente distinguibile nelle riproduzioni fotografiche attualmente correnti (fig. 15), e sebbene esso non sia necessariamente da ricondurre (come pensano Posèq ed altri) all’Eros che incorda l’arco (aiutandosi col ginocchio destro, cosa che non fa l’Amore caravaggesco), copia da Lisippo ed oggi ai Musei Capitolini di Roma (fig. 16): e basterebbe per questo richiamare, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, l’arciere che incorda l’arco (anch’egli aiutandosi col ginocchio destro) ai piedi della vittima nel Martirio di S. Sebastiano, affresco del Perugino nella chiesa di S. Sebastiano a Panicale del 1505 (fig. 17).
È in ogni caso da notare come il Cupido dell’Amore vincitore regga quell’arco in modo assolutamente inusuale, ed anche innaturale, dato che egli lo stringe solo con il pugno della mano destra, insieme con le due frecce, tenendolo cioè per la nocca, vale a dire solo per una parte terminale dell’arco medesimo, quasi come una leva mentre si sta alzando: senonché, tale arco non risulta incordato (e cioè, con la corda già innestata nella nocca), tanto è vero che nel dipinto si vede nettamente tale corda fluttuare liberamente nello spazio sottostante alla mano del Cupido e sovrastante al liuto (fig. 18). E dunque, lo stato dell’arco dovrebbe essere quello che gli specialisti definiscono come “allentato”, che però non dovrebbe corrispondere alla forma riprodotta nel dipinto: in fondo, già l’Odissea ci ricorda che un «arco ricurvo» (Od. XXI, 362) doveva poi essere ulteriormente piegato per essere armato (cosa che non riuscì ai Proci, e che costò loro la vita).
Ma c’è di più. Questo arco dell’Amore vincitore – che apparentemente sembrerebbe equivalente per la forma all’arco successivamente rappresentato nel Martirio di S. Orsola – in realtà si differenzia dal secondo. Come si può verificare (cito da Le Scienze n. 276 del 1991, p. 68), nell’Amore vincitore si tratta infatti di un arco «scita» a quattro curvature (fig. 19, lett. d), mentre invece nella S. Orsola si tratta di un arco «turco» del XVII secolo (fig. 19, lett. e) che non presenta le altre due curvature vicino all’impugnatura. E tuttavia l’uno e l’altro tipo di arco rientrano nella categoria dei cosiddetti “archi riflessi” o, come qualche specialista giustamente propone, “archi retroflessi”, dei quali diversi esemplari possono vedersi, ad esempio, nella collezione di armi del Museo Correr in Venezia, ovvero nel Topkapi di Istambul.
Orbene, quando l’arco «mongolo» ovvero quello «scita» (come, del resto, quello «turco») non è incordato, i due flettenti (e cioè le parti che vanno dall’impugnatura alla nocca) si ripiegano in avanti allontanandosi dal petto dell’arciere (fino ad assumere addirittura la tipica forma a “C”), e vengono poi tirati ed incurvati all’indietro, verso il petto dell’arciere, nel momento in cui devono essere incordati, per dare così maggior energia alla freccia. Pertanto, Caravaggio ha rappresentato nel 1602 un arco allentato (e cioè: con la corda sciolta) nella posizione in cui invece l’arco sta soltanto quando è incordato, e cioè “retroflesso” (in quanto la corda è stata in tal caso già innestata nella nocca), come appare invece nella Sant’Orsola (ancorché l’arco sia qui di tipo «turco», e non di tipo «scita»), quando il re unno ha appena scoccato la freccia (il che obbliga a supporre che l’arco sia ovviamente incordato).
È evidente dunque come Caravaggio, non facendo alcuna distinzione tra arco allentato (dell’Amore vincitore) e arco incordato (della Sant’Orsola) non fosse in realtà al corrente delle dinamiche e della balistica connesse con l’uso dell’arco.
§ 5. Se allora, in conclusione, ribadiamo 1) che Caravaggio non era a conoscenza della posizione corretta che le frecce devono avere quando sono riposte nella faretra; 2) che egli non faceva alcuna distinzione tra arco allentato ed arco incordato; 3) che egli non era a conoscenza della dinamica dell’arco successiva allo scocco della freccia dalla corda; ed infine 4) che non poteva combinare in alcun modo una freccia di balestra (se tale è nella S. Orsola) con un arco, trattandosi di due armi del tutto diverse: ebbene allora risulta lecito ipotizzare che Michelangelo Merisi non deve aver avuto nella sua breve vita alcuna occasione reale di usare o di conoscere l’uso dell’arco e delle frecce. Ma, nonostante questo, egli non omette di rappresentare, nell’Amore dormiente (come già nell’Amore vincitore sopra citato), la corda dell’arco allentata (e non già «spezzata», come qualche studioso si è inventato): sicché sarebbe ben opportuno porre qui anche l’interrogativo – cui per ora non si può dare risposta – del perché mai in entrambi i dipinti nei quali è rappresentato un Cupido (l’Amore vincitore e poi l’Amore dormiente), Caravaggio rappresenti la corda dell’arco come allentata.
Tutto questo, naturalmente, non menoma né riduce né scalfisce in nulla la grandezza geniale dei capolavori caravaggeschi: e tuttavia, l’importanza – a mio avviso – di precisazioni del genere non risiede tanto nel fatto in sé, tutto sommato secondario o, al limite, banale; essa risiede invece nel fatto che, sotto il profilo metodologico, osservazioni apparentemente secondarie possono concorrere a spiegare diverse cosiddette «incongruenze» o «sviste» che molto spesso vengono acriticamente usate come postulati per teoremi esegetici senza che si sia avuto l’accortezza di approfondire la genesi, le ragioni, la portata e le conseguenze di tali «incongruenze», o «sviste».
Se Caravaggio sapesse, ovvero non sapesse, tirar d’arco può essere e restare, tutto sommato, un interrogativo privo di spessore in ordine alla comprensione delle opere del genio lombardo; ma quando poi da codeste “quisquilie” si passa a problemi concernenti l’attribuzione o meno dell’autografia per opere che o sono sub iudice, ovvero restano ricondotte senza residui dubbi alla mano del Caravaggio, allora si dovrà riconoscere che anche codeste o simili presunte “quisquilie”, una volta illustrate e chiarite, potrebbero avere un peso ed un ruolo non secondari nel processo attributivo.
Pietro Caiazza, 01/01/2015