Giovanni Cardone Dicembre 2022
Fino al 26 Febbraio 2023 si potrà ammirare al Palazzo delle Esposizioni di Roma la mostra Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini. Roma 1978 a cura di Daniela Lancioni, e un progetto espositivo promosso da Roma Culture e Azienda Speciale Palaexpo. L’esposizione fa parte del ciclo Mostre in mostra con il quale il Palazzo delle Esposizioni propone la ricostruzione di alcune tra le più significative vicende espositive che hanno caratterizzato il panorama artistico a Roma a partire dal secondo Novecento. Per questa seconda edizione viene riproposta la mostra “Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini”inaugurata alla storica Galleria dell’Oca di Roma il 15 marzo del 1978, e frutto della collaborazione tra Luisa Laureati Briganti, fondatrice della galleria, e i galleristi Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone.Da annoverare tra le pietre miliari nella storia delle esposizioni contemporanee, la mostra colpisce per l’accostamento, all’epoca del tutto inusuale, tra i lavori di Mario Merz figura di spicco dell’Arte Povera, e i principali pittori italiani del Novecento. La riproponiamo oggi proprio in virtù del fatto che questa esposizione è riuscita ad abbattere barriere stilistiche, cronologiche e persino ideologiche, facendo convivere un acclamato interprete di quelle Neoavanguardie che in nome di un rapporto autentico con il mondo avevano rinunciato alla pittura, con i più celebri tra gli artisti che il mondo lo avevano riversato nei loro quadri rendendo incandescente la pittura italiana della prima metà del XX secolo. Il connubio venne celebrato in assenza totale di attriti o di contrastanti prese di posizione. A congegnarlo furono tre galleristi, che possono considerarsi a tutti gli effetti dei curatori, e un artista, Mario Merz, eccezionalmente aperto verso gli altri. Il fil rouge che portarono alla luce con “naturalezza” è quello della storia dell’arte e della qualità delle opere, espressione matura di un processo di contaminazione tra arte concettuale e tradizione della pittura al quale concorsero più voci. Riproporre oggi questa mostra permetterà di ragionare su alcuni snodi della cultura recente, sullo sbiadire, in particolare, di alcune rigide “compartimentazioni” che segnarono gli anni Settanta e sul fenomeno definito, in maniera inadeguata, del “ritorno alla pittura”. Rispetto all’attualità, il felice e all’epoca inusuale accostamento può essere interpretato come una delle espressioni sorgive della liberatoria, quanto complessa, fluidità che segna il tempo presente. In una mia ricerca storica e storiografica sulle avanguardie e le neoavanguardie apro il mio saggio dicendo : L'avanguardia sembra essere intorno a noi. Continuamente nella quotidianità ricorrono espressioni come “strumento all'avanguardia”, “tecnologia all'avanguardia”, “pura avanguardia”, usati per identificare qualcosa di innovativo, in grado di rompere con la tradizione e di anticipare idee e metodologie che avranno uno sviluppo futuro.

Ma cosa si vuole veramente rappresentare con queste formule? Quanto di esse oggi fa riferimento al significato originario del termine “avanguardia” e quanto invece si collega a un concetto ormai inflazionato e persino quasi stereotipato di uno dei fenomeni più importanti della cultura moderna? Ci si è mai fermati a considerare l'eventualità che in realtà si tratti solamente di un'entità astratta? Il concetto di avanguardia è emerso come fenomeno nuovo che diversifica il XX secolo dagli altri periodi della storia e della cultura. I primi trent'anni del Novecento hanno visto la nascita dei movimenti artistici definiti “avanguardie storiche”, ovvero gruppi di artisti e letterati che hanno elaborato una poetica comune del loro operare artistico. Dato il carattere progressivo e spesso provocatorio delle opere prodotte da queste correnti, il termine “avanguardia” ha rappresentato nel sentire comune un qualcosa di ardito, rivoluzionario e innovativo dal punto di vista dello stile e della tecnica, che rompeva gli schemi della tradizione consolidata e dell'accademismo.
La nozione di avanguardia si è sviluppata a partire dagli anni Venti dell'Ottocento, grazie ad un gruppo di utopisti vicini al teorico politico francese Claude-Henri de Saint-Simon (1760–1825), che la identificarono come una proiezione ideale sul piano artistico degli obiettivi dell'umanità. Dalla Francia l'espressione si diffuse ben presto in tutto il panorama culturale europeo: le idee dei cosiddetti “movimenti d'avanguardia” divennero uno degli emblemi più significativi dell'estetica della modernità. Storicamente vi è stata una netta prevalenza nell'utilizzo di questo termine nel campo delle arti visive e della letteratura: sono numerosi infatti i riferimenti che accompagnano il ricorrere a questa espressione nella critica scritta e orale, rinviando al significato simbolico dell'immagine in esso contenuta. “Avanguardia” è tuttora utilizzato come parola-contenitore per una serie di fattori quali innovazione, esplorazione, estremizzazione degli atteggiamenti, rottura, antagonismo, rifiuto e anticipazione dei gusti e delle conoscenze, tutte caratteristiche sviluppatesi nel corso del Novecento ma derivanti in realtà da tendenze politico-culturali ottocentesche. La diffusione del concetto fu così ampia che apparve subito chiaro come esso potesse perdere la propria portata iniziale, acquisendo invece numerose implicazioni critiche. Attualmente va riconosciuto che il suo utilizzo è abusato da critici, giornalisti e soprattutto artisti, con il conseguente rischio di tramutarlo sempre più un concetto astratto e inflazionato. Parlando di avanguardia si intende in genere un movimento artistico o letterario che nasce dall'attività di un gruppo di persone e che ricerca in modo programmatico (ovvero tramite manifesti, dichiarazioni teoriche, riviste, conferenze o iniziative anche clamorose e provocatorie) nuove forme espressive, in contrasto con i modelli estetici tradizionalmente riconosciuti. Più comunemente con questa definizione si fa riferimento ai movimenti artistici e letterari di fine Ottocento e inizio Novecento che, dopo la crisi del Romanticismo, rinnovarono il panorama culturale dell'epoca, ponendo al centro della propria attività la sperimentazione, con lo scopo di staccarsi dalla tradizione accademica, considerata ormai anacronistica e obsoleta. Nel XX secolo vi è stato un vivace susseguirsi di fenomeni artistici, differenti ma pur sempre correlati fra loro, che proponevano nuove forme espressive in sintonia con il continuo (e soprattutto rapido) mutare dei tempi. Le varie avanguardie hanno ognuna riletto a proprio modo, con varie accentuazioni e livelli di priorità, le funzioni, i compiti e le strategie di una pratica artistica innovativa ed oppositiva. Come ricorda Mario De Micheli, «i movimenti avanguardistici rappresentano nella cultura contemporanea un taglio drammatico, una rottura che segna il destino di tutta la civiltà artistico-letteraria del Novecento». La nozione di avanguardia sottintende una visione progressista della storia, dell'umanità e della stessa arte, che si evolverà in rotture successive tramite scontri e rivoluzioni. Gli autori di questa generazione volevano cambiare il presente e le loro battaglie culturali diedero una nuova impronta a tutta l'arte e letteratura del secolo. Con le avanguardie vennero messi in discussione non solo il valore, ma addirittura il concetto stesso di arte: quest'ultima deve sì riuscire a sconvolgere e a scuotere gli animi con le proprie opere, ma la funzione dell'artista e del letterato diventerà anche quella di sapersi costruire una vita “esteticamente soddisfacente”, dominata dall'arte nella sua totalità. Per realizzare ciò le avanguardie storiche fecero dello sperimentalismo il loro orientamento metodologico: esse erano composte da gruppi eterogenei di persone a volte anche in aperta polemica tra loro, ma dal confronto e dal contrasto si poteva generare una notevole spinta creativa. Vi potevano essere divergenze anche all'interno degli stessi movimenti (celebre è ad esempio la querelle tra Breton e Dalí per motivi economici), ma gli autori sceglievano di operare in gruppo per abbattere ogni barriera esistente fra le varie forme d'arte.

Ecco quindi che dopo anni di chiusura dell'arte e della letteratura in un mondo autonomo e quasi impenetrabile come reazione al rifiuto borghese verso ciò che non veniva considerato utile, l'avanguardia puntava a smitizzare la sacralità delle arti, cercando di porle in diretto contatto con la realtà. Essa divenne un fattore unitario e globale: vennero definiti autori d'avanguardia tutti quegli artisti, scrittori, compositori, pensatori il cui lavoro non solo si poneva in opposizione ai comuni canali di commercializzazione culturale, ma che spesso conteneva anche uno spessore sociale o politico. Il loro atteggiamento estremista e provocatorio rigettava la tradizione e tutto ciò che la rappresentava: si iniziarono a mettere in discussione i modelli accademici, rifiutando i canoni e i generi convenzionali, e prefiggendosi invece di ricercare nuove vie espressive e nuovi soggetti estetici. L'avanguardia mise in discussione l'estetica fin dal suo esordio: la sua sarà un'estetica del disturbo, che sollecita lo stimolo interpretativo e che vede frammentato il proprio fascino in favore di un sconvolgimento del pubblico. Vengono rovesciate le aspettative del gusto borghese, si sconvolge lo spettatore e ci si concentra particolarmente sia sul momento della ricezione dell'opera che sul messaggio che questa intende veicolare. I movimenti d'avanguardia diventano espressione della crisi della società borghese, i cui valori sono ormai intaccati nella loro storica assolutezza e le cui certezze progressiste sono messe continuamente in discussione. Le avanguardie hanno sempre puntato al rinnovamento del linguaggio artistico e letterario, promuovendo una trasformazione radicale dei principi etici e conoscitivi accettati e difesi da quella che era considerata la cultura ufficiale detentrice dei valori “sani”. “Épater le bourgeois” diventa la regola: gli autori d'avanguardia vogliono scardinare i codici culturali correnti, il gusto ormai consolidato e i mezzi espressivi abituali, per favorire piuttosto un’evoluzione sul piano formale e su quello ideologico, puntando a un cambiamento globale di forma e tecnica. Al concetto di avanguardia è spesso associata una simbologia particolare: oltre alla volontà di innovazione, esso implica anche l'idea di lotta, di combattimento, di rivoluzione, ma soprattutto di azione collettiva, perpetrata da un gruppo che si scontra con il pensiero convenzionale. L'avanguardia è sempre ideologica in modo dichiarato, perché opera sulla materia secondo una visione della realtà e delle cose che viene fornita a priori come guida e metodologia da seguire. La sua natura è estetico-politica, rifiuta di essere collocata in un ambito separato e specializzato dell'arte, preferendo la realtà nel suo insieme e operando attivamente per trasformarla. Le avanguardie agiscono dal “particolare” al “generale”: sembrano interessarsi esclusivamente a una parte, ma in verità la utilizzano come chiave per la ristrutturazione del tutto. Con l'avanguardia l'antiestetico assume una funzione anticipatrice nei confronti del moderno nella sua totalità; essa rappresenta la volontà di estetizzare globalmente la realtà, trasformandola in opera d'arte (o in antiarte) totale, imprimendo un improvviso e radicale cambio di direzione in campo estetico e sociale. Come scrisse il pittore Wyndham Lewis «It [the avant-garde] was more than just picture-making: one was manufacturing fresh eyes for the people, and fresh souls to go with the eyes. That was the feeling». Per gli artisti e i letterati diventa necessario fornire una nuova visione della realtà, fondare una nuova epistemologia e creare un programma totalizzante che unisca sperimentazione artistica e critica ideologica della società borghese, estremismo formale e coscienza politica, affinché la pratica artistica assuma allo stesso tempo un profondo significato sociale, culturale e politico. Gli anni che seguirono la seconda guerra mondiale furono caratterizzati in campo artistico da un generale senso di sfiducia nei confronti di una civiltà che aveva procurato così tanta morte e distruzione. La crisi del rapporto tra arte e società, già avvertita dalle avanguardie, riesplose insieme al malessere sociale, provocando il disorientamento della classe intellettuale: gli artisti non sentivano più la necessità di trasmettere qualcosa alle generazioni future, non credevano più nei valori della società del tempo e capirono di dover iniziare a definire un nuovo concetto di modernità. Nacque in loro la volontà di cambiare, di sperimentare modi sempre nuovi di espressione, di mettere in discussione tutto ciò che appariva consolidato e accettato dalla massa, in un generale atteggiamento di rottura con i percorsi tradizionali dell'arte. Si aprì la via a una pluralità di ricerche: le avanguardie storiche avevano già posto il problema dell'astrazione e l'esperienza informale europea aveva iniziato a risolvere la questione della rappresentazione della realtà, ma ora si ricercava un rapporto nuovo tra l'artista, i materiali con cui lavora, il gesto creativo e l'opera. La crisi della razionalità moderna, in cui regnava il caos, venne rappresentata da un'arte vissuta come esperienza; l'opera non nasce da un progetto stabilito a priori, ma da un processo di improvvisazione realizzato per prove ed errori. Gli artisti si trovarono nuovamente di fronte alle dinamiche del mondo in cui vivevano: iniziarono a interrogarsi sia sulle problematiche più generali dell'uomo che sui postulati fondamentali dell'arte.

L'opera non venne più semplicemente collocata nello spazio, ma ne divenne un elemento qualificante mentre continuava l'interesse per l'abbattimento dei limiti fisici dell'opera, che spesso sfociava in episodi nuovi come l'happening e la performance. Il superamento delle avanguardie artistiche della prima metà del Novecento avvenne con la creazione di un nuovo linguaggio che progressivamente si allontanò dalla figuratività tradizionale; l'interesse fu sempre più rivolto agli elementi della pittura piuttosto che al soggetto, e la forma e le tecniche assunsero un ruolo determinante. L'evento decisivo che trasformò le avanguardie in quello che ancora oggi rappresentano simbolicamente fu paradossalmente la loro dissoluzione a causa della crisi europea emersa durante la seconda guerra mondiale. Costretti all'esilio, gli artisti europei (principalmente espressionisti e surrealisti) formarono una sorta di comunità bohème negli Stati Uniti, che da quel momento rappresenteranno il nuovo baricentro mondiale dell'arte. Il processo di revisione delle istanze artistiche della prima metà del secolo venne ben accolto dai giovani artisti emergenti locali, in ribellione dal realismo sociale imperante; essi iniziarono a mettere in discussione il portato storico delle avanguardie attraverso la sperimentazione di mezzi e tecniche nuovi, rivolgendo la propria attenzione verso la pittura di superficie e recuperando la lezione di Astrattismo, Surrealismo e Dada. Tra l'artista e la tela si instaurava un rapporto emotivo, dato che essa funge da cassa di risonanza per le problematiche esistenziali: i quadri, fattisi di dimensioni sempre maggiori, privati di ogni illusione di profondità e prospettiva, diventano i luoghi dove scaricare la potenzialità del gesto, del segno e del colore. Questo tipo di pittura, che richiedeva un forte impegno gestuale da parte dell'artista, venne definita dal critico statunitense Harnold Rosenberg “Action Painting” (pittura d'azione). Più genericamente, la produzione artistica di quegli anni è stata classificata come “Espressionismo Astratto”, etichetta che comprende tutti quegli artisti che operarono a New York nell'immediato dopoguerra, con caratteristiche che rimandano sia all'intensità emotiva degli espressionisti tedeschi che all'estetica anti-figurativa di Futurismo e Cubismo, con l'aggiunta di una componente di anarchica e idiosincratica ribellione. Franz Kline, Willem De Kooning, Arshile Gorky, Robert Motherwell, William Congdon, Mark Rothko e Jackson Pollock rappresentarono la continuazione (con qualche adattamento) delle avanguardie storiche europee in suolo statunitense. Gran parte dell'arte della seconda metà del Novecento sarà all'insegna di Duchamp: New Dada e Nouveau Réalisme raccolsero e svilupparono l'eredità dell'assemblaggio fortuito di materiali nati in ambito extra artistico, eliminando la bidimensionalità del quadro a favore del suo coinvolgimento spaziale. Vennero negati i concetti tradizionali dell'estetica, la tecnica venne abbandonata e fu decretata la supremazia del gesto. Gli artisti cercarono di porre fine all'estraniamento della cultura di massa a cui era giunta la pittura astratta; provocazioni e giochi mentali obbligavano lo spettatore a riflettere sulla realtà e sulle proprie aspettative artistiche. Secondo Jackson Pollock , autore dei dripping la tecnica basata sullo sgocciolamento di pittura sulla tela e primo artista in grado di esprimere con un linguaggio nuovo tutte le contraddizioni della società capitalista avviata a trasformarsi in società dei consumi, il quadro era il risultato di un evento, sempre più legato alla vita privata dell'artista, sintomo di un'equivalenza tra arte e vita. «La tecnica è solo un modo per arrivare a un'idea». Da questo momento in poi le opere vennero generate dall'incontro di varie discipline: musica, danza, cinema e fotografia abbattevano i confini dei propri linguaggi, anche coinvolgendo direttamente il pubblico nella realizzazione dell'opera. Nel 1961 avvenne il primo happening della storia dell'arte, “Yard”, organizzato da Kaprow alla Reuben Gallery di New York: l'autore si ispirava alla vita quotidiana e gli spettatori furono chiamati a partecipare attivamente alla realizzazione dell'opera, diventandone i veri protagonisti. La caratteristica principale divenne l'eliminazione del pubblico in quanto tale, separato dall'opera e dall'artista, a favore di una sua totale integrazione nel
sistema. Lo scopo era quello di ricondurre l'arte nel flusso della vita e proprio il termine latino “fluxus” verrà utilizzato per identificare la neonata corrente artistica che cercava di togliere l'arte dai supporti fisici come cavalletto e cornice, per reinserirla nel quotidiano. Gli happening e le performance riuscirono a teatralizzare la produzione e la fruizione dell'arte, portandola fuori dagli spazi canonici, nelle strade, in mezzo alla natura. Il corpo e l'azione dell'artista divennero parte integrante dell'opera e «i linguaggi delle arti si mescolarono nella dimensione performativa». In questo modo non vi sarà più un modo univoco di guardare l'opera, bensì una pluralità di sguardi potenzialmente infinita.

Attraverso l'eliminazione dei limiti spazio-temporali tra artista, opera d'arte e spettatori avvenne il passaggio dall'epoca moderna a quella contemporanea: l'osservatore sarà sempre più coinvolto nell'opera che ha di fronte a sé e il suo giudizio non sarà più quello di un attore esterno, ma di un partecipante all'opera stessa. Mentre Espressionismo Astratto e Informale europeo dilagavano, generando una ripetizione di generi e stili, a partire dagli anni Sessanta iniziarono a nascere i movimenti che gli si contrapponevano. Le nuove correnti tendevano a recuperare le diverse eredità delle avanguardie storiche, portandone però a uno stadio più analitico e radicale le tecniche e le premesse. Si iniziò a giocare sull'ambiguità tra il modello e la sua interpretazione, scegliendo tecniche meccaniche di riproduzione atte a rendere l'immagine il più oggettiva possibile. Le case del tempo si riempirono di oggetti nuovi come frigoriferi, lavatrici, aspirapolvere, cibi in scatola e bevande confezionate, i nuovi status symbol dell'era moderna. Gli aspetti produttivi della società dei consumi divennero gli elementi iconografici delle opere d'arte, capaci di agire sull'inconscio collettivo: con l'avvento della Pop Art l'immagine pubblicitaria proporrà in modo ripetitivo una figurazione semplice, desunta dal quotidiano e dai mezzi di comunicazione di massa (fumetti, rotocalchi, televisione). Servendosi di tecniche dell'industria e della produzione commerciale, come la stampa serigrafica, la fotografia e la grafica pubblicitaria, gli artisti pop svilupparono una visione cinica e ironica della società, quasi una presa d'atto dell'omologazione tra consumi e realtà. Le loro opere non volevano esprimere giudizi o dare ammonimenti, ma soltanto essere testimoni del proprio tempo, diversamente dall'atteggiamento impegnato degli happening. La Pop Art si proponeva come il primo movimento artistico che prendeva in considerazione la rivoluzione dei media, ma senza condannarla, anzi utilizzandola a proprio vantaggio. Esplorando il gusto popolare e il kitsch, spesso venivano rappresentati dei personaggi culto, come i divi del cinema, i cantanti e i politici. Nessuno meglio di Andy Warhol rappresentò lo spirito del tempo; fu il più grande esponente di questa corrente, in grado di mettere in risalto l'aspetto decadente e devitalizzato della realtà tramite un mezzo oggettivante come la fotografia. Sarà nella sua opera che emergeranno le implicazioni dell'arte d'avanguardia con la cultura di massa e della dimensione simbolica della società con quella economica il consumismo venne esorcizzato attraverso la ripetizione seriale delle immagini e la trasformazione cromatica della serigrafia. Warhol era amante della vita mondana, si interessava ai giornali e alle star del cinema, che considerava delle vere e proprie immagini viventi; gli premeva esplorare come il mondo della comunicazione si trasformasse intorno a lui, senza però mai prendere una distanza critica o una posizione etica. Partendo dalla banalità, dipingeva la quotidianità e ciò che diventava oggetto di adorazione collettiva, togliendo ai volti dei divi ogni segno del tempo e tramutandoli in icone eterne. Gli anni Sessanta e Settanta furono anche e soprattutto l'epoca delle lotte sociali e delle contestazioni politiche, che ovviamente ebbero delle ripercussioni sull'ambiente culturale del tempo. L'arte si fece portavoce della lotta politica, rifiutando le convenzioni estetiche borghesi e il formalismo che caratterizzava il modernismo: dal movimento Internazionale situazionista nato nel 1958 e dall'Arte concettuale, si ebbero le prime risposte alla crisi sociale. La protesta si rivolse alla mercificazione dell'arte: si diffusero le performance, eventi unici e irripetibili dove i protagonisti erano gli artisti e il pubblico presente, e dove l'azione era totalmente incentrata sul corpo umano. Nacque la Body Art, le cui espressioni più provocatorie e scandalose furono quelle dell'Aktionismus viennese: impegnati a scandalizzare il pubblico e ad eliminare i tabù della società, gli esponenti del gruppo oltre che infrangere le regole dell'arte, violavano quelle civiche, venendo spesso arrestati per atti osceni in luogo pubblico a causa delle loro azioni blasfeme e provocatorie, al confine tra sado-masochismo e autolesionismo. In questi anni l'artista cercava di riaffermare un vero e proprio rapporto con lo spettatore: l'arte degli anni Sessanta ebbe una flessione ideologica, si voleva ridefinire l'idea di arte e di artisticità in un'atmosfera di continuo cambiamento e sperimentalismo. L'enorme successo di Espressionismo Astratto e Pop Art favorì la nascita di tendenze contrapposte, che sì riprendevano caratteristiche pop come la serialità e la mancanza di soggettivismo, ma che criticavano invece il suo aspetto commerciale e consumista; poiché queste nuove correnti sviluppavano l'eredità delle avanguardie storiche, vennero spesso definite “neoavanguardie”. In esse l'attenzione non era tanto verso l'opera come risultato finito, ma verso l'analisi del metodo, dell'idea e dell'atteggiamento mentale e fisico del suo processo di realizzazione; il dissenso ideologico si trasformò in aperta protesta contro il sistema commerciale e contro la riduzione delle opere a semplice merce. Le opere rifuggivano sia i luoghi tipici dell'arte come musei e gallerie, sia gli allestimenti e i materiali tradizionali. L'allargamento delle tecniche portò alla contaminazione con altri ambiti creativi: la qualità artistica dell'opera non era più legata alla manualità, ma all'inventiva e al messaggio dell'artista. Sconfinando dalla nozione di opera legata ai supporti tradizionali, nacquero le esperienze dell'Arte Povera, del Minimalismo, degli Earth Works, della Land Art e della Body Art, che affermarono una nuova dimensione estetica e una dilatazione spazio-temporale dell'oggetto artistico. L'attenzione alla struttura interna dei segni, in relazione con quanto elaborato dalle avanguardie storiche, si manifestò tramite l'Arte Concettuale, la pittura analitica e, in misura diversa, l'iperrealismo. In questi anni si perseguiva l'idea di una riflessione concettuale del linguaggio; la pittura, ancora molto presente, dialogava con l'ambiente e veniva accostata ai nuovi media elettronici. Posso dire che una delle figure più importanti certamente è stato Mario Merz :Il coinvolgimento di Mario Merz nelle vicende dell’Arte Povera costituisce un fatto di grande interesse per un’indagine sui rapporti tra le tendenze microemotive e l’Informale storico: più anziano degli altri Poveristi di circa vent’anni, Merz ha infatti compiuto il suo esordio artistico proprio nell’ambito della pittura informale, da cui si è via via allontanato per sperimentare linguaggi più freddi, ambientali, ma pur sempre votati a esaltare i valori della materia. Il confronto con l’oggetto, condotto in varie opere a partire dalla metà degli anni Sessanta, non asseconda infatti le ancora vigenti logiche pop ma si orienta già in direzione di problematiche processuali: gli oggetti vengono adoperati come elementi di relazione per comporre circuiti alogici esteriorizzati e posti direttamente nello spazio concreto della percezione. “Queste forme afferma lo stesso Merz hanno una ragione necessaria in quanto esprimono la tensione emozionale tra superficie e forma proponendo un senso nuovo dello spazio”. A definire questo senso nuovo dello spazio contribuisce l’uso di tubi al neon preposti a trafiggere come lance gli oggetti adoperati a volte irradiandoli, altre alterandone i valori cromatici, facendo così emergere pieghe, rigonfiamenti e bombature. Un uso quindi plastico del neon che alleggerisce e dematerializza gli oggetti trafitti, concretizzando l’idea futurista di una brillante luce che distrugga la materialità dei corpi, riorientata ora a un’aggressione dell’oggetto, tesa ad annunciarne il tramonto ormai prossimo. La scelta di usare oggetti soffici, morbidi e adattabili, come un impermeabile o una coperta arrotolata, dichiara già una netta propensione antiform che giunge a più maturo compimento negli accumuli informi di fieno, fascine, terra e grasso sovrastati da barre al neon esposti a L’Attico nel 1969, innescando fruttuose trasmissioni energetiche tra il naturale e l’artificiale, tra il biologico e il tecnologico. Una dialettica, questa, che troverà una più sofisticata sintesi concettuale nel ricorso alla serie di Fibonacci, sistema di codifica numerica dei processi di crescita del mondo organico, che permette all’autore torinese di sondare più rarefatti territori di ricerca . La proscrizione dell’oggetto nella ricerca di Merz trova, nel 1968, una sua esplicita formulazione nell’adozione dell’imperativo “objet cache-toi” letto sui muri di Parigi nel maggio di quell’anno e trasposto in neon sull’estradosso di uno dei suoi primi Igloo. “Ho pensato di nascondere l’oggetto dentro un’idea”, ha dichiarato Merz, perché “l’idea può essere contro l’oggetto”, nella migliore prospettiva concettualista. A partire dal 1968, con il famoso Igloo di Giap, Merz mette a punto una soluzione che ripeterà negli anni in numerose varianti, ponendosi però su una linea di ricerca alternativa alle problematiche antiform. La continua e variata riproposizione dell’igloo, di questo archetipo dell’abitare umano, apre infatti nella ricerca di Merz una via di immaginosa regressione filogenetica orientata alla riscoperta di radici culturali “altre” e alla loro riedizione artistica col ricorso a elementi naturali come terra, creta, cera o concrezioni vetrose. Si tratta di costruzioni instabili e precarie: nulla è fissato, tutto è appoggiato o addossato, come nei Props (1968-69) di Richard Serra , affinché l’igloo possa essere rapidamente smantellato e abbandonato dal suo stesso costruttore, diretto verso altre mete. Ogni igloo di Merz è come una tana precaria, un “riparo momentaneo”, un tetto temporaneo che l’artista deve ricostruire di volta in volta nel suo nomadico peregrinare, nel suo “libero progettarsi”, per stabilire un contatto con l’ambiente che lo ospita. Come rileva però Giovanni Lista, “il riferimento al modello formale del rifugio a cupola delle popolazioni sottoposte al clima severo delle zone polari e l’alchimia costruttiva fra i materiali rendono l’opera una metafora della resistenza creativa di cui è capace l’uomo utilizzando solo il necessario per la propria sopravvivenza” . Spesso considerati tra i lavori più rappresentativi dell’Arte Povera, gli Igloo di Mario Merz ne assecondano le premesse ideologiche, ma ne sconfessano i presupposti poietici. La rielaborazione di un preciso referente formale, la struttura semisferica del rifugio a cupola di popolazioni come gli Inuit, blocca infatti il processo di regressione a uno stadio iconico, entro un limite che non giunge al “prelogico” o al “preiconografico”, e la collocazione di frasi e formule sull’estradosso di ciascun igloo ne potenzia il portato simbolico al punto da innescare quella “complicazione retorica” seccamente rifiutata dal diktat poverista. Il modello dell’igloo si inserisce nella poetica di Merz come un mitologema, l’elemento minimo individuabile di un dato complesso mitico che si dispone a una continua e variata reinvenzione. Si tratta infatti di una struttura formale che viene riplasmata di continuo veicolando uno stesso significato, condensando e riproponendo un medesimo messaggio. Siamo perciò di fronte a una scelta operativa che, seppure condotta secondo criteri di precarietà e temporaneità, contrasta con la viva concretezza delle ricerche processuali e microemotive, dove il divenire della materia viene messo a nudo “al di fuori di ogni mitizzazione” e quindi “al di fuori di un principio di ordine” . L’igloo merziano si caratterizza invece per la presenza di fattori mitici e immaginativi meglio rispondenti a quella rivalsa del simbolico nella ricerca concettuale che Harald Szeemann porrà sotto la definizione di “mitologie individuali” e che, come si vedrà più avanti, costituirà la definitiva crisi del riduzionismo semantico poverista. La soluzione dell’igloo veicola infatti i valori del comportamento su un piano che diremmo ancora immaginifico, entro un rapporto di pura virtualità. Quello dell’Igloo è infatti uno spazio indipendente, uno “spazio assoluto in se stesso” , come dichiara lo stesso Merz, cioè una rappresentazione del riparo e non un riparo effettivo, valevole, anche a detta di Alberto Boatto, come “metafora di igloo-trincea-resistenza” . Ha inoltre affermato lo stesso Merz: “Quando facevo l’igloo, ho agito con la forza dell’immaginazione, poiché esso non è solo elementarità della forma, bensì anche un punto di partenza per la fantasia. L’igloo è una sintesi, un’immagine complessa, poiché sottopongo a tortura l’immagine elementare, che io ho dell’igloo” .
Portatori di valori iconici e simbolici, gli Igloo di Mario Merz si configurano quindi come progressioni plastiche che fondano un proprio spazio e che veicolano valori immaginativi, ma sono lontani dal costituirsi, secondo l’indole poverista, come campi di esperienze o di relazioni attive. Le tre opere di Mario Merz esposte nel 1978 alla Galleria dell’Oca sono in mostra al Palazzo delle Esposizioni e a queste ne è stata aggiunta una che venne presentata contemporaneamente nella sede romana della galleria di Gian Enzo Sperone. Nel loro insieme questi lavori, rilevanti al punto da essere conservati oranei musei o presso importanti collezioni internazionali,rappresentano unasintesi altamente significativa dei tratti essenziali del lavoro dell’artista e dei materiali e dei temi che con maggiore frequenza appaiono nella sua opera:i neon, i numeri di Fibonacci, l’igloo, la cera, l’animale tassidermizzato, le fascine e le immagini dipinte su tele non intelaiate. Nella mostra dell’Oca, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Filippo de Pisis, Giorgio Morandi, Alberto Savinio e Gino Severinifurono tutti rappresentati con opere realizzate nell’arco dei loro anni più felicementeprolifici, alcune provenienti da leggendarie collezioni comequella di Léonce Rosenberg dalla cui collezione proviene Chevaux se cabrant di de Chirico o appartenuta importanti storici dell’arte come Vele nel porto di Carrà tutt’oggi nella Fondazione Roberto Longhi di Firenze. Al Palazzo delle Esposizioni sono esposte molte di quelle stesse opere, mentre per i dipinti di cui non è stato possibile rintracciare l’attuale collocazione si è scelto di sostituirli con altri affini per qualità e datazione. Come nella prima edizione, i criteri adottati per la ricostruzione della mostra comportano al tempo stesso un approccio filologico e un certo grado di approssimazione. Il primo sta a fondamento dell’iniziative permette di ricostruire le circostanze e l’entità della mostra originaria. L’approssimazione, invece, è quella nella quale il progetto si distende affinché la mostra attuale abbia una sua completezza e sia godibile. Nelle parole della curatrice: “si tratta, pur sempre, di un segmento di ricerca da consegnare ad altri studiosi con la speranza che lo possano completare e arricchire”. I principali documenti, provenienti dall’archivio di Luisa Laureati Briganti, su cui si è basata la ricostruzione della mostra saranno “consultabili” al Palazzo delle Esposizioni. La presenza di due tra i pittori maggiormente amati dal poeta, Filippo de Pisis e Giorgio Morandi, e il fatto che Pasolini futra coloro che resero l’Oca uno dei luoghi effervescenti della mitica stagione romana, quando straordinari artisti, scrittori, musicisti, registi, giornalisti e galleristi condividevano il proprio tempocon quotidiana assiduità, creando nei luoghi da loro abitati una qualità di vita che ebbe del prodigioso.A confermare la presenza di Pasolini all’Oca, una serie di fotografie scattate all’inaugurazione di una mostra di Gastone Novelli del 1967, anch’essi esposti in omaggio al poeta,accantoal materiale documentario relativo alla mostra. La mostra Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini. Roma 1978 si inserisce in un più ampio progetto portato avanti dall’Azienda Speciale Palaexpo, quello di studiare e valorizzare l’arte contemporaneaattraverso le mostre che si sono tenute a Roma. Rientra in questo programma il database Mostre a Roma 1970-1989 liberamente consultabile nel sito del Palazzo delle Esposizioni progressivamente implementato con la preziosa collaborazione della Fondazione la Quadriennale di Roma e con i materiali messi generosamente a disposizione da numerosi archivi privati che permette di accedere ai dati e ai materiali relativi alle mostre – allestite nelle gallerie, negli spazi pubblici o “alternativi” – che si sono tenute a Roma nel corso degli anni Settanta e Ottanta. La mostra è accompagnata da un catalogo edito dall’Azienda Speciale Palaexpo, pubblicato con un ampio apparato iconografico, con i contributi, oltre che della curatrice,di Paola Bonani e di Francesco Guzzetti e completato dalla cronologia, redatta da Giulia Lotti, sull’intera attività della Galleria dell’Oca, dall’anno della sua fondazione nel 1965 sino alla chiusura nel 2008.
Palazzo delle Esposizioni Roma
Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini. Roma 1978
dal 29 Novembre 2022 al 26 Febbraio 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alla ore 20.00
Lunedì Chiuso