Masaccio, “La Cacciata dei progenitori dall'Eden"

Cappella Brancacci. Santa Maria del Carmine. Firenze

 
 
Volendo giocare con le parole, ma anche con i concetti, si potrebbe dire, con un traslato rocambolesco  (che serve però  a   rendere al meglio l’idea)  che Masaccio sta a Masolino come Kokoschka sta a Klimt. L’equazione  sottolinea in fondo quella che è una costante nella storia dell’arte e, in particolare, della pittura: quando una tradizione artistica si fa aulica ed accademica e rinviene estenuate espressioni solo nella ripetitività degli stilemi e nel rimando stucchevole degli echi dei più grandi del passato, avviene quasi di necessità (o per miracolo?) che un artista, in maniera perlopiù inattesa, appaia sulla scena e rompa l’invariabilità  dell’incantamento.
Era già accaduto con Giotto, succede ora, nella prima metà del Quattrocento, con Masaccio; ma il fenomeno si ripeterà con i più grandi del Rinascimento: lo si vedrà con Caravaggio e, più in là, con gli impressionisti e gli stessi espressionisti.
L’arte cavalca, in altri termini, l’incedere del tempo e, con la sua capacità di preveggenza e di parafrasi dei sintomi e dei sogni d’ogni epoca, non si appaga, alla stregua di un noioso cronista, nel narrare e interpretare il campionato delle vicende umane, di forme narrative viete e scontate, ma ne elabora sempre di nuove, per testimoniare la fedeltà al proprio carisma di creatività e bellezza.
 
Ma non si deve pensare ad un contrasto insanabile tra la poetica pittorica di Masaccio e quella di Masolino: figli dello stesso tempo riassumono in pittura l’aria che spira sul crinale tra il primo rinascimento di matrice soprattutto toscana e i tratti ormai stremati del tardo gotico, ovvero del cosiddetto gotico internazionale di matrice europea. Masaccio rompe la linearità del segno dell’arte gotica, più propria si potrebbe dire dei disegnatori che dei pittori in quanto tali; così anche la purezza decorativa non trova ricetto alcuno nei suoi lavori; e, a differenza dei gotici e del loro epigono Masolino, il suo spazio pittorico è organizzato, in forma più che matura, già alla maniera del Brunelleschi, secondo sicuri piani prospettici; per non dire della figura umana: da subito drammaticamente michelangiolesca, ma costruita nella poderosa volumetria chiaroscurale della scultura donatelliana, si muove ben piantata, espressivamente vigorosa.
 
Sono questi gli elementi che compongono lo ‘spartito’ della poetica di Masaccio e che si ritrovano, in forma esemplarmente accentuata, nel suo capolavoro, ovvero nella Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre.
 
E’ raro che in una pittura il primo impatto sia di natura sonora. Qui, osservando l’affresco  , è l’”audio”, prima ancora del pur drammatico ‘video’ dell’insieme, è il grido di Eva, pari solo all' Urlo di Munch, che squarcia il silenzio del transetto di S. Maria del Carmine a Firenze. Un urlo che senti percuotersi, dall’interno della Cappella Brancacci, entro tutto l’edificio sacro. Uno strillo straziante, tipicamente femminile, di dolore e vergogna per quanto commesso e per quanto per sempre perduto. Questo pianto pauroso  s’accompagna a quello presumibilmente strozzato di Adamo, che le si muove accanto, le mani sul volto, entrambi quasi in fuga con alle spalle la porta merlata del’Eden.
 
A rendere ancora più drammatica la scena e a farla, allo sguardo di tutti, più esplicitamente evidente concorre l’angelo della giustizia divina, che, planato su una nuvola rossa, in prospettiva aerea al pari degli angeli giotteschi, con sulla destra la spada sguainata e la sinistra con l’indice puntato in direzione della fuga,  scorta i progenitori dell’umanità fino a far loro intraprendere la via del dolore e della fatica.
La luce stessa, con irriverente ingenerosità, fa  la sua parte , scoprendo nella loro pochezza due corpi che appaiono già appesantiti dal gravame della condanna appena pronunciata. È il volto di Eva, assolutamente privo di qualsivoglia pur lontana avvenenza, è il suo corpo con le intimità a malapena coperte con le mani, è il volto ottenebrato di Adamo, la sua nudità più squallida che innocente: sono queste fattezze che la luce scolpisce con un flash da paura.
 
Ma vi sono due dettagli che non possono restare taciuti.
 
La spada dell’angelo non è rivolta verso i due peccatori e, dal colmo dell’arco della porta paradisiaca s’intravvedono dei raggi di luce dorata: che cosa possono significare? A ben vedere o a voler ben dire, si può pensare ad una condanna divina non spietata: la spada della giustizia non si è abbattuta su Adamo ed Eva; e la voce di Dio, sintetizzata con quei raggi, sta accompagnando l’allontanamento definitivo dei due dal paradiso terrestre. Ma non sono forse questi i prodromi della nascita della nuova umanità? E quell’urlo di Eva non è indice per caso del travaglio di questo parto? La nuova umanità inizia il suo cammino, come si è detto,  nel dolore e nella fatica; ma è anche un’umanità concepita per un disegno escatologico. Il suo destino si compirà nel segno della misericordia del sommo Creatore, il quale non tarderà a inviare suo Figlio per la rigenerazione dal peccato originale e la salvezza degli innumeri figli di Adamo ed Eva.
 

Piero della Francesca, 
“La Madonna del Parto”

Monterchi Musei (Arezzo)

 
Mentre Colombo scruta i più lontani orizzonti oceanici e in mente gli veleggia l’idea d’una possibile circumnavigazione del globo, in Italia si scoprono le ‘nuove terre’, che,  volendo utilizzare una definizione tipicamente geografica,  potrebbero essere nominate ‘Le Terre del Rinascimento’.
I precursori, che lanciarono le loro ‘caravelle’ in avanscoperta e che, nel sentore di un ‘Nuovo Mondo’ al di qua dell’Atlantico, cominciarono a tracciare le carte della nuova sensibilità, hanno i loro bravi nomi scritti soprattutto  (ma non solo) sulle tele, sulle tavole e sugli affreschi.
 
Ad accompagnare il discorso sul florilegio delle cifre e degli stilemi di questi sublimi artisti del pennello, non guasterebbe un sottofondo musicale (magari un madrigale spirituale di Giovanni Pierluigi da Palestrina) tanta è la purezza pressoché religiosa che impregna le loro opere.
 
Alla castità e alla trasparenza della luce, nonché alla finezza eterea del sue figure, ha infatti legato il suo nome il Beato Angelico; Paolo Uccello si è accanito a scoprire le innumeri valenze dello spazio in prospettiva; Masaccio, non dimentico della lezione giottesca, ha piantato le sue figure in terra, plastiche e dolorosamente umane; Domenico Veneziano ha esposto la sua tavolozza alla gloria della luce, con ciò influenzando, ma non troppo, il maestro dell’affresco Piero della Francesca; Andrea Mantegna, il pittore scultoreo della figura, dal disegno perfetto; Giovanni Bellini, non lontano dall’Angelico per la vivezza e la forza poetica delle sue figure. Melozzo da Forlì (infine e per citare solo i più grandi) con la limpidezza e il chiarore della sua luce pari al Veneziano, volgendo in basso il punto di vista, ha aperto allo ‘scorcio’ e alla rotta, fino ad allora inusitata, della visione aerea. La pittura, con ciò, scopriva e conquistava  un nuovo, inesplorato continente: il cielo.
 
Non dispiacerà soffermarsi, a questo punto, su uno di questi eccellentissimi artisti, considerato l’interesse che sta montando sul suo conto (Forlì, Musei di San Domenico, ‘Piero della Francesca. Indagine su un mito’, fino al 26 giugno 2016) e che richiama un po’ la stessa attrattiva  (dopo il cosiddetto grande oblìo) che si ebbe per lui nella seconda metà dell’800. Si vuol dire di Piero della Francesca, il grande maestro dell’affresco del primo Rinascimento e di una delle sue opere più rappresentative, cioè, della sua Madonna del Parto.
 
Al primo sguardo, all’aprirsi del grande sipario damascato, s’avverte l’impressione come d’uno svelamento,   improvviso e momentaneo: i due angeli apriscena non possono durare a lungo, in effetti, in quella posa. Si tratta, allora, d’una concessione, meglio, di una grazia che si fa a chi osservi l’affresco, e, specialmente, a chi lo faccia la prima volta. Questo primo gesto angelico (l’aprirsi della tenda), così dinamico e sorprendente e così genialmente concepito, spalanca l’immagine più verace, ‘terrestre’ si vorrebbe dire, sul concepimento umano. E la protagonista di questo ‘mistero’ straordinario è la donna, in questo caso fatta Madonna.
 
Ella appare in tutta la sua umana maestà, per nulla stridente col suo stato di avanzata gestazione e per nulla inferiore, in quanto a bellezza in sé, alle più celebrate maestà, per esempio, di Cimabue, Duccio e Giotto degli Uffizi.
 
Il suo volto (fig. 1) non  tradisce se non il sentimento di trattenuta ma fiera consapevolezza di uno stato di grazia, permesso a Lei come a tutto le donne: nasce da qui la profonda devozione per questa immagine da parte di tante donne pregne, in pellegrinaggio da subito, in quella modesta chiesa di campagna, vicino a Monterchi, dove Piero l’aveva affrescata. Un volto segnato, tuttavia, non nell’incanto celestiale del Beato Angelico, quanto, piuttosto, nel segno dell’umanità più realistica di Masaccio.
 
Più che il suo volto, tuttavia, parlano le sue mani (fig. 3). Nel più tipico atteggiamento femminile dell’attesa, esse, posate su un grembo esorbitante, non nascondono, ma, anzi, esibiscono il divenire di un evento prossimo e glorioso, così per la Madonna come per la donna d’ogni tempo. La destra, in particolare, quasi a voler celare l’aprirsi per necessità d’una veste un po’ stretta, è il dettaglio realistico che denuncia l’ennesima ‘trovata’ di Piero. Piace pensarla così al posto di chi ha visto, nello stesso particolare, e cioè nel bianco della sottoveste della Madonna,  il segno della sua verginità.
 
Questa Madonna, al pari, per esempio, della Calunnia del Botticelli, della Tempesta del Giorgione e, ancor più, della Gioconda, non si sottrae ai tentativi di chi ha voluto supporvi dei messaggi nascosti. Tra l’evidenza dell’immagine e il suo background scorre, in ogni grande opera d’arte, il mistero di un ‘pensiero’ che si fa a suo modo concreto e colpisce l’immaginazione dell’osservatore: un flusso continuo in andata-ritorno di sensazioni, significati, incantamenti, il suggestivo ‘gioco’ video-percettivo dell’arte pittorica.
 
Luigi Musacchio