“Finché quella donna del Rijkmuseum
                                   nel silenzio dipinto e in raccoglimento
                                   giorno dopo giorno versa
                                   il latte dalla brocca nella scodella,
                                   il Mondo non merita
                                   la fine del mondo.”
 
La poetessa, premio Nobel, Wislawa Szymborska, come in un soprassalto di speranza, affida al capolavoro di Vermeer la salvezza del mondo e lo fa puntando sulla bellezza di un dipinto. Qui si annidano il mistero e il fascino di quell'elemento (o fenomeno?) che si chiama “bellezza” . Che cosa fa, allora, dell'opera d'arte di Vermeer uno splendore di bellezza?
Risposta quanto mai temeraria. Filosofi, psicologi, teologici hanno percorso itinerari diversi di ricerca per giungere a conclusioni solo apparentemente esaustive. Già il beneamato Platone, pur relegando l'arte a modesto tentativo d'imitazione del reale, riduceva la bellezza a tramite e sinonimo del bene, con ciò procurandole tuttavia un compito di educazione morale di tutto rispetto.
 
A convogliare il sentimento della bellezza nell'“uomo interiore” e a vedervi la sede unica e privilegiata di ogni verità è Sant'Agostino: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori. Lì ti cercavo. Deforme io mi proiettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in me. Mi chiamasti e il tuo grido sfondò la mia sordità: balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelai verso di te, gustai ed ebbi fame e sete; mi toccasti e arsi di desiderio della tua pace». È il caso di considerare che Agostino introduce un elemento di eccelsa rilevanza: la bellezza è un attributo divino e l'uomo ne è l'unico custode.
Con il teologo d'Ippona la questione assume una direzione inusitata perché chiama in gioco la fede e solo facendosene seguaci e averne profonda e indicibile consapevolezza è possibile percepire la bellezza ovunque si annidi e si manifesti.
 
Ora, che la bellezza si avverta “dentro di noi” è certamente indiscutibile; ma che essa appaia ad alcuni e non ad altri o che ad alcuni appaia in certe forme e ad altri in forme differenti non è dato capire se non aggrappandosi a ragionamenti arditi e pur sempre vani. È ciò che fa confessare a Dostoijevsky: «La bellezza è una cosa terribile. È terribile perché è indefinibile e non la si può definire perché Dio l’ha circondata di enigmi. In essa le opposte rive si congiungono, in essa le contraddizioni vivono insieme. Qui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore umano».
 
c·d
 
Non occorre insistere oltre per mettere sull'avviso il sottoscritto e il paziente lettore su quanto complesso e articolato sia l'universo della bellezza e, con esso, quello dell'arte che della bellezza si fa — non da sola — artefice primaria. Infatti, con l'arte, a significare tutti i contorni e le fattezze del bello concorrono anche la natura (per esempio con i suoi panorami più spettacolari) e la stessa figura umana, fatta quest'ultima dall'arte medesima soggetto d'ispirazione e raffigurazione (si pensi, per esempio, al Beato Angelico e a Michelangelo).
Ora — e per arrivare al dunque — se innumeri sono stati nella storia dell'arte i “maestri di bellezza”, coloro cioè che, rispettandone i canoni, sono riusciti con le loro opere a emozionare i contemporanei e a trasmettere ai posteri pressoché identiche emozioni, tra questi sicuramente eccelle, per lo struggente splendore delle sue pitture, Melozzo da Forlì.
 
Roma 1471. Melozzo, trentatreenne, preceduto da una fama che lo eleggeva incomparabile tra i pittori del tempo, non dura fatica a catturare l'attenzione e la simpatia del papa Sisto IV. Il Vasari, come spesso gli accade, colpirà nel segno dicendo del forlivese: «Fu molto studioso delle cose dell’arte, e particolarmente mise molto studio e diligenza in fare gli scorti». Lo “scorcio”, forse l'eredità più indicativa del Mantegna diviene cifra pittorica che farà innalzare lo sguardo verso le altezze del cielo in stupefacenti prospettive da “sotto in su” . Sarà lo scorcio a disegnare, molto più in là, l'angolazione visiva prediletta del barocco ma è già del tutto presente nelle corde di Melozzo che ne farà sfoggio, da lì a poco, nel primo lavoro romano.
La commissione prevedeva la decorazione ad affresco dell'abside della chiesa dei Santi Apostoli avente per soggetto l'Ascensione di Cristo. L'ampiezza dell'opera, la monumentalità della figura del Risorto, il tripudio degli angeli che Lo accompagnano in gloria, fanno di quest'affresco, ancor prima d'ogni altro titolo e considerazione, un'attestazione tra le più sublimi di quello che si diceva in preambolo, cioè della “ bellezza pittorica” . Il “ trasporto” emotivo che provocò tra i contemporanei non avrebbe lasciato indifferenti artisti quali il Perugino, Filippino Lippi e lo stesso Michelangelo.
Questo lavoro si completa negli anni 1472 e 1473, secondo e terzo del pontificato di Sisto. Giuseppe Melchiorri, socio ordinario della Pontificia Accademia Romana, nell'adunanza del 2 gennaio 1854, proferisce: «In quella volta delineò Melozzo e colorì l'ascensione del Signore, in modo tale e con tanta maestria, da lasciar dopo di sé lunga fama di tanto valore. Era in quella grandiosa scena figurato il Redentore in atto di salire al cielo, attorniato dagli angioli, che parte gli facevano corteggio e parte mostravano di rendere più delizioso il beato momento col suono di musicali istrumenti».
La “bellezza celestiale” che traspare da questi famosissimi “angeli musicanti” si fa riflesso della bellezza della creatura umana e “ carta vincente” della pittura rinascimentale ormai prossima a venire. A questo specifico aspetto, più che da Michelangelo, la “ partita” sarà vinta da Raffaello.
 
Chi corteggia le lusinghe delle mille piacevolezze pittoriche può illudersi, come succede allo scrivente, di rendere con una semplice descrizione il miracolo della creazione artistica, della “nascita” e della “rappresentazione” della bellezza, così come, per esempio, si può percepire nell'affresco in parola. Fallace pretesa. L'emozione estetica più sorprendente sarà sempre quella che può essere vissuta solo nella visione diretta, dal vivo, “a faccia a faccia” con ciò che resta — dopo la distruzione dell'abside nel 1711, a motivo dell'ammodernamento della chiesa — del capolavoro di Melozzo: 15 frammenti staccati (Apostoli e Angeli musicanti esposti nella Pinacoteca Vaticana, di cui uno al Museo del Prado), la figura del Cristo benedicente (scalone d'onore del Palazzo Apostolico al Quirinale).
 
 Con Melozzo la “bellezza” divina, da trascendente che era stata, si fa dunque “umana”, con ciò senza ridurre la misura del sacro ma innalzandolo a più vera e vicina risonanza. Melozzo fiuta, altresì, lo zefiro del Rinascimento e se ne fa espressivo araldo con l'imponente affresco Sisto IV nomina Bartolomeo Platina prefetto della biblioteca Vaticana (1477, Pinacoteca Vaticana, cm 370x315). Nell'affresco scorciato dal basso, all'interno di un “magnificat” architettonico, a prospettiva centrale, sotto una volta a cassettoni dorati, il papa, assiso in trono, accoglie l'umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina, che, devotamente prostrato in ginocchio, accetta la nomina a primo prefetto della Biblioteca. Non mancano, a rilevare la solennità del momento,  nel costume già allora tutto italico, i nipoti e altri familiari del pontefice.
Come succede con i grandi, l'artista forlivese  mostra di aver assimilato il tesoro di suggestioni che gli provengono dalle “conquiste” di Piero della Francesca: la composta, ieratica, a volte enigmatica, espressione dei personaggi di costui e il rigore del suo impianto architettonico prospetticamente e matematicamente definito. In Melozzo, però, si avverte una pressoché mutazione genetica nella rappresentazione figurativa: le sue creature, colte in posture più disinvolte, paiono acquistare un “ respiro” tutto umano, non più metafisico.
Oltre che di un affresco trattasi di un ben calcolato “manifesto” inaugurale della nuova politica “culturale” della Chiesa. La curia romana, da lì in poi, alla stregua delle corti più celebri, propizia l'avvento di conquiste artistiche inarrivabili e, come rileva Antonio Paolucci, «tutto quello che accadrà dopo sotto il cielo di Roma, la cupola di San Pietro, il Belvedere di Bramante, Raffaello e Michelangelo in Vaticano, i cieli barocchi di Pietro da Cortona, le fontane e gli obelischi nelle piazze, hanno in questo affresco le loro premesse».
 
La più segreta e vera gloria di Melozzo non si vedrà, tuttavia, nel suddetto affresco, né in altre sue pur notevoli opere, bensì in almeno otto dei sedici frammenti staccati provenienti dalla sopraddetta chiesa dei Santi Apostoli. Sono i famosissimi Angeli musicanti e, esattamente, tre liuti, un triangolo, un tamburo, una ribeca, un cembalo e una viola. Non era ancora mai accaduto che un così “fastoso” complesso orchestrale avesse avuto modo di esibirsi in cielo a corredo della fragorosa ascensione del Signore. Agli immancabili e tradizionali angeli “cantores” si accompagnano ora, festanti e compunti, magnifici nella loro sublime, bionda bellezza, i nuovi arrivati, gli angeli musicanti. Lo spettacolo dell’affresco ancora integro, campeggiante nella volta dell'abside dei Santi Apostoli, doveva di necessità offrire uno stordimento emotivo.
 
Si resta piacevolmente interdetti nello scoprire la segreta potenza che può fare di un capolavoro un punto d’approdo, una stazione di sosta, prima di una nuova partenza: è quello che succede a Melozzo. Egli completa il ciclo che si era aperto con il Beato Angelico, Domenico Veneziano, Mantegna, e Piero della Francesca, aprendo al mondo le dovizie rinascimentali magnificamente disseminate dalle menti e dalle mani di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Del Beato Angelico e del Veneziano, Melozzo assimila la purezza limpida e trasparente dei fondali di luce: è la luce dell’atmosfera che si riverbera foriera di luminescenze mai viste, tanto da competere con la chiarezza del cielo; del Mantegna, come si è visto, fa propria innalzandola a cifra personale la tecnica dello “scorcio” di cui diverrà maestro, di quella tecnica, “del sotto in su” che si dirà “ la più difficile e rigorosa” . Di Piero, infine, assimila il senso prospettico della struttura compositiva, portandola a risultati definitivi; e, soprattutto, fa propria, come si è già detto, il poderoso “aspetto” delle figure, ammantate però da più “familiari” e naturali fisionomie.
 
Lasciandoli al loro meraviglioso concerto, nella solennità del  momento in cui accompagnano il ritorno a casa del loro Signore, s'immaginino infine gli Angeli musicanti magari ansiosi di misurarsi con musicanti “terrestri” nelle eccelse polifonie di Giovanni Pierluigi da Palestrina, mentre viene forse spontaneo interrogarsi su quali sconfinati orizzonti possa condurre la visione dell'autentica bellezza.
 
Luigi Musacchio
4 SETTEMBRE 2018