di Maria Cristina Bibbi
 
I suoi sono “Quadri parlanti”, dalle cui superfici monocrome fuoriesce la voce dell’artista.
Ci “parlano” tanto del suo tempo quanto del nostro, scavando negli angoli più remo-ti dell’animo umano e fissando nella memoria in modo indelebile ricordi e realtà.
Le sue impronte (1956) sono come dei flipper, delle superfici lunari in relief (rilievo).
Si alternano, si mixano, si stratificano.
Remo Bianco racchiude gli oggetti in teche, trattandoli come reperti, così come faceva anche Bourgeois Louise. Nelle opere di quest’ultima però ad essere chiusi in una scatola levigata di vetro delimitata ai bordi dal metallo, sono due piedi troncati al polpaccio, che poggiano sulla ruvida superficie di un blocco di marmo grezzo, evocando un mondo senza tempo, plasmato dall’umanità (Qui sono e qui sto, 1990).
In una teca è stata racchiusa anche una copia di un illecito spuntino, un sandwich di carne in scatola, portato illegalmente nello spazio dall’astronauta Young della missione Gemini 3 nel 1965 e conservato da anni nella resina acrilica presso il Grissom Memorial Museum di Mitchell in Indiana.
Nel 1937 l’artista si iscrive ai corsi serali dell’Accademia di Brera, dove due anni dopo conosce “l’assemblista-rimembrista” de Pisis, che lo nota: comincia così a frequentare con assiduità lo studio del maestro, dove ha l’opportunità di conoscere artisti come Carrà, Sironi, Savinio, Soffici, Soldati, Marini. (“de Pisis è stato per me un maestro eccezionale -maestro di vita soprattutto- mi ha orientato verso una cultura artistica ampia, anche se in un certo senso antiaccademica”).
Le sue opere iniziali sono caratterizzate da un intenso espressionismo esistenziale in stile Rouault-Kirchner, ne è prova l’autoritratto che dipinse nel 1945. Larghi tratti scuri racchiudono spessi strati di colore plumbeo e sulfureo. Successivamente negli anni Cinquanta le pennellate si fanno più indisciplinate e i colori si alleggeriscono.

Nel 1951 a Milano viene fondato da Dangelo e Baj il Movimento Nucleare, da cui Bianco trae l’amore per la materia. Nelle sue opere le linee dei volti si fanno sempre più impercettibili e ben presto lasciano il posto ad amalgami di pittura quasi del tutto informi.

Come Giacometti partiva da una figura più grande e poi, apportandovi delle modifiche, ne sottraeva delle parti.
Il passo successivo sarà più radicale e lo troviamo racchiuso in un composto di colori e cristalli di vetro, vernici, colle, paste iridescenti e ciottoli (Nucleare 1952).
Dello Spazialismo milanese di Lucio Fontana Remo Bianco capta invece la dimensione più libera, energica, eclettica, estrosa, sperimentale e ironica, interessandosi sempre più alla traccia materica ed alla scrittura cromatica.
La pittura si libera quasi del tutto della figurazione pittorica per diventare stratificazione di fili e di pennellate.
La fluttuazione crescente tra figurazione ed astrazione invita l’osservatore in misura sempre maggiore a muoversi intorno alle opere, per percepirne la totalità e la corporeità.
Le composizioni sono dotate di una tale plasticità e tridimensionalità, che i volumi sembrano quasi voler abbandonare la superficie per occupare lo spazio, offrendo una ricca interazione di prospettive, fruibili da varie direzioni: una mobilità di visione, che non solo dona vitalità alle opere, ma garantisce loro un processo dinamico di mutamento costante. Del resto l’identità e l’appartenenza sono frutto di stratificazioni e storia.
Tra il 1948 e 1952 l’artista tiene le sue prime mostre personali presso gli Spazi del Gruppo Esagono e la Galleria del Cavallino diretta da Carlo Cardazzo, cui seguono numerose altre alla Galleria del Naviglio di Milano.
Bianco inizia a sviluppare l’Arte Improntale, realizzata tramite dei calchi in gesso, intingendo nel colore gli oggetti e stampandone l’impronta come un timbro. Scrive il Manifesto dell’Arte Improntale nel 1956. Ama definirla “traccia dell’uomo” e sembra dialogare a distanza con le antropometrie di Klein.
Appartengono all’Arte Improntale anche i Sacchetti-Testimonianze: file allineate di bustine di cellophane, contenenti piccoli oggetti “vissuti”, ovvero frammenti di storia quotidiana visti attraverso la personalissima lente d’ingrandimento dell’artista.
All’inizio degli anni Cinquanta Bianco comincia a trasferire le composizioni geometriche su strati di vetro e plastica, sfruttando le loro trasparenze traslucide per creare effetti diafani e sfocature, nonché per conferirgli profondità e movimento.
A questi 3D si affiancano quelli realizzati su legno, plexiglas e metallo sempre stratificati e sovrapposti, ma intagliati in varie forme. Alcuni di loro richiamano per dinamismo di intarsio un quadro del futurista Giacomo Balla, Marombra (1919).
Nel 1955 grazie all’aiuto economico di un suo amico e mecenate, si reca negli Stati Uniti, dove conosce Burri, Klein, Pollock: da quest’ultimo apprende la tecnica espressionista astratta del dripping, che riversa nei suoi Collages (più razionali rispetto all’istintività della pittura americana) realizzati nel 1955, in cui i ritagli per lo più quadrangolari poi ricomposti, secondo una disposizione a scacchiera, formano una nuova opera, creata anche attraverso lo zoom di un solo particolare (“da lui definito particolarismo”). Ed è dallo sviluppo di questi “mosaici”, che Bianco arriva a realizzare le creazioni più conosciute di tutta la sua produzione: i preziosi Tableaux dorès (1957). Si tratta della serie più numerosa e straripante di inventiva. Sono tutti diversi tra loro anche a livello di cromie e dalle loro delimitazioni trasborda sempre un certo senso di mistero e profondità, quasi fossero dei memory.
L’artista continuò a dipingere i dorès, sino a quando questi diedero origine ad una evoluzione delle sue sperimentazioni: le Appropriazioni degli anni Settanta. In queste opere i quadratini d’oro vengono applicati agli oggetti comuni piccoli o grandi come ad esempio un’automobile, che vengono così “identificati” con il marchio dei Tableaux.
A metà degli anni Settanta Bianco si confronta con un nuovo materiale, la neve artificiale, che spruzza sulle cose più diverse o sulle persone. Un universo sospeso ricoperto da una soffice nevicata. I piccoli oggetti vengono chiusi in teche di plexiglas, mentre le persone vengono fotografate in bianco e nero. Le Sculture Neve sono dirette discendenti delle Testimonianze. Lavori che appaiono calmi e contemplativi, di carezzevole suggestione e lieve fascino, nonostante a volte il tempo ne abbia compromesso la freschezza, il candore, la soavità stessa. Immobile sotto il manto bianco, che la riveste, la composizione trasporta l’osservatore in una dimensione incantata e senza tempo. (“La neve finiva in vetrina sui ramoscelli, che vibravano investiti da quei luccichii misteriosi”, cit. Milena Milani).
Nel 1964 fecero scalpore a Venezia e nel suo Manifesto della Sovrastruttura del 1965, Remo Bianco scrisse: “Quando scende la neve si impossessa di tutta la città. Le sculture all’aperto prima di essere dei loro autori cambiano la loro forma e sono scolpite dalla neve. Questo è un atto di appropriazione. Nel 1965, a Carrara, iniziavo un periodo che ho poi definito sovrastrutturale. Cioè, attraverso una sovrastruttura ripetuta e riconoscibile, mi appropriavo di oggetti e vecchie sculture, personalizzandoli”.
Nel 1968 a Basilea ebbe un altro incontro illuminante: quello con l’espressionista zen astratto Mark Tobey. Le composizioni di quest’ultimo, come quelle di Remo, non hanno un fulcro di vista centrale e il tradizionale spazio prospettico è completamente azzerato. Il centro è ovunque e lo sguardo dell’osservatore può posarsi in un punto qualsiasi, per poi estendersi all’infinito in ogni direzione. I singoli elementi si sgretolano, per poi ricomporsi nella nostra percezione visiva. L’arte di Tobey, come le sculture di Neve di Bianco, ha un valore spirituale e contemplativo, un modo per dare voce e corpo alla propria anima.
L’Arte Elementare fu uno degli ultimi cicli, che negli anni Settanta vide l’artista, pur proseguendo tutte le altre serie, tornare ad uno start della pittura, sviluppando su fondi a volte quadrettati, file di trenini, fiori, frutti, giostre, soldatini, scritte corsive, che rimandano a un mondo di rappresentazioni essenziali e lineari (vedi il “tadiniano” Albero, 1971).
Nel 1990 Palazzo Reale lo ricorda con una vasta mostra antologica dal tocco variopinto.
Eh si perchè Remo Bianco non fu certo uno che vedeva o tutto bianco o tutto nero.
Instancabile sperimentatore materico ed espressivo, la sua fervida fantasia non aveva limiti. Continuò a progettare sempre nuove forme di espressione nel suo sconfinato e poliedrico lavoro.
Del resto Remo non rimaneva certo con il foglio ...bianco (al tempo aveva tre studi pieni di opere in diversi posti a Milano).
Lavori che sono quindi sempre in progress, in metamorfosi, ossia in divenire. Cicli di ready made concettuali, che vengono ripensati e ripresi a volte a distanza di anni.
(“L’opera di Remo era qualcosa, che non poteva definirsi né propriamente Arte Povera, ma neanche espressionista, era molte cose differenti. Io penso fosse troppo in anticipo per il suo tempo.
Sì, era molte cose diverse, quindi le persone non potevano collocarlo da nessuna parte. Ma lui sperimentava veramente e questo è il motivo per cui era un “personaggio” importante, interessante. Se non sperimenti, non puoi conoscere nuovi territori. Ma se sperimenti, puoi anche sbagliare. Lui non aveva paura di sbagliare o di cambiare da un mezzo espressivo all’altro” cit. Marina Abramovic).
All’arte come creazione di nuove forme subentra l’arte come riflessione di ciò che esiste. La quotidianità diventa quindi territorio di indagine, attraverso l’esplorazione delle possibilità espressive della materia.
Come diceva anche Burri: “quello che si vede nel quadro è quello che esiste qui e ora. Non rappresentazione della natura o riproduzione evocativa del circostante, ma esattamente sacchi di juta, legno, ferro, fuoco, plastica, catrame, terra, colla, un pezzo di pomice grigio, uno straccio nero, il frammento di un sacchetto. La pittura si spiega da sola, guardandola. Quello che vedi è, non ho fatto altro, non vi è un elemento psicanalitico del medico che ricuce gli strappi”.
L’obiettivo è quello di controllare, modellare e dimensionare l’elemento. Cosi la tela diventa un presente continuo e infinito. Al centro c’è il pensiero, mai l’istinto.
Materiale di ogni tipo usato come mezzo di ricerca per esercitare ampiamente il proprio credo sperimentatore. Burri come Bianco è stato un pittore totalizzante e totalizzato dalla sua arte. Ha costruito distruggendo la materia. Si passa da una rappresentazione evocativa ad una presentazione fisica della realtà con tutta la corporeità dell’entità stessa. Se fossero vissuti oggi, sarebbero sicuramente stati esponenti della Cracker Art, “l’arte di smembrare, tagliare, cucire, incollare e ricomporre”.
Bianco remava contro le regole accademiche (“il mio metodo di lavoro è completamente libero e mi considero un ricercatore autonomo”, come si definiva anche il surrealista Mirò) con uno slancio creativo non formale, che procedeva per ondate. Provava estrema noncuranza verso qualsiasi catalogazione e trascuratezza nell’apporre data e firma dell’opera e se presenti erano difficili da interpretare. Scritti, cataloghi, pubblicazioni sono ben pochi, a parlare è soprattutto la collezione dell’amico mecenate Virgilio Gianni (“il mio intento è dare gloria ad un’artista, che lo merita”) oltre al contributo della Fondazione Remo Bianco, che è stata istituita nell’estate del 2011, con lo scopo di mantenere viva la memoria dell’artista milanese. È stato un atto doveroso, concordato e reso possibile anche grazie al prezioso aiuto di Lyda Bianchi, sorella dell’artista, per rendere merito ad un uomo, che nei suoi oltre 40 anni di inarrestabile lavoro e studio, si è rivelato uno dei protagonisti più rimarchevoli del panorama artistico del 900’ italiano.
Non ci resta che, intraprendere questo viaggio memoriabile di scena al Museo del Novecento, che attraverso oltre 80 opere, ci aprirà a nuovi orizzonti e ci farà navigare negli infiniti spazi della fantasia come dei grandi esploratori... sulle orme di Remo Bianco.

Info

 
Remo Bianco – Impronte della Memoria
Museo del Novecento, Milano
A cura di Lorella Giudici con la collaborazione della Fondazione Remo Bianco

Dal 5/07 al 6/10/2019

Catalogo Silvana, testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, apparati a cura di G. Passerini e A. Vincenzoni

Lucia Crespi, Ufficio Stampa Mostra
Telefono: 02/ 89415532 – 02/ 89401645
E-mail: lucia@luciacrespi.it