I motivi di interesse della mostra sono diversi. L’autrice, celebre per le sue rappresentazioni delle istituzioni culturali, è certamente di per sé un nome di grande richiamo. La tecnica esecutiva delle foto proposte, inoltre, è stupefacente. Il punto che qui preme porre in risalto, tuttavia, è più generale: certe peculiarità delle opere presentate, infatti, sollecitano la riflessione su alcune questioni fondamentali concernenti lo statuto delle fotografie esposte e la loro relazione con lo spazio ospitante. L’esposizione costituisce, dunque, un buon banco di prova anche per i non addetti ai lavori per qualche considerazione sui problemi essenziali dell’arte, della cui inaggirabilità la mostra porta a prendere coscienza, se non altro come effetto collaterale.
Ad un primo sguardo, gli scatti di Höfer sembrano assolvere una funzione meramente documentaria: il medium appare infatti massimamente trasparente e la riproduzione del referente risulta fedelissima. Nondimeno, alcune opzioni stilistiche – tipiche dell’autrice – rivelano un’operazione concettualmente più complessa, che sembra sostanziare la funzione estetica delle opere.
Giova ricordare qui, anche solo di passaggio, che Candida Höfer inscrive programmaticamente il suo lavoro all’interno di quella che è stata definita una “estetica dell’impassibilità”, o “deadpan photography” per gli anglosassoni (sulla questione, ad esempio: C. Cotton, La fotografia come arte contemporanea [2004 e 2009], Torino 2010, pp. 93-131). La sua maniera si colloca, cioè, nella recente tendenza della fotografia, soprattutto di matrice tedesca, contraddistinta dalla volontà di creare immagini fredde, asettiche, depurate da qualsiasi componente emotiva, monumentali sul piano dimensionale (e, perciò, intrinsecamente “da museo”), nitidissime e statiche. Tutti caratteri, quelli elencati, che si ritrovano puntualmente nelle opere allestite alla Borghese. Bisogna stabilire, a questo punto, se e in che modo essi siano sufficienti a qualificare i lavori di Höfer come immagini ontologicamente “forti” – nel senso delineato da Gottfried Boehm sulla scorta di Gadamer (La svolta iconica, Roma 2009, p. 149) – sottraendole alla condizione di “debolezza” connaturata di norma alla fotografia riproduttiva.
Cos’è, dunque, che consente di cogliere lo scarto tra la pura riproduzione della cosa rappresentata e il nocciolo concettuale sotteso al “marchio” autoriale impresso sulle foto? In che modo, inoltre, le immagini non annullano se stesse quando poste a confronto con le sale del museo? Per abbozzare qualche risposta occorre descrivere analiticamente le caratteristiche salienti del piccolo nucleo di opere, provando a stabilirne la funzione e il funzionamento.
Anzitutto, gli scatti si distinguono, nel complesso, per l’alta qualità tecnica, che consente all’autrice, tra l’altro, di conferire alle immagini un nitore eccezionale e di evitare le distorsioni prospettiche che affliggono la rappresentazione degli interni. Le fotografie, inoltre, sono realizzate sfruttando la luce ambientale. La soluzione – che implica un’elevata difficoltà esecutiva, in rapporto anche ai tempi di lavoro – parrebbe adeguata ad offrire un’immagine (iper)realistica delle sale, restituendo di esse l’aspetto, per così dire, più “naturale”. Il realismo della luce, tuttavia, è controbilanciato dall’inquadratura, che tende a produrre un’atmosfera artificiale. Höfer è evidentemente affascinata da questa tensione oppositiva, dal momento che vi insiste di continuo nella sua prassi fotografica.
Nelle strategie compositive dell’autrice, d’altra parte, il lavoro sull’inquadratura (e dell’inquadratura) riveste un ruolo cardinale. Ad essa è affidato il compito di definire “scorci” solo all’apparenza ordinari, ma in realtà esperibili quasi esclusivamente per il tramite dell’immagine, nella particolare configurazione ordinata dal taglio della foto. Nei lavori esposti alla Borghese, l’inquadratura è sempre perfettamente centrata e frontale: ciò genera una rappresentazione del tutto simmetrica, immobile e in grado di includere una porzione di spazio talmente ampia da dare l’impressione di abbracciare con lo sguardo l’intero ambiente. Le qualità descritte sembrano derivare da una visione ai limiti dell’innaturale. Le immagini costruiscono pertanto le condizioni per una sorta di esperienza virtuale delle sale, entro le quali ci si sente proiettati in virtù della forte componente prospettica e delle dimensioni considerevoli delle stampe. Una percezione analoga a quella strutturata dalle foto – beninteso: più ipotetica che reale – si darebbe, del resto, soltanto a patto di rimanere immobili per un certo tempo nel punto di posa del cavalletto e, si osservi, senza distrazioni di alcun tipo.
L’artificialità del mondo possibile generato dalla fotografia di Höfer, d’altronde, è ulteriormente enfatizzata attraverso un’altra delle sue cifre stilistiche, vale a dire l’esclusione di qualsiasi presenza umana dagli scatti, secondo un modello praticato e diffuso tra gli altri da Bernhard Becher, maestro dell’autrice. Si può notare, a margine, come l’angolo di ripresa scelto dalla fotografa ricordi – mutatis mutandis - quello delle città ideali dipinte nel Quattrocento, con l’intelaiatura geometrica così evidente da assoggettare la scena ad un processo di astrazione, facendo percepire distintamente i ritmi intrecciati della scansione dello spazio e della distribuzione degli oggetti. Intenzionale o meno il riferimento alla pittura umanistica – anch’essa spesso disabitata o quasi – l’effetto è comparabile: gli ambienti finiscono, infatti, con l’assumere una chiarezza cristallina, maggiore del reale, che deriva proprio dalla prospettiva prossima ad essere disincarnata.
Vale la pena di aggiungere, in proposito, che di “sguardo disincarnato” parlano correntemente gli esegeti di Höfer a proposito della singolare qualità delle sue inquadrature; tra gli altri, di recente si è espresso autorevolmente in questi termini anche Michael Fried, che ha dedicato una certa attenzione all’opera della fotografa tedesca (si veda, del critico americano, Why Photography Matters as Art as Never Before, New Haven and London, 2008, pp. 281-294; interessanti anche le osservazioni di Lucy Soutter nel suo Why Art Photography?, London – New York 2013, pp. 39-42).
Quali sono, quindi, i risultati maggiori che si ottengono attraverso il ventaglio delle scelte di stile passate in rassegna? L’operazione di Höfer risulta funzionale ad evidenziare il valore di insieme delle sale: le immagini non lasciano mai cadere l’accento sui pezzi ritratti nella loro singolarità, o su gruppi di opere, bensì sul sistema costituito dagli oggetti nello spazio. La fotografia così congegnata esalta le nervature e le linee di forza di questo sistema, fissandone i tratti, gli equilibri e le armonie, che però – conviene ribadirlo – a tale livello di raggelata nitidezza esistono quasi esclusivamente nella realtà virtuale prodotta dalla macchina.
Il modo peculiare di ritagliare la realtà elaborato da Höfer, inoltre, tende a magnificare la struttura dell’allestimento con le sue simmetrie e le sue rime geometriche, lasciando affiorare tutte quelle corrispondenze formali che già i collezionisti del passato avevano saputo creare attraverso un raffinato gusto per la composizione e che l’attuale sistemazione museale cerca di riproporre. Le immagini dell’autrice tedesca, dunque, restituiscono la purezza dei luoghi non alterata dal flusso dei visitatori, facendo risaltare le partiture decorative delle superfici e i giochi cromatici realizzati al tempo del restyling settecentesco della Palazzina Pinciana.
Sulla scorta dei dati analitici raccolti sin qui, possiamo tratteggiare sinteticamente qualche conclusione rispetto agli interrogativi che avevamo posto in apertura. Le qualità rilevate provvedono certamente a fare delle fotografie della Borghese qualcosa di più di un semplice duplicato della realtà. Sono la manifestazione concreta di un progetto concettuale. E, bisogna rammentarlo, l’arte concettuale è l’ambito intorno al quale si è sviluppata la deadpan photography. Le opere di Höfer presentano, coerentemente, uno stile rigoroso e misuratissimo, tecnicamente superbo, studiato nel dettaglio per raggiungere lo scopo espressivo prefissato.
Proprio nella trasparenza tersa del medium, del resto, risiedono le marche dell’enunciazione, che ne denunciano la sostanza progettuale. Ed è esattamente la specifica qualità dell’enunciazione, in fondo, a costituire il carattere attraverso il quale l’autrice si propone di scongiurare il rischio della tautologia più banale (ancorché il banale non sia affatto escluso dall’estetica dell’impassibilità).
Robert Adams, fotografo insigne nonché teorico e critico della fotografia, sulla scorta di Henry James ha proposto di articolare il giudizio attorno a tre domande di semplice quanto solidissimo buon senso: che cosa sta cercando di fare l’artista? Lo fa? Valeva la pena di farlo? (R. Adams, La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali [1981 e 1983], Torino 1995 e 2012, p. 31). Il terzo quesito, come si sa, non rientra nell’arsenale critico mainstream di ascendenza postmoderna, cui pure lo studio avanzato della fotografia deve molto. Nondimeno, poiché in prospettive come quella di Höfer ci viene chiesto frequentemente di valutare il concetto assai più del percetto (o persino svincolato da esso), l’interrogativo torna ad imporsi di prepotenza. In ogni caso, è sufficiente qui averlo formulato. Ai visitatori della mostra e ai posteri, come dice il poeta, l’ardua sentenza.
Francesco Sorce, 29/7/2013
Candida Höfer alla Galleria Borghese
a cura di Mario Codognato, Anna Coliva e Marina Minozzi
Roma, Galleria Borghese
20 giugno - 15 settembre 2013
ORARI
Dal Martedì alla Domenica dalle 9.00 alle 19.00
Lunedì chiuso
INGRESSO
intero € 13,00, ridotto € 8,50
(per Galleria Borghese e mostra compreso diritto di prevendita - la prenotazione è obbligatoria)
PRENOTAZIONI
T +39 06 32810
www.ticketeria.it
Didascalie immagini
1. Candida Höfer, Villa Borghese Roma X, 2012, C-print, 180x190.3 cm, ©Candida Höfer/VG Bild-Kunst, Bonn, ©Candida Höfer by SIAE 2013
2. Candida Höfer, Villa Borghese Roma I, 2012, C-print, 180x217.2 cm, ©Candida Höfer/VG Bild-Kunst, Bonn, ©Candida Höfer by SIAE 2013
3. Città ideale, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche,1480-90ca
4. Candida Höfer, Villa Borghese Roma XVIII, 2012, C-print, 180x205.6 cm, ©Candida Höfer/VG Bild-Kunst, Bonn, ©Candida Höfer by SIAE 2013
5. Candida Höfer, Villa Borghese Roma IX, 2012, C-print, 180x211.5 cm, ©Candida Höfer/VG Bild-Kunst, Bonn, ©Candida Höfer by SIAE 2013
6. Candida Höfer, Villa Borghese Roma XV, 2012, C-print, 180x202.8 cm, ©Candida Höfer/VG Bild-Kunst, Bonn, ©Candida Höfer by SIAE 2013