E’ in corso presso la Fondazione Mast una mostra inedita per l’Italia dedicata all’opera, che il fotografo americano W. Eugene Smith (1918-1978) ha realizzato a partire dal 1955 su Pittsburgh ( Pennsylvania, USA), raffigurante un ritratto immane e reale di questa scattante e operosa citta’ americana nel momento clou della sua espansione economica.
Smith, straordinario interprete della vita urbana contemporanea, capace di catturarne la sua poetica nascosta, respira la vera energia del suo contesto e trae ispirazione creativa semplicemente osservando la gente con i suoi eterogenei street style.
 
Eugene Smith, Ragazza accanto a un parchimetro, 1955-1957
 
Fotografie itineranti, un menù fotografico variegato, i cui ingredienti principali sono la strada e i suoi abitanti. Una ricerca che usa la fotografia come un atlante per  individuare le dinamiche della città. Una sorta di investigazione urbana mirata all’applicazione di un tema di analisi legato al contesto territoriale e sociale specifico della città in cui si svolge. La fotografia si rivela così contemporaneamente strumento di indagine e soggetto privilegiato della sua ricerca.
 
Eugene Smith, Deposito U.S. Steel, Rankin, 1955-1957
 
L’esposizione, organizzata dalla Fondazione Mast in collaborazione con il Canergie Museum of Art, ci permette di scoprire questo avvincente memoir composto da 170 stampe vintage di uno dei più grandi documentaristi statunitensi di reportage (considerato già in vita tra i dieci fotografi più celebri al mondo), che hanno rivoluzionato la storia del fotogiornalismo attraverso una dirompente e comunicativa forza espressiva di immagini.
 
Eugene Smith, Area residenziale, City Housing 1955-1957
 
Smith nasce a Wichita Kansas nell’Ovest degli Stati Uniti nel 1918.
La sua precoce maestria nel saper cogliere al volo determinati istanti ed esprimere il suo punto di vista sulla realtà che osserva, soffermandosi sui piccoli dettagli, la ritroviamo in una sua primissima foto di aeroplani scattata all’età di 14 anni e pubblicata sul New York Time.
Da quel momento inizia per lui un viaggio dalla forte carica emotiva. Smith con il suo shoot parachute si rivela sin da subito e successivamente nel tempo un fotografo difficile, che non si è mai fatto pilotare dal sistema dell’informazione americano, quasi folle, esigente con se stesso, con un modo di operare complesso, che non consegnava mai un lavoro in tempo, mai soddisfatto del layout delle immagini, dell’impaginazione, dell’intensità delle foto stampate.
Sembra di rileggere in questo suo lato caratteriale le parole dell’informatico statunitense Steve Jobs cofondatore di Apple inc., creatore di prodotti di successo come Macintosh, iMac, iPod, iPhone e iPad: “Siate affamati, siate folli. L’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato cio’ che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena l’avrete davanti. Quindi continuate a cercare, finché non lo trovate, non accontentatevi”.
Nel 1939 Smith viene contattato dalla rivista Life, con cui inizia una collaborazione, che lo porterà nel corso degli anni successivi a coprire il ruolo di corrispondente bellico sul fronte del Pacifico. Alcune delle foto scattate durante queste “missioni” divennero delle vere e proprie icons della Seconda Guerra Mondiale.
Anche il pittore Italico Brass ritraeva le truppe in azione, quando avanzavano nel fango o nelle trincee sotto il fuoco notturno, quando risalivano i passi alpini. Soggetti di semplice vita quotidiana ripresi al campo, di depositi di munizioni e di vedute di città militarizzate. La guerra, così come nelle foto di Smith, non appariva mai tragica, le trincee erano tranquille e questo grazie ad un linguaggio lirico, in cui aria, luce e colore si fondevano e si diffondevano.
Il fotoreporter sa come affondare nel cuore di immagini, che ci invitano ad immergerci in un mondo intriso di un significato velato da mille sfumature. Coglie la contemporaneità delle cose e della vita, mettendo sulla stessa linea di mira la mente, lo sguardo e il cuore, realizzando così delle foto profondamente umane.
Smith ha rivoluzionato il concept del reportage con i lavori pubblicati sulla rivista Life tra il 1948 e il 1956, realizzando indelebili racconti per immagini, che mettono in luce la parte più in ombra, più cupa del mondo, quelle realtà spesso dolorose e tristi, di fronte alle quali si e’ rifiutato di essere solo un testimone passivo, optando invece per una visione strettamente personale dei fatti. (“Non ho mai scattato una foto buona o cattiva, che non mi provocasse un turbamento emotivo, A cosa serve una grande profondità di campo, se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?”)
I luoghi fotografati documentano un lavoro di introspezione dell’artista, evocandone stati d’animo, valori simbolici e pensieri. Sequenze di fotografie che non intendevano essere un elemento narrativo per il mondo, ma racchiuderlo, non limitarsi semplicemente a rispecchiarlo, ma darlo alla luce loro stesse.
 
Eugene Smith, Steelworker, 1955-1957
 
Di recente anche il fotografo pubblicitario Oliviero Toscani sta combattendo sullo stesso “fronte” e in una sua intervista ha infatti dichiarato, che la vera arte ha a che fare con la condizione umana, non solo manifestata attraverso il dolore ma anche tramite la gioia e l’umanità. (“Da quando esiste la fotografia conosciamo la storia in un modo piu’ preciso. C’è chi fa invece solo delle cose estetiche, che hanno a che fare con la composizione, con il colore, ma questa non è vera fotografia”).
Il 23 Maggio del 1945 Smith venne ferito al volto dall’esplosione di una granata durante la battaglia di Okinawa: nei due anni successivi fu costretto a ripetuti interventi e ad una lunga riabilitazione, in un periodo in cui la sua fotografia rimase in un incerto stand-by.
In quel momento il fotografo dimostrò una grande resilienza, ossia la capacità di sopravvivere alle difficoltà e alle disgrazie personali e collettive, di andare avanti senza arrendersi mai, traendo dai problemi la forza per ricominciare ogni volta. Rimasto colpito dall’esperienza della guerra, decise di utilizzare la fotografia come strumento di sensibilizzazione sociale, spiegando così il perché di questa scelta: “volevo portare con le mie fotografie qualche messaggio contro l’avidità, la stupidità e l’intolleranza che queste guerre provocano”.
La fotografia “A walk to Paradise Garden” del 1946 fu la prima realizzata a seguito del termine della sua degenza e simboleggiò perfettamente la rinascita dell’autore, unita alla speranza di un mondo migliore dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
E’ una delle foto da lui più amate e raffigura i suoi due figli di spalle Juanita e Patrick, che camminano mano nella mano in un bosco ombreggiato, spingendosi fino al suo limitare, attraverso cui si intravede una radura bagnata dal sole, metafora di speranza e di superamento del dolore causato da tutto quello, che la fotografia aveva permesso di vedere e provare a Smith.
Uno scatto che concluse la celeberrima rassegna the Family of Men del Moma di New York prima di “pellegrinare” nel mondo. Un viaggio in crescendo, che esamina dal punto più buio a quello più luminoso la condizione di vita e l’animo umano. Un invito a cercare la propria strada.
Da sempre questo è anche il segreto dei giapponesi, utilizzato per ritrovare l’equilibrio e il benessere, ossia il Shinrin Yoku (bagno nella foresta).
Chiudere gli occhi e ascoltare i suoni della natura (il fruscio dell’aria tra le foglie, il canto degli uccellini), ma anche osservare il sole, che filtra tra gli alberi proprio come fanno i figli di Smith, immersi in un fiabesco diorama.
 
 
Eugene Smith, A walk to Paradise Garden, 1946
 
Di lì a poco Smith si svincolò dagli incarichi del lavoro dipendente alla ricerca di una maggiore libertà espressiva, autenticità e profondità nello sguardo delle cose, spinto dal desiderio di raggiungere la verità assoluta, captabile nei rari attimi, in cui si palesava attraverso le apparenze del mondo.
Il fotoreporter americano trascorse 20 anni della sua vita cercando di passare dalla rappresentazione figurativa al “black square” ossia il quadrato nero di Malèvic.
L’arte astratta e’ superiore a quella rappresentata e il colore, protagonista assoluto, viene portato così all’estremo. Dal punto di vista dei suprematisti le apparenze esteriori della natura non richiamano alcun interesse, l’oggetto in sé non ha alcun significato. Le astrazioni invece open the mind, ossia vanno oltre i confini della immaginazione, facendo si che ci si possa sbizzarrire nell’interpretare la realtà. Composizioni astratte definite da luce e buio: per Smith la fotografia è infatti sperimentazione dei riflessi sulle più diverse superfici, senza artifici.
 
Eugene Smith, Stabilimento National Tube Company e ponte ferroviario sul fiume Monongahela, 1955-1957
 
L’interruzione dei rapporti con la stampa, con le riviste, con i media e infine con la famiglia, lo portano ad un bivio personale e professionale.
Il fotografo prese la decisione di trasferirsi a New York, in un “loft” all’interno di un edificio, in cui suonavano “jazz”.
Risalgono a questo periodo le visioni di “Talvolta dalla mia finestra osservo” (1957-1958), riprese in una New York inaspettata, “spiata” nella sua vita quotidiana, che scorre sotto le finestre del suo appartamento. Una riflessione sui volti, una sorta di studio di identità, in cui i visi sono ispezionati, scavati nei loro dettagli. Smith diventa una sorta di “Jeff” Jefferies, il fotoreporter di una Finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Quest’ultimo, avendo riportato una frattura alla gamba, è costretto ad un lungo periodo di immobilità, che trascorre nel proprio appartamento e la monotonia di questa vita da recluso è resa per lui sopportabile dalla continua osservazione di fatti altrui attraverso una finestra sul cortile.
Alle circa 40.000 fotografie scattate tra il 1957 e il 1965 da un uomo con una grande passione per la musica e un talento ancora piu’ grande per la fotografia, si aggiungono le registrazioni delle 4.000 ore di nastri musicali. Il sound anima e accompagna ogni suo scatto, lasciandoci tracce della memoria e del tempo, che raccontano storie di vita e toccano le corde emotive degli spettatori.
Nel 1955 il rapporto con Life è ormai saturo e questo spinge Smith a legarsi all’agenzia Magnum Photos; quest’ultima racconta la cronaca, la storia e il costume del nostro Paese dal dopoguerra ad oggi e per la quale realizza un reportage su Pittsburgh, che gli varrà il primo dei suoi tre premi Guggenheim. Un centinaio di fotografie per una pubblicazione celebrativa sul bicentenario della sua fondazione. La città era in pieno exploit economico grazie alla crescita dell’industria siderurgica e in particolare delle sue acciaierie, che garantivano lavoro e attiravano operai da tutto il mondo.
Smith rimase affascinato dalla città dell’acciaio, dai volti dei lavoratori, dalle sue strade, dalle fabbriche, realizzando in circa tre anni 20.000 negativi e 2000 masterprints.
 
Eugene Smith, Steel mill, 1955-1957
 
La stessa intensità di suggestione introspettiva, pare ritrovarla anche in un’opera moderna di Michelangelo Pistoletto, paladino dell’Arte Povera, intitolata “Uomo che aggiusta un camion” (1967).
Solo una piccola parte del progetto di Smith venne conosciuto dal pubblico tramite il Photography Annual del 1959, l’unica rivista, in cui il fotografo acconsentì di pubblicare le sue foto, in quanto gli garantì il controllo totale delle 36 pagine intitolate “Labyrinthian walk”. Il risultato non soddisfò però le sue aspettative e continuò per anni ad avere come obiettivo la pubblicazione di un intero libro su Pittsburgh. (“Penso che il problema principale sia che non c’è fine ad un soggetto come Pittsburgh e non ci sia modo di portarlo a compimento”).
La richiesta di realizzare entro un paio di mesi tra le 80 e le 100 foto della città divenne il lavoro più interminabile e deludente della sua vita.
Smith non rispettò i termini e portò avanti infiniti tentativi di dare alla luce un book definitivo.
Di contro nel 1971 realizzò anche uno dei suoi reportage piu’ riusciti: Minamata (isola di Kyushu), in cui fu testimone visivo dei devastanti effetti dell’inquinamento industriale, causato dallo scarico dei rifiuti tossici del mercurio nelle acque della baia di un villaggio di pescatori in Giappone. A riguardo nel 1973 presentò la personale a Tokyo “Minamata: Vita – sacro e profano”, due anni dopo esposta all’International Center for Photography di New York. Un impegno ambientale di denuncia, che lo vide vittima di un pestaggio da parte di teppisti assoldati da una nota azienda chimica artefice del danno. Le lesioni subite da Smith lo portarono alla perdita quasi totale della vista, ma perlomeno le fotografie fecero scalpore e aiutarono molte vittime dell’inquinamento a vincere la causa nel Marzo del 1973.
Nel 78 la salute minata dalla malattia lo porta alla prematura scomparsa all’età di 60 anni: ad influire furono senza dubbio anche le percosse subite dai teppisti di Minamata.
Smith ci ha lasciato circa 3000 stampe, diverse centinaia di migliaia di negativi, 1600 audiocassette, 25.000 vinili, 8000 libri insieme all’incommensurabile patrimonio iconografico. Tra le più importanti storie di fotogiornalismo oltre alle sopracitate ricordiamo: The Country Doctor narrazione fotografica del lavoro quotidiano di un comune medico Ernest Ceriani, realizzato in Colorado nel 51, in cui venne raccontata la storia di una persona attraverso prospettive intense e ravvicinate, alla ricerca di un’essenza fatta di piccoli dettagli; Spanish Village il più vigoroso ritratto del paese sotto la dittatura franchista dopo la guerra civile degli anni 30; The Nurse Midwife in cui vennero fotograficamente scandite con precisione le giornate di una levatrice del South Carolina.
La perdita quasi totale della vista non ha negato a Smith di continuare attraverso le sue opere di tramandare la sua concezione artistica in una dimensione sospesa nel tempo che guarda sia al passato che al futuro.
Un’opera sconfinata, riconoscibile a colpo d’occhio e che nessuna generazione perdera’ mai di vista.
 
 Eugene Smith in his workroom, 1968-1969
 FOT. 1 Ragazza accanto a un parchimetro, 1955-1957.  2 Stabilimento National Tube Company e ponte ferroviario sul fiume Monongahela, 1955-1957. 3 Area residenziale, City Housing 1955-1957
 

Maria Cristina Bibbi

 

 Info

 

Fondazione MAST

via Speranza 42
16 Maggio – 16 Settembre 2018
Martedì – Domenica 10 - 19
Ingresso gratuito

Sito web: http://www.mast.org/w.-eugene-smith