Giovanni Cardone Gennaio 2023
Fino al 25 Febbraio 2023 si potrà ammirare alla Galleria Area24 Space Napoli la mostra Napoli negli anni delle neoavanguardie La pittura tra gestualismo informale e abbrivio surrealista a cura di Andrea Della Rossa, Testo Critico di Massimo Bignardi. L’esposizione è dedicata a sei protagonisti della scena artistica napoletana tra anni Cinquanta e Sessanta, vale a dire dalle esperienze nucleariste di Mario Colucci, Guido Biasi e Mario Persico, al Gruppo 58 alla pittura-oggetto. In mostra tredici opere storiche di Guido Biasi, LUCA (Luigi Castellano), Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello, Sergio Fergola e Mario Persico. Come scrive Massimo Bignardi nel suo testo a catalogo: “Il periodo a cavallo tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta –, che ha il suo apice nel 1958, anno della pubblicazione del Manifesto del Gruppo 58, è stato nella sua complessità segnata da movimenti, da eventi ma anche dall’attività di riviste.

Anni che, certamente, hanno segnato un effettivo incontro e confronto paritetico con le neoavanguardie culturali nazionali ed europee. Una stagione magica, anche se l’aggettivo non definisce la tenuta della complessa situazione che, per nulla acritica rispetto a quanto accade contestualmente in altre capitali del vecchio continente, come anche sulla scena newyorkese, è altresì rivolta a tener alto il dibattito tra il presente che la città vive e il suo ‘territorio’ antropologico. Un dato questo che traduce negli artisti l’evidenza di una presa d’atto della propria identità immaginativa, quindi esistenziale, posta, per alcuni di essi, alla luce di un abbrivio surrealista e di una riconsiderazione del dialogo della pittura con il proprio referente, in chiave di una effettiva presa di contatto con l’oggetto, fino a quel tempo considerato unicamente nella sua spoglia raffigurativa. Il Sé si specchia nelSé collettivo, nutrendosi di archetipi che portano come dote la ricchezza di invenzioni di immagini sulle quali agiscono le analogie e, al tempo stesso, le metamorfosi cui soggiacciono nella pratica creativa dell’arte. «I seni sono occhi o monti – scriveva Mario Persico sulle pagine del primo numero di Documento Sud – e gli occhi laghi di colore. Ogni Cosa è un momento di una perpetua metamorfosi». È il segnale di una nuova realtà culturale, dagli orizzonti aperti, con artisti pronti ad assumersi le responsabilità del proprio ruolo dando vita a quel ‘rinascimento napoletano’ che, avvertiva Dorfles dalle pagine della rivista poc’anzi citata, «costituisce uno dei fenomeni artistici più sorprendenti di questo dopoguerra. Dei più sorprendenti perché dimostrano ancora una volta come, malgrado tutto, certe zone chiave del mondo abbiano una loro vitalità autonoma, misteriosa, criptica, che di tanto in tanto esplode come quei funghi che dopo anni di siccità riappaiono negli stessi tratti di un prato o di un bosco, tra gli stessi alberi antichi». Alberi antichi: l’allusione era forse alla realtà culturale accademica, alle strutture organizzative della conservazione ma anche della promozione della cultura artistica, al mondo universitario improntato dall’ombra estesa del crocianismo imperante. «Il cosiddetto ‘buon senso’ – avvertiva Persico – ci ha definitivamente rotto le scatole – esso è flatulento», aggiungendo che la «politica di neutralità professata da quelle categorie parassitarie, conservatrici di sogni defunti, ha finito col disgustarci: come pure l’insulso confronto di sentirci continuamente difesi dal contagio dell’ignoto dagli accorti igienisti dello spirito e della mente, eterni mitigatori di vitali tensioni». Giovani grazie ai quali, anche gli artisti della generazione precedente, penso in primo luogo a Renato Barisani, Antonio Venditti e Mario Colucci, a metà del decennio cinquanta docenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, avvieranno una nuova stagione creativa: i primi due, dopo la parentesi concretista (dal 1950 al 1955) approdano a fine decennio in ambito Informale, mentre Colucci, artefice della compagine napoletana della ‘pittura nucleare’, declinerà impaginati pittorici ove il filamentoso groviglio di segni lascia il posto ad una sorta di lirica visionarietà. Ciò che mi interessa di questo periodo, fatto registrare dalle esperienze di un vasto gruppo di giovani artisti napoletani, è il passaggio da una dimensione della pittura al suo smarginare al di là della superficie della tela o di altro supporto, determinatosi da un fermento che si nutriva sia degli echi dell’analogismo psicologico di eredità surrealista, sia dalla densità di una materia cosmogonia; altrettanto, ctonia, quindi legata alla terra, alla sua capacità di materia fertile com’è il caso dei dipinti di Barisani tra il 1959 e il 1962 o, come vedremo innanzi, delle sculture di Venditi. Dalla capacità di Mario Colucci di farsi largo nel movimento della pittura nucleare italiana, attingono le esperienze, a metà degli anni Cinquanta, di Guido Biasi e di Mario Persico, ai quali si affiancherà, di poco più tardi, LuCa (all’anagrafe Luigi Castellano) e Lucio Del Pezzo. Progressivamente, già dall’alba del nuovo decennio, la pittura si appropria di combine oggettuali, andando incontro all’oggetto, alla sua presenza tra le ‘cose’, artefice di un nuovo vitalismo immaginativo, strumentale ad una
mise-en-scène del fermento drammatico, apocalittico, mistico, ironico, ludico, erotico, blasfemo, irrazionale proprio del profondo ‘napoletano’. È quanto palesano, già alla data del 1961, le opere di Persico, di Del Pezzo, di Bruno Di Bello, di Sergio Fergolae, poco più tardi e con maggiore evidenza, di Bugli, Matarese, Di Fiore, Diodato, Paladino, Panaro, Desiato, Pappa ai quali potremmo aggiungere anche quelle di Errico Ruotolo e di Mario Carotenuto, per quest’ultimo contenute nella breve stagione tra il 1964 e il 1965. Il campo della tela o della tavola è luogo ove l’artista non è testimone, bensì artefice di una caduta nel magico e chiede al fruitore di compartecipare all’azione creativa dell’opera. Si fa largo così, aggiornandolo in contrapposizione dialettica, quanto già avanzato, dal 1955, da Robert Rauschenberg con i combine object che, con altri artisti statunitensi, aveva esposto in occasione della mostra, curata da William Seitz, The art of assemblage allestita al MoMA a New York nel 1961, e contestualmente dai pittori che, dal 1961, si ritroveranno nelle file del Nouveau Réalisme, teorizzato da Pierre Restany. L’oggetto tratto dalla quotidianità, è assunto dagli artisti napoletani nel suo carattere simbolico, quindi non recuperato dal vasto repertorio di oggetti che aveva invaso la quotidianità delle metropoli, ma anche delle città, vitalizzate lungo la penisola dal boom economico. La natura dell’oggetto al quale guardano questi artisti, in particolare quelli di Linea Sud, sottratto all’interno di un habitat che è già accumulo di oggetti-feticci, si discosta significativamente dalla natura simbolica che i newdadaisti avevano dato ai loro
assemblages, convertendo l’effimerità delle cose, considerando cioè gli oggetti «non solo come ingredienti compositivi – rilevava Dorfles – ma come simboli d’una particolare situazione esistentiva». Altrettanto dall’inquadramento dell’oggetto in dimensione polemica, alla quale non erano apparsi immuni alcuni dei novorealisti sostenuti da Restany. La pittura-oggetto, per gli artisti campani, si combina in una dimensione spaziale che è quella del popolo, nella sua effettiva definizione di comunità, tenuta insieme da un forte collante identitario”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle Neoavanguardie a Napoli apro il mio saggio dicendo : Gli anni Quaranta Napoli erano caratterizzatati ancora da un figurativismo di stampo tardo ottocentesco, legato ad un’estetica che si riformula a degli stilemi che ci rimandava ad un linguaggio di tardo realismo e al liberty con sporadiche aperture di ricerca avanguardista. Le cause vanno rintracciate sia nell’isolamento che gli artisti vivevano rispetto ai loro colleghi che maggiormente inseriti nei circuiti espositivi internazionali e, dunque, più aggiornati sulle novità artistiche, mentre il mercato locale era ancora legato a una tradizione artistica caratterizzata da quadretti con scene di paesaggio e di nature morte. I primi segnali di un reale cambiamento delle arti si registrarono a Napoli nella seconda metà degli anni Quaranta, quando alcuni giovani artisti intrapresero la strada delle sperimentazioni d’avanguardia in linea con le ricerche visive nazionali e internazionali. Fu questo il caso della produzione pittorica di Domenico Spinosa che, precocemente rispetto ai colleghi pittori, imboccò la strada dell’Informale materico e di un raggruppamento di artisti tra cui Guido Tatafiore, Renato Barisani, Renato De Fusco e Antonio Ventitti che nel 1948 fondano il MAC- Movimento di Arte Concreta in concomitanza con l’omonimo gruppo milanese. Furono questi giovani sperimentatori a innescare quel profondo cambiamento dell’arte che incise in maniera radicale nel tessuto culturale stesso della città. In quel periodo gli artisti iniziarono ha sperimentare plurimi linguaggi visivi che andavano dalle geometrie maturate nell’ambito del MAC all’espressività del forma- colore di ambiente Informale, dagli assemblage di gusto new dada alle immagini mass-mediali di ambito pop, fino alle manifestazioni di tipo concettuale.

Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal 1945 al 1965 curata da Nicola Spinosa , dove per la prima volta fu dedicato ampio spazio alla pittura d’avanguardia oltre che alla scultura. Dal confronto fra le due discipline artistiche fu proprio nell’ambito della scultura che si manifestarono le migliori prove di un’arte che potesse essere definita di ricerca e d’avanguardia, frutto del lavoro di numerosi artisti, fra cui ricordiamo Franco Palumbo, Mario Persico, Lucio del Pezzo, Gianni Pisani, Tony Stefanucci, Gerardo di Fiore, Enrico Ruotolo, Carmine di Ruggiero, oltre i già citati Tatafiore e Venditti. Molti di questi artisti si cimentarono oltre che nella produzione plastica anche in quella pittorica, giungendo a risultati eccellenti, inoltre alcuni di questi maestri fecero parte diversi movimenti artistici che vennero recepiti sul territorio. In questo variegato panorama della scultura neoavanguardista due furono le personalità di maggiore spicco, Renato Barisani e Augusto Perez che rappresentavano, tra l’altro, i due diversi poli della ricerca plastica a Napoli. La prolifica produzione plastica di Barisani, caratterizzata da una portata fortemente innovativa, riscosse per un lungo arco di tempo, grossi riconoscimenti da parte della critica. Il corpus più nutrito di contributi critici sull’attività di Barisani è costituito dagli scritti di Enrico Crispolti, databili dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni del XXI secolo, che ripercorrono la lunga attività del maestro in relazione al coevo clima culturale partenopeo. A questi vanno aggiunti, per il rilevante spessore critico, i contributi pubblicati da Filiberto Menna, Ciro Ruju, Gillo Dorfles, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva e Stefania Zuliani, che delineano in maniera chiara i punti di forza dell’attività del maestro. Renato Barisani, scultore, pittore e designer, nel corso della sua lunga esistenza,ha attraversato diversi movimenti artistici, sperimentando diversi linguaggi visivi con opere realizzate talvolta con materiali inusuali nel campo dell’arte, a differenza di Augusto Perez che,attraverso la scultura, elaborò uno stile figurativo personale ed unico con opere in bronzo eseguite attraverso le tecniche tradizionali della statuaria. Dopo una prima produzione scultorea di tipo figurativo maturata nell’ambito della lunga militanza all’interno del “Gruppo Sud” , Barisani nel 1948 firmò con Tatafiore, Venditti e De Fusco il manifesto del gruppo MAC. Nell’ambito di tale movimento egli realizzò una lunga serie di sculture in gesso, legno colorato e alluminio dalle linee astratto geometriche, alcune delle quali furono presentate alla I Mostra del gruppo napoletano ‘Arte Concreta’, che si tenne alla Galleria Blu di Prussia di Napoli nel 1952, Barisani si presentò con una Struttura tubolare in gesso, insieme ad un nutrito numero di dipinti, legati agli stilemi del movimento napoletano. Agli inizi degli anni Sessanta la produzione di Barisani subì un’ulteriore metamorfosi. Crispolti infatti scrive: “Naturalmente si pensa ancora particolarmente alla ricerca di Del Pezzo di questo momento, come possibile rapporto di dialogo, tuttavia è chiaro che in un orizzonte più ampio Barisani sta operando dal territorio informale quell’inflessione di utilizzazione oggettuale che è il momento europeo e nordamericano del New Dada fra lo scorcio degli anni Cinquanta e l’esordio appena dei Sessanta. Quel momento intendo che per Rauschenberg fu dei ‘combine-paintings’, nei quali profondeva la propria confessione esistenziale. A questo livello Barisani è ancora informale, dunque, tuttavia è il canto del cigno del suo informalismo. Nel 1963 infatti la presentazione d’oggetto, che è ora meccanico, avviene in zone non solo ordinate,a quasi geometrizzanti, e con ampie spartiture, pur essendo ancora materiche. Il riferimento alla conoscenza del New Dada e delle opere di Rauschenberg non sono totalmente da escludere in quanto Barisani poté aggiornarsi sulle novità dell’arte americana attraverso lo scambio di idee con alcuni suoi amici artisti che militavano nel Gruppo ’58, di cui facevano parte Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luigi Castellano (Luca) e Mario Persico.

Documento Sud testimonia della più assoluta fiducia in una maniera di pensare e di essere aperta illimitatamente a tutto ciò che è attuale, nel senso di una adesione a quelle forze attive che operano nella realtà spirituale del nostro tempo del quale continuamente rivelano le intime ragioni e le strutture e rispondendo con ogni mezzo alle sue urgenze. Questa edizione dà inizio, nel Mezzogiorno d’Italia a un programma di divulgazione delle forme più nuove (e per questo più vitali) dell’arte del nostro tempo, nel quadro unitario e completo della conoscenza che l’uomo moderno deve avere della sua civiltà. È con queste parole che si apre la vicenda editoriale di Documento Sud, rivista promossa dal Gruppo 58 a Napoli, e in particolare da uno dei protagonisti dell’avanguardia napoletana di quegli anni, LUCA, pseudonimo di Luigi Castellano. Il periodico, come sottolinea ulteriormente il titolo dell’editoriale appena citato, “Non una rivista, ma un documento”, vuole evidentemente richiamare l’importante esperimento editoriale sviluppato da Georges Bataille tra 1929 e 1930, Documents, rivendicando un dialogo con la cultura surrealista francese che si arricchirà, come vedremo, di ulteriori spunti e suggestioni. La sensazione che Documento Sud voglia aprirsi in modo dialettico e composito a una dimensione europea viene confermata anche semplicemente dando una rapida occhiata ai nomi che, oltre naturalmente a citazioni da André Breton e Guillaume Apollinaire, compaiono sulle pagine del periodico, siano essi autori dei testi (in diverse occasioni già pubblicati altrove) o prestatori dei clichés fotografici: tra gli altri Francis Picabia e Gaston Fidèle, Edouard Léon Théodore Mesens ed Edoardo Sanguineti, Édouard Jaguer e Guido Biasi, Emilio Villa e Jacques Lacomblez. Tra i corrispondenti compaiono poi Enrico Baj (per Milano), Edoardo Sanguineti (Torino), Valeriano Trubbiani (Roma), Jacques Lacomblez (Bruxelles), Guido Biasi, Édouard Jaguer e J.J. Lebel (Parigi), E. L. T. Mesens (Londra), Julio Llinas (Buenos Aires), Ragnar van Holten (Stoccolma). Una formazione ampia dunque, in linea con l’obiettivo di Documento Sud: portare la cultura italiana, e meridionale in particolare, a un livello internazionale, innestando propositi di innovazione artistica sulla volontà di riformare il tessuto sociale del Meridione. Sicuramente un progetto ambizioso, che Documento Sud cercherà di perseguire nel migliore dei modi, dando un respiro largo alle sue pagine, che nel presente contributo saranno analizzate con la finalità di fornire al lettore, dando per acquisiti gli studi sull’avanguardia napoletana degli ultimi anni, un’introduzione critica alla rivista, individuandone le linee programmatiche e suggerendo futuri studi e approfondimenti. Fondamentale per capire la genesi del movimento e l’origine della rivista è l’articolo, anonimo ma verosimilmente redazionale, “Il ponte dell’avanguardia Napoli – Milano – Bruxelles – Paris”, che già nel titolo contiene la genealogia artistica del gruppo, ponendo Napoli in fila con alcune delle principali città europee. Ma l’ordine di scrittura rispecchia anche il processo di avvicinamento di Napoli prima verso il nord Italia e poi verso l’Europa: è infatti al 1953 che risalgono, come ricorda l’articolo, i primi contatti milanesi tra l’avanguardia napoletana in particolare Mario Colucci e Guido Biasi ed Enrico Baj, portando all’adesione degli stessi Colucci e Biasi alla Pittura Nucleare, firmando dapprima il manifesto Per una pittura organica (1957) e condividendo successivamente l’esperienza di Albissola Marina. Come l’articolo tiene a precisare, la condivisione avviene sulla base della seconda fase nucleare, in cui si accentua la materialità organica della pittura di Baj. Ma è Luigi Castellano a dettare il passo successivo, promuovendo nel 1958 l’omonimo gruppo formato da giovani artisti napoletani: Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca, Persico, e pubblicando nel giugno dello stesso anno il primo manifesto collettivo, accolto “in un clima di sgomento, di ostilità e di scandalo”. Punti di riferimento esterni alla città rimangono Baj e il gruppo nucleare, trovando inoltre una sponda utile e prestigiosa nella rivista Il Gesto, cui Biasi collabora negli stessi anni. Altro momento chiave giunge nel gennaio 1959, quando la mostra gruppo ’58+Baj alla galleria S. Carlo (l’unica galleria che sostiene il gruppo, come viene sottolineato) e il parallelo Manifeste de Naples, sanciscono definitivamente il connubio artistico tra la sperimentazione napoletana e quella nucleare, guardando contestualmente alle esperienze di Phases a Parigi e di Edda a Bruxelles: non a caso tra i corrispondenti di Documento Sud compaiono proprio Edouard Jaguer e Jacques Lacomblez, direttori delle due riviste. Contestualmente, è chiaro il ruolo strategico che in Italia svolgono periodici come i già citati Il Gesto e L’esperienza moderna, che non a caso condividono con la pubblicazione napoletana contraddistinta però da una maggiore “intransigenza” e autoreferenzialità autori e artisti, e rimandano nelle pagine pubblicitarie alle stesse riviste internazionali menzionate da Documento Sud, a sua volta posto tra le “riviste raccomandate” da Il Gesto.

La rivista diretta da Castellano, in tale contesto, si propone di essere “il ponte” tra varie esperienze, “servendosi soprattutto (e non è un paradosso), di molte inedite tradizioni locali e del materiale di “colore” del vecchio Sud”, cui va aggiunto un certo orientamento generale verso tutto quello sperimentalismo centro-europeo dalla seconda “vague” surrealista ai “Cobra”, ai “nucleari” ecc. il quale sottolinea una certa aspirazione universale alla più spregiudicata libertà delle forme, così come è facilmente riconoscibile nel programma dell’avanguardia napoletana e quindi nel suo organo) una ben precisa simpatia verso tutti i tentativi di instaurazione di una nuova infanzia figurativa (seconda una riscoperta in chiave “magica” del repertorio figurale. Così come vengono dichiarate le fonti ispiratrici, nella mappa culturale redatta all’interno di Documento Sud sono ben chiari anche i poli negativi e i riferimenti artistici da cui differenziarsi. È così che Mario Persico, in “Prima idea per una etica dello scandalo”, invita a superare le “ricette alla Fautrier o alla Wols” che portano ad allontanarsi da una adesione epidermica alla realtà, uccidendo “ogni percezione e sintomologia esistenziale”, e sostenendo invece “una mostruosa unità di pensiero”. Il pericolo, continua Persico, è di “schematizzare delle sensazioni”, riducendo “in formula ogni mistero . Ogni cosa è registrata, lo stupore quasi non esiste, ogni immagine ha il suo freddo cifrario”. La “condanna” di Wols e Fautrier nasce ovviamente dalla necessità di prendere le distanze da un tipo di pittura che, per le crettature della superficie e l’immersione materica del colore, avrebbe potuto essere avvicinata alle sperimentazioni degli artisti napoletani, che invece evidenziavano orgogliosamente la collaborazione con l’ambito nucleare, arricchito da risonanze surrealiste francesi e da un empito panico soggettivo unito alla riscoperta di una materia pittorica pulsante. Ne è chiaro esempio l’articolo “valore delle cose”, dello stesso Mario Persico, che si serve della pittura per spiegare il testo e viceversa, in un dialogo tipografico che costituisce uno dei tratti distintivi di Documento Sud. Gesto pittorico e scavo euristico procedono di pari passo, Persico si concentra sulla valorizzazione e riscoperta di “presenze paleontologiche ancora palpitanti” che progressivamente si impongono sulla superficie dell’opera, dando luogo a un incessante susseguirsi di “Fatti emozionali” enigmatici e sorprendenti di cui percepisco soltanto il fascino, Fatti o Cose che io definisco presenze ancestrali. Un naso, una bocca, un braccio, un organo genitale, o qualsiasi altra cosa può trasformarsi in un essere avente una propria “spina dorsale”. Siamo in effetti sempre all’interno di una dimensione figurativa che viene allentata e fratturata, percorsa da scoppi di colore, ma che pure resiste e riemerge. È una concezione che trova significativamente una stretta corrispondenza con le “immagini attive” teorizzate da Jaguer nell’articolo “Matiere + Mouvement = Feu” pubblicato nel primo numero de Il Gesto (giugno 1955). Una tale volontà artistica non può che confliggere con un altro indirizzo coevo, cioè gli ultimi esiti dell’Informale, oggetto di specifici attacchi sia su Il Gesto che su Documento Sud: in particolare nel contributo “Così come vi furono un tempo dei poeti maledetti” di Edouard Jaguer per quanto riguarda il primo; nell’articolo “invettive” di Guido Biasi e nel commento di Toni Toniato dedicato a Sergio Fergola per quanto riguarda il secondo. In particolare l’articolo di Jaguer, pur risalente al 1957, sembra funzionare da cornice di quanto emerso fino ad ora, affrontando una ricostruzione più ampia dello sviluppo storico artistico coevo, a partire dalla necessaria rivalutazione del Surrealismo e di Dada e dalla constatazione che le ultime urgenze artistiche nascono dall’“insurrezione contro la trascrizione puramente oggettiva della realtà”. Eppure, “questo movimento che va sotto il nome abusivo di ‘TACHISME’ o di ‘INFORME’ è evidente che non può minimamente pretendere di aver superato il surrealismo e l’arte astratta dei tempi eroici”.
Aperture e chiusure seguono nel raggio di poche righe: Jaguer da un lato concede a Pollock di essere animato “da una foga spettacolare, da una specie di rabbia sacra introducendo tecniche ancora poco usate”, ma dall’altro precisa subito che tuttavia tali tecniche erano “procedenti in gran parte da scoperte anteriori, sovente di marca surrealista”, e che in ogni caso “non si trovava ‘LA’ questa ‘ART AUTRE’ di cui si è tanto parlato . O piuttosto, si, fu questo ‘ART AUTRE’, ma di fatto esisteva già dall’avvento di Dada”. Se nei primi artisti “informali” Jaguer ravvisa dunque delle note positive (pur circoscritte e definite), è contro le derive attuali che viene puntato il dito “oggi assistiamo ad un’orgia reiterata di macchie colorate, sempre più aleatorie sprovviste delle connessioni psichiche che drammatizzavano l’opera di Wols o di De Kooning”, individuando invece le radici di un’avanguardia genuinamente rivoluzionaria nell’“azione considerevole del gruppo ‘REFLEX’, del movimento Cobra (1948-1951) e l’attività vigorosamente polemica del MovimentoNucleare e di Milano”. È grazie a questi movimenti che: Ritroviamo finalmente l’imprevisto e l’arte tornerà ad essere quello che deve essere: non soltanto immagini, choc o esplosioni di immagini, ma ineguagliabile strumento grazie al quale l’uomo può decifrare un impero mentale senza limiti o costrizioni; comunicazione e scambio fecondo tra questo impero mentale e i trabocchetti, i drammi, gli abissi del mondo quotidiano, dell’universo sociale. Analogamente a Jaguer, Biasi evidenzia come sia “difficile tollerare le esibizioni di quegli ambigui e pazzi araldi di un gioco detto ‘informale’ basato sull’equivoco dell’astrazione-commossa o della commozione-astratta”: non è possibile, precisa ancora l’artista napoletano, aggiornare la cristallina geometria di Mondrian o di Kandinsky [sic] immergendola in un bagno di acido solforico. Queste follie hanno prodotto oggi una moda, un gusto che, lungi dal nascondere e dal dimenticare la provenienza dei neutri e aridi campi del formalismo, si reggono unicamente sulle superfici rugose, sui sacchi ricuciti insieme, sulle spatolate grasse, sui segni, sulle macchie e sui giochi polimaterici fini a se stessi. Il commento di Toniato, accompagnato da due opere di Fergola , si concentra sulla definizione della pittura come espressione di un dettato interiore, capace di tradurre “una aderenza assoluta alle strutture fenomenologiche e psicologiche” del mondo contemporaneo in “presenze emergenti di una concreta esperienza, di una situazione vissuta nelle sue varie dimensioni ed implicazioni”. Non c’è più il simbolo allora, quanto piuttosto “segni” che nascono da una “de-simbolizzazione dell’oggetto” e che portano in sé memoria del “mimetismo surreale di una loro originaria relazione”. In sostanza, Toniato vuole marcare la lontananza rispetto alla “sensibilità inerte di una incontrollata visione informale”,rispetto alla quale, a suo parere, le opere di Fergola, così come quelle degli altri pittori d’avanguardia napoletani, portano evidenti le tracce di un’archeologia visuale, da ritrovare sia nei ricordi personali, sia negli archetipi mitici meridionali: elementi questi che emergono anche nella scelta di disseminare la rivista di proverbi napoletani e di inserire spesso una foto dedicata a squarci di vita partenopei nelle prime pagine dei diversi numeri. Del resto, il ruolo chiave della figurazione viene giocato anche nel campo della scultura, come dimostra l’articolo di Marcello Andriani su Antonio Venditti , capace di riscoprire temi arcaici, perfino legati “allo stupore religioso del primo uomo: animali, gruppi di figure, e ancora figure, figure, figure”, e di ridefinirli all’interno “di una mitologia nuova, complessa, misteriosa”. Venditti, sottolinea ancora Andriani, è “uscito sano e salvo dall’incubo dell’astrazione più amorfa”, facendo ritorno a una scultura in grado, oltreché di valorizzare gli aspetti formali, artigianali, della materia, anche di essere “metafora dei propri sentimenti” ancora una volta figurazione, elaborazione di un universo mitico ed echi di memorie personali si amalgamano all’interno di un’articolata ermeneutica interpretativa. Fedele controcanto di questo articolo è un’“invettiva” di Biasi, rivolta precisamente alla scultura contemporanea, ridotta a lamiere dai margini rosi, rosicchiati, corrosi, dentellati, arricciati, smangiucchiati, sfrangiati; ecco i fili contorti, mossi, commossi, bruciati, ecco i grovigli impastati, le materie nuove per il piacere delle dita e quello dell’occhio, le fasce e i fasci di ferro, il ruvido, l’aspro, la saldatura, il colore, lo smalto, la cromatura, la limatura, il verde-rame, le patine più svariate; ecco le mille e mille trovate farmaceutiche per il grande teatro della suggestione e della libidine dell’occhio, l’apparecchiatura della forma, la materia per la materia, il gusto per il gusto. La materia dà spettacolo da sola, senza eccessivi interventi una paralisi davvero preoccupante.

Ma figurazione non vuole dire ovviamente scadere nel realismo, visto come conseguenza della negazione della libertà espressiva nei paesi socialisti. Lo testimoniano almeno due articoli: “L’avantgarde en Pologne” di Alexandre Henisz e “Realismo socialista nella Repubblica Democratica Tedesca” di Walter Fedler. Nel primo l’autore, parlando dell’Esposizione d’Arte delle 32 Repubbliche Popolari svoltasi a Mosca nel dicembre 1958, sostiene che il padiglione polacco fosse stato il più visitato, scandalizzando gli “ortodossi” del partito ed esaltando invece il pubblico per il tentativo di riprendere il dialogo con le avanguardie europee, interrottosi dapprima a causa della guerra e poi per le imposizioni staliniste di sviluppare un’arte di impronta realista. Anche Fedler, nel suo pezzo centrato sulla situazione delle arti nella Germania Est, non esita a denunciare una situazione in cui tutto è stato ridotto al livello di “una cattiva arte di fare manifesti”, soggetta alle volontà “dell’onnipotente funzionario culturale” e succube di un contenuto che non deve essere “in disaccordo con le direttive dell’ufficio politico. Vive soltanto il ‘realismo socialista’, l’arte di fare manifesti del pittore politico”. L’obiettivo dei due articoli è evidentemente quello di funzionare da raccordo con quelli rivolti contro l’Informale, per evitare che si ingenerasse nei lettori l’equivoco di assimilare la volontà di sovversione culturale del Gruppo 58, a quella militante partitica degli artisti legati al P.C.I.. Quella promossa dall’avanguardia napoletana è invece una lotta morale che nasce prima di tutto da un’esigenza personale e intima di “liberare” il Mezzogiorno da un’asfissia morale e culturale, con il proposito di “realizzare una graduale ibridazione dei diversi modi di pensare e di essere, tanto necessari a restituirci un individuo più vivo e sensibile”. L’accusa di essere provinciali viene ribaltata dagli artisti napoletani ammettendo da un lato il legame inscindibile con il territorio di provenienza sottolineato anche nel lessico: “ovemai fossimo ‘guappi di cartone’ il nostro agire sarà sempre meno mortificante che se fossimo artisti disonesti e uommene e niente”, e dall’altro enfatizzando la necessità di promuovere un’arte che non sia imbrigliata in griglie omologanti . D’altra parte, i termini “provinciale” e “dialettale”, intesi in senso provocatorio e positivo, possono essere utili per leggere alcune delle caratteristiche della poetica portata avanti negli anni da Documento Sud, che tra i suoi obiettivi pone anche quello di valorizzare e risemantizzare la tradizione popolare napoletana: non a caso, in uno degli editoriali precedentemente citati si dichiarava di voler dare vita a “un sud laico e popolare”. È così che nascono, in senso antifrastico, i continui richiami alla superstizione e alla numerologia, riletti però secondo un’ottica surrealista, in grado cioè di attivare memorie recondite e creare cortocircuiti inventivi. Ne è un chiaro esempio l’inserto in cartoncino rosso di quattro pagine dedicato alla prima mostra del Gruppo 58+Baj , la cui copertina è riquadrata dalla scritta “La superstizione contro la ragione”, commentata a sua volta dall’aforisma di Goethe che recita “La superstizione è la poesia della vita: in modo da non ferire il poeta di essere superstiziosi”. Funziona da controcanto giocoso il trafiletto intitolato “Il vostro destino” al centro della pagina, in cui la superstizione, dopo l’apertura a Goethe, torna a essere ricompresa nel suo senso tradizionale legato appunto alla numerologia e alle previsioni astrologiche. È evidente però che per Documento Sud, nella prospettiva di rileggere e valorizzare le credenze meridionali, la superstizione sia vista innanzi tutto come la capacità poetica di trasfigurare la realtà, facendo emergere sulla superficie significati arcani e reconditi: l’allusione all’arte degli aderenti al Gruppo 58 è lampante, e infatti molti commenti ruotano attorno al potere immaginifico delle pitture degli avanguardisti napoletani, in grado di filtrare e trasfigurare la realtà attraverso la propria sensibilità. La superstizione allora non sarà più un retaggio culturale da nascondere e lasciare nell’oblio, quanto piuttosto un’anticipazione, per certi versi, degli studi psicanalitici. A questo sembra almeno alludere Mario Persico nell’articolo “Gli atti deformanti”, accompagnato da una sua opera del 1959 .
Persico sostiene che ogni trasformazione, innovazione decisiva, risieda “in un ‘atto’ o in una ‘deformazione’, indipendenti dalla realtà fino a quel punto concepita; vale a dire in una relazione illogica con essa”: da qui nascono dipinti e lavori in grado di trovare rapporti nuovi con la contemporaneità, a partire da una lettura personale del reale. È un percorso evolutivo che avviene in prima battuta nell’interiorità dell’artista, seguendo un processo euristico che deve molto alla psicanalisi e alle letture surrealiste ad essa connesse: “Freud ebbe coscienza della forza e delle conseguenze di quel ‘non logico’, e mosse da ‘esso’ per esplorare i labirinti dell’IO”. Associazioni mentali incongruenti, capacità inventive fantastiche: è la stessa interpretazione che Henry Delau offre delle pitture di Luca nell’articolo Imagerie cosmica meravigliosa . Delau spiega infatti che una delle principali qualità di Castellano è quella di trasportare l’osservatore in una dimensione arcana, solcando territori inesplorati eppure visibili, superfici artificiali eppure memori di una loro profonda naturalità, esistenti da sempre. Un ruolo chiave, in questa dinamica di riti arcani e tradizioni riaffioranti, è svolto dalla città di Napoli che permea di sé la rivista, sia attraverso la pubblicazione di proverbi e detti locali, sia attraverso opere d’arte che la presuppongono o la ritraggono direttamente. Ad esempio Castellano in Napulione e’ Napule , pubblicata sul secondo numero della rivista, con procedimento simile a quello di Baj di cui si dirà a breve, sovrappone una sua fotografia su una cartolina con il golfo di Napoli: il busto dell’artista emerge dal Vesuvio sullo sfondo, esprimendo un legame indissolubile con la città, e rendendo manifeste quelle intersezioni tra razionale e irrazionale, visibile e invisibile, di cui parla Delau nel suo articolo. Ma questa rilettura in chiave surrealista di Napoli contraddistingue tutto il periodico, a partire dalle foto inserite a fianco dell’editoriale nei primi quattro numeri, e raffiguranti aspetti tipici, folkloristici o legati all’ambito religioso popolare: nel primo numero una fila di reggiseni, nel secondo un teschio sormontato da una candela in quello che sembrerebbe un sepolcro sotterraneo, nel terzo un “madonnaro” all’opera, nel quarto una strada o un cortile con vari oggetti disposti alla rinfusa. L’intento è evidentemente quello di far scattare nel lettore collegamenti visivi e mentali inaspettati, cercando di rendere tangibile, come scrive Mario Persico in un’altra circostanza, “questa compenetrazione di ‘essenze’, facendo convivere il pessimo e l’ottimo, il brutto e il bello, il bene e il male (in tutte le loro accezioni) e tutte le apparenti antitesi che si possano immaginare”. Ideali antenati di simile operazione non possono dunque che essere “i Duchamp, i Max Ernst, gli Schwitters e altri, quando introdussero nel surrealismo il ‘readymade’ e ‘l’objet trouvé’”. Tuttavia, spiega ancora Persico, “essi miravano a produrre una serie di ‘schoc’ [sic] del tipo più generale, a trasferire sulla tela quel ‘fortuito incontro di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio’ profetizzato da Lautreamont [sic]”, mentre finalità del Gruppo 58 è “annullare ‘il giudizio di valore’, formulare un’estetica dell’accettazione totale”. Ancora più diretto è Guido Biasi che nel suo “Elogio del rifiuto”, partendo dall’assunto secondo cui “oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile”, sostiene la centralità poetica e artistica “di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi”, capaci di riscattare la loro precedente destinazione funzionale attraverso una vita postuma, purificandosi, e tornando a essere “significato” e non più “funzione”: “Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano”. Le carte sono così definitivamente svelate ed è di nuovo Biasi, nelle “invettive” del quarto numero, ad affermare con decisione che “sia inutile negare che il Surrealismo abbia deposto le sue uova segrete in un luogo da noi ereditato, e che esse abbiano maturato il senso delle formidabili avventure che noi ci apprestiamo a vivere. Assistiamo oggi alla metamorfosi del fumoso fantasma onirico in allucinante Realtà di carne”. Quello che viene reclamato è dunque il permanere dell’immagine che segue sentieri associativi e meccanismi visivi surrealisti, abbinati a un senso tattile della pittura ma nel caso del rifiuto e del reimpiego entrano in gioco necessariamente anche Pierre Restany, il Nouveau Réalisme e il suo sviluppo successivo, ovvero la Mec-art, di cui infatti farà parte anche Bruno Di Bello. Snodo fondamentale sono in questo senso le sperimentazioni portate avanti da Baj, tra cui gli “specchi”, che vengono interpretati da Andriani come metafora della fantasia inventiva dell’artista “che ‘specula’, al momento, sulla magia delle superfici ‘speculari’”, ma soprattutto come manifestazione eclatante “di una visione violentata dalle crepe e moltiplicata dai frammenti apparentemente sconvolti”, che rivela a sua volta “un altro aspetto (magico ma presente fino alla più spiccata suggestione e sensazione delle dita) di quella ambiguità e plurivocità fantastica che lo affascinano fin dal fortunato e fortunoso periodo delle ‘montagne’ (1957-58)”. Non sorprende allora che nello stesso numero le opere di Colucci siano lette alla stregua di “larve e immagini di larve; larve future di prefigurazioni presenti, simboli di fatti senza data – la sua bicicletta di smalti pedala dentro liquidi soli verso violenze cromatiche dalle cifre inaudite”, in cui dunque dato pittorico e contenutistico si innervano l’un l’altro. Non diversamente, i lavori di Cena sono frutto di una profonda riflessione interiore “i suoi segni sono dettati da un impulso interno, per un discorso intimo con una realtà dello spirito”, che attraverso un “lungo processo formativo” si concretizza in un “mondo fatto di un messaggio di segni e forme” che “materializza sensazioni e percezioni nuove per un’epoca nuova”. È un sovrapporsi di stati emotivi e di materia pittorica che arriva a concretizzarsi visivamente in alcune opere presentate sul periodico, a partire dai quadri di Enrico Baj. È lo stesso artista a presentare una delle sue opere nate dalla sovrapposizione di oggetti incongruenti su pitture precedenti , facendo “apparire l’arrivo di alcuni sputnik o di personaggi di altri mondi su fondi assolutamente convenzionali”. L’effetto di spaesamento era accresciuto appunto dallo stratagemma di ricorrere a “fondi dipinti da altri pittori artigianali”, quanto di più “convenzionale e antiemozionale esista nel campo della visione”: un effetto simile, aggiunge Baj, a quello provato quotidianamente da ciascuno di noi allorché, uscendo di casa, si immette in un sistema preesistente, prendendovi parte riferimento eclatante alle “passeggiate” surrealiste. Dall’ambito surrealista il Gruppo 58 eredita anche le allusioni e un linguaggio critico afferente alla sfera sessuale, come dimostra, tra l’altro, l’articolo “L’Eden e la satrapia del sesso” che Riccardo Barletta dedica a un dipinto di Sergio Fergola (Elegia) . Tutto il commento, rispettando del resto l’iconografia del quadro, si sviluppa sui poli centrali della composizione l’elemento fallico accanto a Eva, “esaltato da un alone luminoso”, e invece “l’esplosione vitalistica di una macchia di rosso acceso”, accanto ad Adamo, che arrivano a enucleare “il mito della caduta, il valore del sacro, il destino del mondo, l’antitesi tra sesso ed amore”. A livello pittorico, Fergola sviluppa invece un denso “simbolismo realistico” in cui riesce a conciliare il rispetto della forma e della figurazione con un uso espressivo del colore, rendendo “esperibili esistenzialmente le realtà rappresentate”. Una pagina propriamente surrealista è poi quella in cui a Il tagliatore di teste (collage del 1960) di Mario Persico viene affiancato uno scritto di Marcello Andriani , che svolge il tema della decapitazione dando vita a diversi micro racconti di poche righe: dalla richiesta di un marito che cerca “Tagliatore di Teste Anche Non Autorizzato Disposto Sopprimere Mia Moglie” alla narrazione postuma di un condannato a morte (“Sentii la lama fredda dividere in un istante più rapido degli istanti normali la mia testa dal mio busto. La mia nuca batté con forza contro il fondo del paniere di vimini”), dall’elenco di decapitati “celebri” (Luigi XVI, Golia, Maria Antonietta, Tommaso Moro, Oloferne) alla redazione di un verbale poliziesco con finale satirico “La perizia necroscopica ha potuto stabilire che la decapitazione è stata eseguita in maniera pressoché perfetta, si ha ragione dunque di sospettare che l’assassino sia un macellaio o un chirurgo”. In un simile contesto non poteva poi mancare un esplicito riferimento al librocollage surrealista forse più famoso: La Femme 100 Têtes di Max Ernst. Ragnar van Holten nel suo pezzo affianca un’incisione di François Boucher tratta da Faunillane ou l’Infante Jaune, di Carl Gustaf Tessin, in cui il principe Perce-Bourse ritrova, passeggiando nel parco, la testa di una statua femminile, che poi ricomporrà per intero, a una delle incisioni di tema analogo di Max Ernst, ricavandone, a suo dire, un documento storico sui diversi atteggiamenti e comportamenti.
Se Ernst è richiamato in questi articoli, evidenti ricordi duchampiani giocano d’altra parte un ruolo decisivo nella “Lunga lettera da Paris” di Guido Biasi a Mario Persico, in cui il primo racconta al secondo il suo incontro nella metropolitana parigina con la “Giovane Masturbatrice presso il finestrino, sonnolenta, con l’ultimo piacere spento come una cicca sotto gli occhi fumosi. Aveva le unghie tutte lunghe, eccezion fatta per il medio della destra dove l’aveva cortissima”. Ricordi surrealisti, ambizioni poetiche, avanguardie artistiche dialogano dunque sulle pagine di Documento Sud che tra 1959 e 1961, come visto, prova ad attirare l’attenzione del mondo culturale sul Meridione d’Italia, collegandolo alle grandi imprese artistiche italiane ed europee, in particolare milanesi, francesi e belghe. Il tentativo sicuramente in parte riesce, anche grazie alla preziosa collaborazione con artisti e critici del calibro dei vari Jaguer e Lacomblez citati in apertura, ma non avrà forza a sufficienza per andare oltre i sei numeri del periodico. Tuttavia, il seme della rinascita era stato piantato e crescerà negli anni seguenti attraverso gli esperimenti editoriali di Quaderno tre fascicoli concentrati nel 1962, promossi da Stelio Martini e maggiormente virati sull’ambito della Poesia Visiva e Linea Sud sei numeri tra 1963 e 1967 promossi di nuovo da Castellano riviste diverse tra loro e anche rispetto a Documento Sud, che perfino nel suo aspetto tipografico aveva cercato di funzionare da ponte con altre esperienze d’avanguardia. Nel presente contributo si è cercato di offrire una prima panoramica d’insieme della rivista, evidenziandone gli apporti surrealisti e la parabola creativa, ma naturalmente molte altre piste d’indagine sarebbero ancora percorribili, analizzando ad esempio in profondità l’impatto della rivista sugli artisti napoletani intorno al 1960, considerando anche che molti degli aderenti al Gruppo 58 lasciarono poi la città. Un filo che però in qualche modo non si interruppe, grazie ancora una volta a Luigi Castellano e alla sua Linea Sud.
Guido Biasi
Si forma presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la direzione di Emilio Notte. Nel capoluogo partenopeo ha modo, giovanissimo, di frequentare l’ambiente avanguardistico locale, in quegli anni vicino alle posizioni della Pittura Nucleare milanese. È in questo modo che Biasi viene a diretto contatto con il gruppo lombardo costituito attorno a Enrico Baj e, nel 1957, redige il Il manifesto per la pittura organica e il Manifesto di Albisola Marina assieme a Mario Colucci, Piero Manzoni, Ettore Sordini e Angelo Verga. Nel 1958 partecipa alla fondazione del Gruppo 58 con Luca (Luigi Castellano), Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello e Sergio Fergola ed inizia a collaborare con «Documento sud», rivista dell’avanguardia napoletana diretta dallo stesso Luca. Negli anni Sessanta si trasferisce a Parigi, pur continuando a mantenere serrati rapporti con l’Italia, ed in particolare con Napoli e Milano. In questi anni partecipa alle attività del gruppo Phases, collaborando con l’omonima rivista, e scrive per la rivista belga «Edda». Espone in numerose e prestigiose collettive, come Surrealist Intrusion in the Enchanters’ Domain, curata a New York da André Breton e Marcel Duchamp nel 1960, mentre tiene esposizioni personali in tutta Europa (Basilea, Francoforte, Amburgo, Colonia, Londra, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Stoccolma, Grenoble, Malmoe). Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia ed è invitato ad esporre anche alla Quadriennale di Roma. Sempre nello stesso anno è invitato presso la Biennale Internazionale di San Paolo. Della sua arte si sono occupati critici come Barilli (Bologna, Galleria De' Foscherari arte contemporanea, 1966; Le museologie di Guido Biasi, Milano, Galleria Blu, 1977), Crispolti (Torino, Galleria il Punto, 1963), Fagone (Milano, Galleria Blu, 1974; Brescia, Galleria San Michele, 1975), Varga (Milano, Studio Palazzoli, 1975). Con Edoardo Sanguineti ha realizzato il testo di poetica Restaurazione e rivoluzione, compreso nel catalogo della prima mostra personale dell’artista (Napoli, Galleria Il Centro 1964).
In alcuni saggi dedicati alla pittura del secondo Novecento, lo stesso Sanguineti ha attribuito una notevole rilevanza all’attività di Guido Biasi. L’amicizia tra i due è infine sottolineata dalla poesia Il palombaro e la sua amante dedicata da Sanguineti a Biasi.
Bruno Di Bello
Bruno Di Bello è nato a Torre del Greco, Napoli, nel 1938.Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli inizia a esporre e, con Biasi, Del Pezzo, Fergola, Luca e Persico dà vita al Gruppo
’58. Tra i meriti di questa giovane formazione c’è quello di aver stabilito un contatto diretto con le coeve vicende milanesi, grazie soprattutto al periodico “Documento Sud”, ideale corrispettivo di “Azimuth”. Dopo le prime mostre di gruppo alla Galleria San Carlo e alla Galleria Minerva di Napoli, nel 1960 Di Bello ottiene una prima personale alla Galleria 2000 di Bologna. Nel ’65 inizia a inserire la fotografia nei suoi lavori, nel ’66 ha la prima personale alla Modern Art Agency di Lucio Amelio, nel 1967 comincia a usare direttamente la tela fotosensibile e si trasferisce a Milano. L’anno seguente espone con il gruppo della Mec-Art, teorizzata da Pierre Restany. Di Bello indaga sulle possibilità di scomposizione dell’immagine, sulle icone dei protagonisti delle avanguardie storiche e dei propri miti artistici (Klee, Duchamp, Man Ray, Mondrian e i costruttivisti russi) sviluppando così un’idea di arte come riflessione sulla storia dell’arte moderna. Espone per la prima volta a Milano da Toselli nel ’69 e nel ’70 alla Galleria Kuchels, Bochum, alla Galleria Wspòlczesna, Varsavia e alla Galleria Bertesca di Genova e alla Biennale di Venezia,
Dal 1971 inizia la collaborazione con lo Studio Marconi: un’installazione composta da 26 tele fotografiche con la scomposizione dell’intero alfabeto. Vi esporrà ancora nel ’74, nel ’76, nel ’78 e nell’81. Dai primi anni Settanta sulle sue tele fotografiche compaiono parole e concetti che, scomponendosi e ricomponendosi, animano un gioco di perdita e di ritrovamento del significato. Nel ’74 espone alla Galleria Art in Progress a Monaco e alla Kunsthalle di Berna, nel ’75 alla Galleria Müller di Stoccarda e all’I.C.C. di Anversa, nel ’77 alla Galleria Lucio Amelio di Napoli e al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam. Espone nel ’78 alla Galleria Rondanini di Roma e nell’estate 1980 realizza un grande lavoro per il Festival di Spoleto.Altri lavori degli anni Settanta/Ottanta sono eseguiti disegnando sulla tela sensibile direttamente con il raggio di luce di una torcia elettrica, e negli anni Ottanta Di Bello sperimenta un nuovo modo di usare la tecnica fotografica, giustapponendo tra la fonte luminosa e la tela figure umane e oggetti che proiettano su quest’ultima le loro ombre, sviluppando poi la tela fotosensibile con larghe pennellate di rivelatore come in Apollo e Dafne nel terremoto, eseguito per la collezione Terrae motus allestita da Lucio Amelio nel 1987 ed esposta a Parigi – Grand Palais, ora in permanenza presso la Reggia di Caserta.
A partire dagli anni Novanta. Di Bello si dedica allo studio di nuove tecnologie operando ricerche sulle immagini sintetiche, la fotografia digitale e le nuove geometrie visualizzabili al computer. Espone i nuovi lavori alla Galleria Giò Marconi nel 2003,nel 2004 alla Plurima di Udine, nel 2005 a Napoli alla Fondazione Morra e nel 2008 alla Galleria Elleni di Bergamo.Nel 2010 la Fondazione Marconi gli dedica una grande antologica e per l’occasione esce la monografia Bruno Di Bello – Antologia, edita da Silvana Editoriale per la VAF-Stiftung di Francoforte, a cura di Volker Feierabend con testi di Michele Bonuomo, Mario Costa, Marco Meneguzzo, Angela Tecce. Nel 2011 ha una personale al Museo MAC di Niterói a Rio de Janeiro, mostra che ha avuto un esordio al Museo della Certosa di Capri e un seguito al PAN – Palazzo delle Arti, a Napoli. Le tre mostre nascono per iniziativa dell’associazione Arteas, animata da Maurizio Siniscalco, con la consulenza del critico Mario Franco. Nel 2016 ripropone la mostra alla Fondazione Marconi con nuovi lavori. Nel 2011 tiene una “lectio magistralis” al Politecnico di Milano nel corso del professore Alberto Aschieri ed espone il suo Grande vetro 2 del ’75 alla mostra dei lavori del corso di “Progettazione Architettonica 3” nel patio del Politecnico di Milano.
Nel 2017 viene invitato al convegno “Linee di Energia, oltre il quadro: forme e sperimentazioni degli anni Sessanta” , Produzione, conservazione e trasmissione dell’arte italiana del ‘900, Grattacielo Intesa Sanpaolo, Torino organizzato da IGIIC (Gruppo Italiano dell’International Institute for Conservation).
Luca ( Luigi Castellano )
Consegue la laurea presso la Facoltà di Architettura di Napoli. Sorretto da un’intensa tensione politico-ideale, è stato uno degli artefici e protagonisti dell’avanguardia artistica napoletana, svolgendo un’intensa attività nel campo delle discipline della comunicazione. Il percorso artistico di Luca si dispiega in un ampio ventaglio espressivo non solo nella produzione propriamente artistica. I suoi multiformi interessi hanno dato vita ad una serie ininterrotta d’iniziative sostenute da un costante impegno volto al superamento della stanca tradizione artistica napoletana, in una visione di più ampio respiro nazionale. Verso la fine degli anni Quaranta segue le mostre del “Gruppo Sud” mentre nel ’50 si avvicina al gruppo d’arte Concreta. Come artista, nel ’58, espone “Omaggio ad un vecchio samurai”, opera che aprendosi all’incontro con la pittura nucleare, è, al tempo stesso, all’origine del “Gruppo 58” fondato insieme a Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola e Persico. Nel ’59 partecipa al Manifeste de Naples, redige il manifesto nullista e crea la rivista “Documento Sud”, da lui diretta fino al ’61. Nel primo editoriale ne sono enunciati i principi: la volontà di divulgazione delle nuove esperienze dell’arte e quella di operare per un migliore futuro del Sud. Negli anni Sessanta realizza la serie degli arcipelaghi con l’inserto materico di reti da pesca. Dal ’65 crea collage con immagini e parole prelevati dalla carta stampata, come nell’opera Advenia del 1973 i cui risultati formali richiamano il linguaggio e le tecniche della Pop Art. Tale opera segna l’inizio di un arricchimento espressivo attraverso una ricerca integrata tra immagine e parola, che giungerà negli anni novanta alle “prove” di poesia visiva e alle sue variazioni segniche. Ha realizzato e diretto numerose edizioni di stampa alternativa, tra cui “Linea Sud” (1963-1967), “No” (1969-1971), “Città & Città” (1983-1984), ed ha promosso, oltre il “Gruppo ’58”, l'”Operativo 64′; il “Gruppo di Linea Sud”, “l’Operativo gruppo studio P. 66”, gli “Attivi di Prop, Art”, “La cellula grafica campana della Comune Sud”.
Lucio Del Pezzo
Lucio Del Pezzo è nato nel 1933 a Napoli, dove si è formato presso l’Accademia di Belle Arti e l’Istituto d’Arti Applicate. Nel 1958 partecipa alla fondazione del
Gruppo 58, d’impostazione neosurrealista e neodada, assieme ad artisti quali Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luca (Luigi Castellano) e Mario Persico. La storia del gruppo è strettamente legata al Manifesto nuclearista del 1952 redatto da Enrico Baj e Sergio Dangelo a Milano, del quale decidono di seguire le tracce, promuovendo un’arte che contenga una ripresa della tradizione iconologica locale rompendo però gli schemi figurativi tradizionali. Sotto la guida di Luca, il Gruppo 58 si dota della rivista
Documento –
Sud come mezzo di promozione del proprio lavoro ed espone a Napoli, Firenze, Roma e Milano. Del Pezzo inizia qui a elaborare il proprio linguaggio artistico, attraverso pitture-oggetto, assemblage in cui un tono ludico si contrappone con un sentire mistico, oltre a rapporti cromatici e formali. Il collage tra
objet trouvé e stampe di provenienza popolare dà alle sue opere la valenza di pittura e scultura allo stesso tempo: nei suoi lavori i tratti pop, inseriti nel tempo presente – si mescolano con una temporalità metafisica e personale. Nel 1959 Del Pezzo firma il
Manifeste de Naples, che raggruppa i componenti della neoavanguardia napoletana, di quella milanese e altri esponenti della cultura dell’epoca come Nanni Balestrini, Paolo Radaelli, Leo Paolazzi, Sandro Bajini, Edoardo Sanguineti, Luca, Bruno di Bello, Mario Persico, Guido Biasi, Giuseppe Alfano, Donato Grieco, Enrico Baj, Angelo Verga, Ettore Sordini, Recalcati e Sergio Fergola. Nel 1960 si trasferisce a Milano su invito di Enrico Baj e, nello stesso anno, Arturo Schwarz ospita una mostra personale dell’artista nell’omonima Galleria Schwarz. A contatto con le opere di Sironi, Carrà, Morandi e soprattutto di De Chirico, Del Pezzo tende ad ampliare in modo sempre più evidente la componente metafisica nel suo linguaggio, affiancandolo con forme geometriche decontestualizzate. Conia anche la definizione di “
Visual Box”, per indicare i diversi piani sui quali si dispongono i propri lavori, a metà tra immagine e oggetto tridimensionale: il suo repertorio si distingue per i pannelli geometrici monocromi, sui quali sono inserite mensole o scavate concavità, che sostengono oggetti come birilli, uova di legno, bocce, manichini, talvolta molto colorati, con il consueto carattere ludico e metafisico. Intorno al 1965 l’artista si trasferisce a Parigi, dove occupa il vecchio studio di Max Ernst in rue Mathurin Régnier 58. Risale al 1968 la sua prima personale nella capitale francese. L’affermarsi della neoavanguardia
Nouveau Réalisme e del desiderio di “riappropriazione del reale” tanto divulgato lo influenza profondamente e lo induce a riflettere sull’elemento dello “scarto”, del rifiuto all’intero della nuova società di massa come dato poetico.Nel 1966 Del Pezzo si affianca ai maestri dell’astrattismo e concretismo italiano, in primis Eugenio Carmi, all’esperienza della
Cooperativa del Deposito di Boccadasse, dove tiene una mostra personale. Nello stesso anno gli viene dedicata una sala personale alla XXXIII Biennale di Venezia e Del Pezzo inizia ad ottenere numerosi riconoscimenti nell’ambito artistico internazionale. Negli anni Settanta collabora in veste di grafico con l’azienda Olivetti e con il gruppo automobilistico Renault Italia. Nel 1970 Arturo Carlo Quintavalle cura un’importante antologica dedicata all’artista al Salone dei Contrafforti della Pilotta di Parma, seguita, nel 1974, da una retrospettiva alla Rotonda di via Besana a Milano curata da Guido Ballo. Nel 1979 Del Pezzo rientra definitivamente in Italia e si stabilisce a Milano, dove diventa professore per la cattedra di “
ricerche sperimentali sulla pittura” alla nuova Accademia di Belle Arti di Milano al posto di Emilio Tadini. Stabilisce il suo studio sui Navigli di Milano, sua città di adozione. Il suo linguaggio artistico per tutto il suo percorso ha oscillato tra linguaggio pop, neorealista, dadaista e metafisico. Le sue opere, difficili da etichettare, sono delle “
Visual Box” in cui l’elemento architettonico e scultoreo, racchiude pittura, collage e oggetti. Un linguaggio ludico e sognante sempre usato da Lucio Del Pezzo come lente di ingrandimento per analizzare e criticare la società di massa e il suo consumismo. Le sue opere, tra quelle di altri artisti, al momento fanno parte di un’iniziativa di beneficenza lanciata dalla Fondazione Pomodoro assieme allo Studio Marconi, e vengono donate a chi sostiene l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri nella lotta contro il Covid-19.
Sergio Fergola
Sergio Fergola (Napoli 1936-1996)Ha lavorato, vissuto ed esposto in varie città italiane ed estere tra cui Napoli, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Parigi, Sidney e New York (sue opere al Museum of Modern Art). Nel 1972 è stato invitato alla Biennale di Venezia e nel 1974 alla Biennale d’arte di Milano. Nel 1950 si sente vicino al Movimento Nucleare con Enrico Baj, Joe Colombo, Mario Colucci, Sergio Dangelo, Lucio Del Pezzo, Bruno di Bello, Piero Manzoni, Mario Persico. Per poi fondare il Gruppo 58 insieme a Del Pezzo, Di Bello e Persico. In questo periodo esprime la possibilità della pittura di concentrarsi sui propri mezzi espressivi tra l’immaginario e il letterario, con richiami all’espressionismo, all’esperienza compiuta studiando la manualità di Calder e l’action painting di Pollock, e a tutti gli elementi della sua formazione classica da Van Eyck al poliedrico artista di corte Cosmè Tura.Fergola scrive e firma nel “Manifeste de Naples” a cui aderiscono anche Enrico Baj e Sanguineti, poi artisti che ritroviamo nel Gruppo 58 e altri.
Mario Persico
Nato a Napoli nel 1930. Si forma presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli sotto la direzione di Emilio Notte e già nei tardi anni Quaranta espone alcune sue opere in mostre collettive nella città partenopea. Nel 1955 aderisce al movimento nuclearista firmando il celebre Manifesto dell'Arte nucleare di Enrico Baj e, tre anni più tardi, è, quindi, tra i fondatori del Gruppo 58 con Biasi, Del Pezzo, Fergola e Luca (Luigi Castellano). In questi anni diventa redattore della rivista «Documento Sud» e allestisce le sue prime mostre personali sia in Italia (Ischia, Milano, Roma, Viareggio, Genova, Napoli) che all'estero (Stoccarda, Ulm, Chicago, Tubinga, Colonia, ecc.). Dopo la chiusura di «Documento Sud» prosegue la sua attività editoriale collaborando a «Linea Sud», diretta e fondata da Luca nell'anno cruciale 1963. I suoi interessi sperimentali lo conducono, negli anni successivi, a molteplici collaborazioni artistiche, dalla realizzazione di Fogli sperimentali (Guanda 1966) alle illustrazioni per Ubu Cocu di Alfred Jarry, tradotto da Luciano Caruso; dalla realizzazione di scenografie e custumi per lo spettacolo Laborintus II di Luciano Berio e Edoardo Sanguineti, sino, nel 1995, alla stesura del Manifesto dell'Antilibro con Dorfles, Pirella e lo stesso Sanguineti. Tra gli anni Ottanta e l'inizio del nuovo millennio Persico collabora con la rivista «NDR» e con l'Ististuto patafisico partenopeo di cui diventa "Rettore Magnifico" nel 2001. Tra le collaborazioni editoriali, oltre a quelle con Sanguineti (Tecnomemoria, Il Laboratorio 1980; Libretto, Pirella 1995; Omaggio a Goethe, Sottoscala 2003; Patacofanetto, Socrate 2003; Omaggio a Shakespeare, Manni 2004), meritano di essere ricordate pure quelle con Jan Orto (Acqua dall'alto, Il Laboratorio 1983), con Franco Cavallo (Veroniche/Le sedie dell'isterismo, Il Centro 1972; L'anno del capricorno, Rossi & Spera 1985); con Giulia De Rosa (Ossi di pollo a Coney Island, Il Laboratorio 1992), e con Luigi-Alberto Sanchi (Contro la lingua di Orfeo, Socrate 2002). Numerose sono anche le pubblicazioni di cartelle grafiche, tra le quali ricordiamo almeno quella pubblicata a Stoccarda dalle Edition Galerie Senatore nel 1970 con testo di Luca.
Galleria Area 24 Space
Napoli negli anni delle neoavanguardie La pittura tra gestualismo informale e abbrivio surrealista
dal 14 Gennaio 2023 al 25 Febbraio 2023
Solo per appuntamento. Festivi chiuso - Tel.
3396495904
Foto dell’Allestimento della mostra Napoli negli anni delle neoavanguardie La pittura tra gestualismo informale e abbrivio surrealista credit © Pina Della Rossa