Si ringrazia l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna per avere promosso questo studio e concesso l’utilizzo delle fotografie eseguiteda Andrea Scardova in Palazzo Leoni, sede della Biblioteca Guglielmi dell’Ibacn.


di Elisabetta Landi
 
Di proprietà del Reale Collegio di Spagna dal 1876, e sede della Biblioteca Guglielmi dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna dal 2011, Palazzo Leoni, con i suoi affreschi, si qualifica come un episodio fondamentale per la civiltà del fregio cinquecentesco rappresentata, qui, da due cicli narrativi eseguiti alla metà del XVI secolo nelle sale del piano nobile. Dedicati rispettivamente al II e al IV libro dell’Eneide, e ricondotti con varie opinioni a Nicolò dell’Abate e ai collaboratori che l’artista “ebbe in misura maggiore di quanto si crede” (Zucchini), gli affreschi si qualificano per l’esattezza e la filologia dei particolari, perfettamente rispondenti al verso del poema: una fedeltà a Virgilio senza precedenti(1). Di questa caratteristica, ravvisata dal Boscholoo e sottolineata altrove da De Jong (2), spiegai le motivazioni nel 2011 in un saggio sull’iconografia dei dipinti, pubblicato nella monografia sull’edificio promossa dall’Istituto Beni Culturali che in quell’anno aveva aperto al pubblico i battenti del palazzo, prima non visitabile, organizzando nei due vasti ambienti decorati la Biblioteca Guglielmi (3). Un’iniziativa encomiabile, che restituiva alla città una pagina di storia pressoché sconosciuta valorizzando gli affreschi, restaurati per cura del Reale Collegio di Spagna con un cantiere concluso nel 2008. Prendeva forma, così, una vicenda dimenticata rappresentata prima di tutto dal palazzo e dai suoi proprietari (4): Ludovico Leoni che nel 1519 ne affidò il cantiere a Girolamo da Treviso in collaborazione con Sigismondo Bargellesi, autore delle decorazioni in macigno, e Vincenzo soprannominato Camillo, il quale acquistò nuovi caseggiati e proseguì i lavori nel 1549, mentre a Bologna si concludeva il Concilio di Trento e prendeva forma la dimora del cardinal Giovanni Poggi: un evento e, forse, anche una sfida. Per quanto riguarda la paternità del progetto, Sighinolfi suggerisce il nome del Terribilia, al secolo Antonio Morandi (5): una proposta sensata dal punto di vista dello stile, e compatibile con il decoro dell’appartamento ultimato nel 1555, come ci informa la data che ho ravvisato nella grande sala, sul bordo inferiore del secondo riquadro, sotto l’indice puntato del personaggio raffigurato al margine (6) (ill. 1).
  Nel 1569 e nell’ 83 Vincenzo, il nipote di Vincenzo Camillo, ordinò altri “abbellimenti” ma all’epoca la decorazione era finita e si trattò quindi di un intervento di superficie per il quale è opportuno il riferimento a Francesco, il figlio del Terribilia (7).
Ai Leoni il palazzo appartenne fino al 1709 quando, in assenza di una discendenza maschile, Maria Caterina lo portò in dote al conte Pier Paolo Malvezzi Locatelli della Selva. Dalle nozze nacque l'ultimo aristocratico che potesse fregiarsi di quel cognome, Vincenzo Malvezzi Locatelli Leoni (1715-1775), cardinale dal 1753. Con il porporato, presidente dell’Accademia Filarmonica di Bologna, la dimora di via Marsala visse una stagione spettacolare e nella seconda metà del XVIII secolo si allestì, nel salone, il teatro dell’Accademia dei Rovinati istituita da Francesco Albergati: un utilizzo improprio che non giovò alla conservazione degli affreschi. Forse perirono in quelle circostanze due dei diciotto riquadri che compongono il fregio dedicato al secondo libro dell’Eneide. Successivamente lo stabile fu venduto al Sedazzi, il pittore che ebbe la malaugurata idea di intervenire sugli affreschi con il figurista Guizzardi (8). Nel 1929, probabilmente a seguito della rimozione di una controsoffittatura nella sala minore, svanirono altri due episodi (9). Per fortuna quell’intervento seguì il 1851, quando Achille Frulli riprodusse i cicli pittorici del palazzo e li pubblicòin un volume con le litografie di Angiolini che documentano le scene mancanti dell’antisala (10). Nel 1876 il complesso venne acquistato dal Reale Collegio di Spagna(11).
L’altro capitolo recuperato è la vicenda accademica del committente. Come risultò dalle mie ricerche, infatti, Vincenzo Leoni, detto Camillo, fu tra i presidi dell’Accademia degli Ardenti, fondata nel 1555 dal fratello del cardinal Paleotti, Camillo, imparentato con i Leoni; i bolognesi la conoscevano come Accademia “del Porto” perché si trovava nella strada omonima che ora si chiama via San Giorgio, nella dimora dei Torfanini; era un luogo del pensiero, e lì si studiavano i classici. Anche nel nostro palazzosi leggevano le humanaelitterae. In un’epoca di traduzioni “in volgare” si apprezzava il latino degli antichi e ci si confrontava sui cambiamenti che derivavano dal dialogo tra le arti figurative e le parole degli antichi: un modo di comunicare nuovo del quale i fregi furono l’espressione. Nel “quartiere della cultura” (Emiliani, com. verbale), dalla Domus Cardinalis di Giovanni Poggi alla sede dell’Hermathena si giocò una parte non trascurabile della vicenda intellettuale bolognese, e in quello scacchiere casa Leoni fu una realtà rilevante. L’inventario della biblioteca di casa, reso noto da me nel 2011, ne documenta il sapere. La libreria si trovava nei due ambienti dove si snodano i fregi, in particolare nel salone maggiore dov’è collocata, adesso, la Biblioteca Guglielmi che rilancia, in tal modo, la vocazione del luogo alla lettura. Lo dimostra il recupero, nel corso dei restauri, di un ciclo di pitture emblematiche ispirate alla filosofia ermetica che penetrava, con i suoi arcani, nei cenacoli vicini al palazzo, e soprattutto in casa di Achille Bocchi: è un’iconografia tipica degli ambienti di studio, ed è presente, infatti, nella biblioteca di San Giovanni Evangelista a Parma dove si trovano elementi di derivazione comune: il leone e la civetta, ad esempio, simboli di saggezza raffigurati anche nel salone Leoni (ill. 2) (12).  Quisi allineavano i volumi, ed esistevano sicuramente dei ballatoi simili al “ponte movibile, per utile della studiosa gioventù” visto dal Malvasia più di un secolo dopo in Palazzo Fava. Diversamente, sarebbe stato uno spreco di tempo e di denaro rappresentare tutti gli elementi narrati, inafferrabili a una visione a distanza. Da lì, sbirciando un’edizione dell’Eneide, Vincenzo ripercorreva visivamente il poema.
La presenza di pitture aderenti al testo -una versione dal latino fatta in pittura- e di un ciclo ermetico ispirato all’Orapollo, fa pensare che in quel palazzo avvenissero ricevimenti intellettuali.
Lungo i fregi, il latino classico del poetascorre, e anima gli scomparti che si agganciano in successione, come arazzi sospesi. E così, per incanto, chiunque varchi la soglia del piano nobilesi immerge nelle pagine dell’Eneide evocate con le tonalità calde recuperate dai restauri. Colpisce, in primo luogo, il ritmo scandito dell’epopea virgiliana, coerente con la data 1555 già ricordata (la stessa della nascita degli Ardenti). Sul crinale della metà del secolo la Poetica di Aristotele suggeriva una modalità più pausata e perciò si apprezza, in queste pitture, uno scarto a fronte della rappresentazione gremita degli affreschi di Scandiano (1540), e una posterità rispetto alle Storie di Camilla di palazzo Poggi, caratterizzate sovente da una simultaneità anche triplice degli episodi che animano ogni scena, una considerazione che sembrerebbe escludere la destinazione originaria di questo soggetto a Camillo Leoni, come già proposto da Béguin(13).
Il modello di riferimento per quella sala, quasi un “libro dipinto”, erano le edizioni a stampa. Si scorgono, negli episodi, particolari minuscoli che traducono ogni singolo verso. È alla fortuna di un patrimonio librario, e di tavole illustrate, che si appoggia l'immaginario del committente; e del pittore, i cui modelli, com’è noto, “vanno cercati nei libri” (Béguin). Naturalmente, anche i fregi Torfanini e il ciclo virgiliano di palazzo Poggi, svolto da Nicolò come un bassorilievo, richiamano l’editoria e la diffusione delle stampe. Ma la caratteristica che colpì Boschloo, in questo più che in altri episodi, è l’erudizione che De Jong attribuì alla mediazione di un uomo di cultura. Quale, a ogni effetto, era il padrone di casa. “…mai nella pittura monumentale”, osservò l’olandese, il pennello si era adeguato in maniera altrettanto fedele alle tecniche dell’editoria. Certo, non è escluso un suggerimento di Sebastiano Corrado, l’ispiratore dell’Eneide di Scandiano. Leoni, però, era un accademico, ed è possibile che avesse imposto elementi figurativi mirati. Chi veniva accolto al palazzo era introdotto al dibattito sul rapporto tra la parola e l’immagine, un dialogo che accomunava con ogni probabilità Vincenzo al circolo intellettuale di Camillo Paleotti e di Achille Bocchi. Fin dal primo scomparto, l’ospite era in grado di comprendere la cultura del padrone di casa. Significativamente, la scena che apre il secondo libro nel salone spiega la strategia delle immagini che presiede al ciclo.  Nel riquadro dove Capi e Timete discutono sulcavallo di Troia(ill. 3), valutando l’opportunità di introdurlo nelle mura cittadine, si annuncia in maniera programmatica il criterio che regola l’iconografia, una corrispondenza geniale tra la scrittura e la sua rappresentazione. Nell’affresco, la sequenza dei gesti dichiara subito il programma visivo, e guida l’occhio dell’osservatore con gli indici dei protagonisti puntati verso il cavallo, interpretando l’“hic” ripetuto, l’avverbio di luogo “qui” insistito cui si affida lo stupore dei troiani per la partenza dei nemici: “Qui la schiera dei Dolopi, qui di Achille crudele la tenda, qui la flotta, qui usavano combattere schierati…” (Aen., II; vv. 29-30). Un’esegesi fatta con le immagini: un’idea in linea con la cultura umanistica di Nicolò dell’Abate, artista intellettuale. Il complesso pittorico era nato da un programma iconografico preciso. Il palazzo era frequentato dagli eruditi, ed esistevano affinità con la cultura dell’Hermathena, “un eclettismo duttile a contenere tradizioni diverse, la neoplatonica e l’aristotelica; incline a interessi esoterici; attraversato da passioni riformiste, evangeliche; curioso dei reperti archeologici e della produzione letteraria del tardo impero” (Fortunati) (14).
Prevalente, nel dialogo intellettuale, il mito di fondazione che si esprimeva attraverso Virgilio, mediatore fra tradizione classica e renovatio cristiana. Per l’“odissea” di Enea, progenitore della stirpe latina, come pure per il ricorso alle fonti alla base dei cicli pittorici Leoni, si rinvia alla bibliografia citata e alla pubblicazione in corso di stampa.
Preme, qui, evidenziare il gusto per l’erudizione che guida la decorazione delle sale, e ricordare almeno uno dei prestiti dalle edizioni illustrate, evidente nella specularità tra il quarto settore del fregio con L’ingresso del cavallo a Troia (ill. 4) e il frontespizio del secondo libro dei Premiers quatrelivres de l’Enéide tradotti dal latino dal protestante de Masures e dati alle stampe a Lione da Jean de Tournesl’Ancien nel 1552 (ill. 5). Da lì, quell’idea era arrivata all’Eneide di palazzo Fava. Si può dire che in quell’episodio il foglio del Salomon funzionasse come un denominatore comune. Quei quarti poderosi, inquadrati dal retro, rammentavano la “fatalis machina” disegnata dal Primaticcio (1537) in un’Histoire de Troye poi incisa dal Bonasone (1545): una veduta audace, con un fuori campo di maniera (15). La critica ricercò un modello per il cavallone di Ludovico Carracci in palazzo Fava nella pubblicazione di Sebastian Brant (1502) (16), una stampa storica ricordata a Scandiano e ricondotta, talvolta, alla scena di palazzo Leoni. In realtà, però, dopo i nostri studi quell’esempio superato funziona come un accostamento indiretto che aggiorna l’archetipo iniziale del Brant sull’incisione del lionese; il quale, magari, guardò all’incisore strasburghese per elaborare una soluzione iconografica nuova.
Gli affreschi di palazzo Leoni erano piaciuti al Carracci, e gli avevano fornito più di un’ispirazione per quel ciclo dove l’epica si trasforma in un racconto per tutti (17). Così,l’Afrodite umanissima che cammina accanto all’eroe ricalca i passi di Ecuba come la vediamo nel XII riquadro del salone (Ecuba conduce Priamo all’ara della reggia), mentre la Venus humanitasche nel palazzo di via Marsala appare nella teofania della mandorla si trasforma in una donna comune. Della visione arcana raccontata da Virgilio (Venere appare ad Enea) (ill. 6) sopravvive in palazzo Fava un ricordo nell’ombra di Creusa che fluttua davanti a Enea ma, e lo abbiamo detto, quegli elementi valgono come modelli formali, poiché diverso è lo spirito dei fregi Leoni, precedenti, e centrati, come ravvisò Claire Robertson,sulla filologia del poema.
Ancora, in merito alle edizioni illustrate tenute sott’occhio nel progetto degli affreschi un prestito interessante si scorge nella scena con L’ingresso dell’esercito greco a Troia (ill. 7). Nel riquadro, il più pregevole del complesso, uno scorcio audace richiama la xilografia delFurioso dato alle stampe dal Giolito nel 1542(I Funeralidi Brandimarte) (ill. 8), un’incisione che piacque agli artisti, e diventò famosa: ispirò le storie ariostesche di Baggiovara dipinte da seguaci di Nicolò intorno al 1570 (18) e ricomparve, due anni dopo, nel corteo ellittico dei cavalieri rappresentato nell’Achille et l’Enea di Lodovico Dolce.Proprio qui, in questa scena cavalleresca di palazzo Leoni dove il destriero evoca la cavalcatura di Ruggero rappresentata in palazzo Torfanini, si potrebbe scorgere un intervento anche diretto di Nicolò dell’Abate. É il Malvasia ad introdurne il nome. Nella Felsina Carlo Cesare riferisce due testimonianze importanti: quella del Fontana, e il commento di Bartolomeo Cesi. Si doleva, il primo, per “non aver qualch’anni di meno” per “mostrar ciò che in quello stile” (parliamo dei Carracci) “gli fosse dato l’animo di fare e biasimava, per contro, la maniera “minuta” di Nicolò, “i fregi del quale in casa Leoni, e Torfanini tanto lodati” gli parevano “manierosi e seccarelli…”. Anche il secondo preferiva l’Eneide di palazzo Fava,più “nobile”del “gran fregio” eseguito nella “Sala de’ Signori Leoni” dal “grazioso Nicolino” (19). Fino a qui, nessun dubbio sulla presenza di “Nicolò dell’Abate nella famosa Sala Leoni” (20). Non sappiamo quando Cesi visitasse il palazzo, né se all’epoca fossero note prove, o ricordi neanche troppo lontani, che il dipinto del salone era un’ideasua. Ma, sta di fatto, nel 1619 Bartolomeo era nominato «Maestro del Disegno» all’Accademia degli Ardenti (21); conosceva il secondo preside, Girolamo Leoni; da lui, poteva aver saputo qualcosa.
Certo è, che per Vincenzo Leoni dell’Abate aveva lavorato. Cominciò da fuori, sotto il portico, sostando sui ponteggi per dipingere la “non mai a bastanza lodata Natività del Signore” che il Malvasia gli avrebbe riconosciuto. Angelo Mazza, in un saggio al quale qui nulla si aggiunge, ha ripercorso la vicenda critica e bibliografica dell’affresco perduto (22). Rimandiamo al contributo dello studioso, ma ricordiamo che quell’opera “di Nicolò” “sotto il Portico del Palazzo” diventò un modello. I Leoni ne possedevano una copia: riprodotta in“un quadro grande con cornice nera, e filetti d’oro”, faceva mostra di sé sopra una credenza (23).
Il passante che proveniva da via San Donato guardava verso l’archivolto e subito, il suo sguardo incontrava il Presepe; nel tempo, Giuseppe Maria Mitelli(1674) e Gaetano Gandolfi (1768) ne avrebbero tratto incisioni. É grazie a loro che lo conosciamo: ritoccato da Sedazzie restaurato nel 1819 dalGuizzardi, nel 1934 era ridotto a una larva e perciò era stato cancellato. Svaniva così, sotto l’intonaco, un episodio ricordato dallo Zanotti, da Francesco Algarotti e da Luigi Lanzi; e, soprattutto, una testimonianza per l’autografia deifregi. Che Vincenzo avesse chiesto al maestro di decorare anche il piano nobile lo si intuisce. Oretti registrò che la “Fugita di Enea, ed altri vari dipinti” erano “opere pregiatissime” di “sua mano” (24) e segnalarono la paternità abatesca dei fregi il Bassani e Girolamo Bianconi (25).
A metà ‘800,gli affreschierano riferiti all’artista. Nel 1835, e nel ’41, ne scriveva Gaetano Giordani (26). Curatore, in quegli anni, della pinacoteca della pontificia Accademia di Belle Arti di Bologna, il budriese apprezzò le “leggiadre invenzioni” del palazzo di via Marsala - tanto diverse “da quelle che in piccolo” il maestro aveva rappresentato a Scandiano - intravedendovi un antefatto per palazzo Fava. Erano così pregevoli, quegli affreschi, per “la novità del comporre” e l’“eleganza e la correzione del disegno”che Ludovico se ne ricordò molti anni dopo nei fregi Fava, in quel ciclo dove l’alta epica di palazzo Leoni, vista attraverso la lente dell’historia, si trasforma in un racconto degli affetti.
Nel ‘900 Foratti confermò l’autografiaabatesca e il collegamento con l’Eneide del Carracci (1913); dopo di lui Zucchini esaminò il complesso, e nel ’29 pubblicò alcune scene della sala minore che riuscì a sbirciare durante la rimozione del controsoffitto (27). Il ciclo, però, gli sembrò debole, e non privo di “qualche durezza” (aveva osservato la modalità “seccarella” osservata dal Fontana?). L’affresco della “sala grande” è “guasto e ritoccato”, gli toccò riconoscere e difatti, nel ’34, la qualità “scadente” costò all’artista la perplessità di Bodmer che ne limitò l’intervento a un influsso stilistico generale (28). Da allora, la critica guardò a quei fregi con cautela. Un anno prima Venturi aveva restituito il salone e la “camera contigua”al pittore, è vero, ma il palazzo all’epoca era “quasi del tutto distrutto”, e la vicenda di Enea e Didone appariva guasta e ritoccata (29).
Lo stato di conservazione dei dipinti ne determinò la vicenda critica: un iter poco fortunato. Gli affreschi sono “in pessime condizioni”, rifletteva Emiliani nella riedizione del 1969 del Malvasia, sospendendo il giudizio sull’intervento di Nicolò che, però, gli parve “determinante” e in quell’anno, per lo stesso motivo, anche Sylvie Béguinnon si esprimeva (30). Insoluta, poi, la questione del riferimento al Pupini dei putti utilizzati in funzione di termini nel salone, un’attribuzione introdotta dalle guide ottocentesche già citate ma non più esaminata.
La damnatio dei fregi continuò con la storiografia successiva che marginalizzò la paternità abatesca nonostante la citazione favorevole della Parma Baudille. Boschloo ebbe il merito di inquadrare il palazzo nella rassegna sulla civiltà del fregio, è vero, ma a causa del degrado degli affreschi preferì mantenere il riserbo, e nell’ 86 Benati restò deluso da quel ciclo che al di là “delle ridipinture” gli sembrò il lavoro di un’équipe “agguerrita”(31). Pochi anni dopo, anche il De Jong non si sbilanciò nell’attribuzione. Da lì, il problema della paternità degli affreschi fu evitato, e si preferì procedere secondo un percorso attento all’iconologia nei contributi di Claire Robertson, che fece il nome del modenese, di Cavicchioli con alterno parere negli studi già citati, e della sottoscritta in un saggio iconografico integrato, per quanto riguarda l’autografia, dai molti dubbi di Marco Muzzioli.
Nell’insieme, il giudizio degli studiosi fu “assai severo”; troppo, a leggere il commento della Bergamini che nel 1986 restituì a Niccolò le “molteplici colte fantasie” di palazzo Leoni. “…soltanto un adeguato restauro potrebbe forse ancora orientare la ricerca di una completa autografia”, rifletteva la storica dell’arte scomparsa nel 2006. E in effetti, rimossi i ponteggi, affiorarono subito le affinità dei dipinti con le tecniche di dell’Abate, elegantissimo e uso a una pittura di abbozzo che risaliva a Correggio e a Parmigianino e che si intuisce, qui, nella brevità del tratto trasferita nell’affresco (una modalità emulata dagli allievi?), nella rapidità del disegno e nello scorcio delle figure che, «tagliate in primo piano, si sciolgono in un’unità moderna» (Bergamini). Purtroppo, Wanda non vide mai il cantiere finito, ma le bastò quanto l’intervento conservativo stava mettendo in luce per ribadire, con la mostra del 2005, l’opinione iniziale sulla paternità del fregio maggiore. “L’autografia di Nicolò pare potersi ampiamente attestare”, scriveva, “consolidando in concreto quelle che mi parvero soltanto ottimistiche intuizioni circa l’incancellabile originalità della fluidità narrativa, quasi nel gusto della miniatura cortese tardogotica, del favoleggiare che Nicolò è unico a possedere, come se intendesse seguire Virgilio e visualizzare il racconto della necessaria rovina di Troia reso da Enea a Didone con un ritmo esaltante, fino alla scena che vede i fuggiaschi isolarsi sullo sfondo della città in fiamme mentre il piccolo Ascanio-Iulo solleva l’emblematica fiaccola. E’improbabile trovare un autore diverso per inventare quella acculturata ma disinvolta traduzione del gruppo del Laocoonte -una delle sculture che Primaticcio aveva fatto formare a Roma- per creare l’incanto dello sbarco dei greci a lume di luna e di quella città da gesta di paladini, per mostrare quel décor architettonico studiatissimo o le meravigliose ammonitrici apparizioni (distinte come luminose magie)” (32).
Sostanzialmente, sono d’accordo con lei. Terminato il restauro, si impongono nuove riflessioni. Per prima cosa, restano da chiarire i tempi del cantiere. Zucchini intravide una data, il “1550” come riportò Bodmer, ma quell’iscrizione, poi, non si trovò, mentre è emerso il “1555” del quale si diceva. L’“ipotetico ritorno del pittore dalla Francia in Italia” verso quell’anno, vagheggiato dallo Zucchini, ha un suo fascino, ma non un documento (33). Né sembra sostenibile la proposta dello studioso, ripresa dalla Parma Baudille, di una precedenza del cantiere di via Marsala rispetto ai lavori di palazzo Poggi.
Di sicuro,di qua e di là da strada San Donato dell’Abate lavorò nel “quartiere della cultura”; nel caso di un’autografia, bisogna pensare a palazzo Leoni come a un’impresa discontinua, interrotta dalla partenza del maestro nel 1552. All’epoca, l’artista doveva aver terminato la Natività sotto il portico; tuttavia è improbabile che, in piedi sui ponteggi, non entrasse mai nel palazzo. Né la qualità dell’ideazione lascia supporre una progettazione affrettata. “Fece Nicolò la maggior parte de’ suoi lavori col disegno…”, scriveva Forciroli, “[ed] essendo egli…di molta invenzione, tutte le opere nelle quali riportò lode particolare furono da lui fatte coi propri disegni” (34). “La paternità della composizione,mediata da cartoni in seguito eliminati, o che si potranno reperire in futuro, fu senz’altro sua; si può dire che il pittore riscrisse il poema con una metodologia affidata al progetto”. Così Riccomini (com. verbale). Concordiamo, e in più, per molti aspetti, non riteniamo impossibile - con la Bergamini - un intervento diretto dell’artista in alcune parti. Pressioni autorevoli lo incalzavano: il cardinale aveva fretta (Riccomini, com. verbale); e con lui il re di Francia, Enrico di Valois, che voleva il pittore italiano. Impossibile dire di no a un monarca (e rifiutare l’invito del Primaticcio). I lavori, perciò, slittarono, si interruppero, e fu necessario cercare aiuti.
Nicolò ebbe “vari Scolari…quasi tutti Forestieri…”, ci racconta Oretti (35): cosa intendesse l’erudito bolognese con questa espressione non è chiaro, ma si sa che, all’epoca, quel termine poteva indicare la provenienza da una città diversa.In mancanza di testimonianze, è legittimo ipotizzare che il maestro mettesse mano, qua e là, ad alcuni riquadri, prima di lasciare l’Italia. In questa scena di qualità elevata che raffigura L’ingresso dell’esercito greco a Troia (ill. 7), concepita come un frontespizio, qui dove si racconta l’irruzione dei greci nella città addormentata, non si potrebbe scorgere un suo intervento? In effetti, il tratto che si ravvisa in alcuni episodi si discosta dallo stile di altri scomparti.
Ma chi aiutò il maestro a terminare l’impresa? La risposta può venire dalla pala dell’altare della famiglia Leoni nella basilica di San Martino, a pochi passi dal palazzo. Siamo d’accordo con Benati nel ritenere che l’Incontro tra Sant’Anna e San Gioachino, o I Santi Gioachino e Anna che ricevono la promessa della maternità di Maria alla Porta Aurea, sia opera di Lorenzo Sabatini (36). Qualche confusione ha ingenerato la sigla “TAR” riportata, con la data “MDLVIII”, sul bordo inferiore del dipinto. Se plausibile è l’anno di esecuzione altrettanto non si può dire per il riferimento al Taraschi cui Malvasia dirottò la tavola (37). Si scorge, nella pala, la ricchezza degli “umori tosco-romani” di derivazione vasariana, un ricordo del plasticismo michelangiolesco di Tibaldi (Sassu) e fa riflettere la composizione che nell’affondo del portico dal punto di fuga alto, sul quale si staglia la scena dell’abbraccio, evoca, o ricorda implicitamente, la Visitazione di Bartolomeo Ramenghi affrescata nella chiesa dei Santi Vitale e Agricola. Della tavola di San Martino andrà osservata la penombra che sfuma il volto della figura muliebre in secondo piano, simile alla dolcezza del chiaroscuro che indugia sul viso femminile in fondo alla Circoncisione di Greenville (38) e, perché no, alla fisionomia della Venere raffigurata nel salone Leoni, mentre plana in soccorso del figlio: una considerazione, questa, nella quale mi sostenne anni fa Daniela Ferriani che qui ringrazio (com. verbale) (38). Per questa via, si può dedurre che tra gli aiutanti di Nicolò dell’Abate rimasti a lavorare in via Marsala dopo la partenza dell’artista ci fosse il giovane Lorenzino. Ringrazio Alessandra Rodolfo che diversi anni fa confermò questa mia ipotesi nel corso di una visita al Palazzo Apostolico Vaticano (39). La doppia prospettiva, le figure che si stagliano a mezzo busto sul margine inferiore dei riquadri, l’accuratezza della stesura degli affreschi nella Sala dei Paramenti declinano, in una fase inoltrata, gli accorgimenti cui l’artista ricorse fin da giovane sui ponteggi dell’Eneide di via San Martino; un precedente per il cantiere di palazzo Vizzani (1562-1570). Le prospettive sullo sfondo e la carica della cavalleria ricordano infatti le scene belliche de le Storie di Ciro, e si osservano analogie nelle figure che si stagliano in controluce sullo sfondo; l’anziano re Priamo di palazzo Leoni presta il volto a re Astiage, e non mancano parentele di volti in scorcio e momenti di raffinatezza, come nel caso del gruppo dei paladini sulla destra della scena dove si racconta di Corebo che indossa l’elmo di Androgeo. Certo, i colori di base si assestano sui toni caldi di derivazione vasariana e non si manifesta ancora la pienezza cromatica che caratterizzerà i fregi Vizzani. La cultura figurativa, però, è la stessa, e in entrambi i cicli si ravvisano persino, anche se in diversa misura, rimandi a Francesco Primaticcio e al “Nicolò francese” della perduta Galerie d’Ulysse affrescata nella reggia di Fontainebleau: in palazzo Leoni le navi fantasiose che si stagliano, nell’antisala, in due riquadri (I preparativi per la partenza, Anna che supplica Enea), e in palazzo Vizzani L’accecamento di Polifemo ripreso dal Sabatini nell’ affresco dell’atrio.
Gli spazi a disposizione non consentono, qui, di sciogliere questo argomento, e di approfondire il confronto tra i fregi dei due palazzi (40). Preme, ora, tornare all’autografia di Lorenzo. A conferma di una sua famigliarità con Vincenzo, si potrebbe introdurre, forse, la possibilità che il ciclo pittorico degli emblemi-sul quale mi soffermai nel 2011- fosse opera di suo figlio Mario, artista non eccelso ma specializzato in quel genere di decorazione. Fu lui a dipingere con un ciclo di imprese la perduta villa dell’Aldrovandi (41). Qui, dove erano affrescate le Storie di Ulisse, esisteva un ‘museo naturalizzato’ dipinto, fatto di piante e di animali che riscrivevano in chiave osservante il repertorio della tradizione. Nelle stanze della residenza suburbana, riservate allo studio, il pittore declinò in chiave allegorica alcuni tra gli elementi figurativi che si trovano anche nel palazzo di via Marsala, e tra questi il leone e la civetta presenti in quel repertorio simbolico.
Ma torniamo alla pala nella basilica di San Martino, e soffermiamoci sulla sigla “TAR”. Un significato, quelle lettere, lo devono pure avere. E se un Taraschi fosse intervenuto nella tavola dietro incarico dei signori Leoni, magari, per un ritocco? Una presenza dell’artista nel cantiere pittorico del palazzo non sarebbe improbabile. Come abbiamo visto, si scorgono, nella sala dedicata al libro II dell’Eneide, discontinuità di stile. Esaminando le opere modenesi di quegli anni, o immediatamente precedenti, non si può fare a meno di notare qualche affinità, in particolare, tra il riquadro del salone raffigurante Enea che si prepara alla battaglia (ill. 9) e il sottarco della cantoria dell’organo della chiesa abbaziale di San Pietro in Modena, affrescato da Giovanni Taraschi (Davide e Golia, 1546) (ill. 10), un allievo di Pellegrino Munari. Si leggono, nella scena biblica, caratteri di stile che accomunano le due opere nel richiamo a Giulio Romano, più volte da me sottolineato a proposito del ciclo Leoni, e nel generale rimando ai cartoni raffaelleschi che caratterizza la produzione del modenese (42). Di Giovanni, e non di Giulio, perché ci sembra ragionevole la proposta di Marco Dugoni che in una monografia sull’edificio benedettino riduce l’esistenza dei “fratelli Taraschi” a questo solo artista (43). Perciò, pur con cautela, in questa sede avanziamo questa possibilità. Il committente aveva fretta; dopo la partenza di Nicolò per la Francia era urgente concludere il cantiere e per questa ragione si chiamarono a raccolta altri artisti.

Nei fregi di palazzo Leoni, la parlata modenese si avverte anche in altre scene. Non è un caso che nell’episodio dove si racconta Il rapimento di Cassandra (ill. 11), Corebo che si precipita in soccorso della sacerdotessa prenda la fisionomia da uno de I triumviri (ill. 12) raffigurati nel 1546 da Nicolò dell’Abate nella Sala del Fuoco del Palazzo Comunale di Modena, ispirata alle Guerre civili di Appiano Alessandrino (44): un mito “delle origini”, quelle della Mutina romana, suggerito dal Castelvetro per decorare un ambiente che ospitava le letture in greco di Carlo Sigonio e gli insegnamenti di “cavalleresco laicismo” (Guandalini) impartiti in uno spirito “d’accademia”.Nel palazzo si tirava di scherma, si eseguiva il “salto del cavallo”, si rappresentavano opere teatrali antiche ma, soprattutto, si studiava la storia; perciò, anche in questo caso, la pittura funzionava come un “libro dipinto”. Qui, come in palazzo Leoni, Nicolò dell’Abate era l’uomo giusto, né si esclude un colloquio tra l’umanista modenese e Vincenzo.
Proseguendo nella lettura dei fregi del palazzo bolognese, e spostandosi nella sala minore, o antisala, si ricorderà la presenza di Orazio Samacchini già proposta dal Godi e rilanciata dal Muzzioli che ravvisava, in due scene (Enea e Didone nella grotta, La preghiera di re Giarba aGiove Ammone),un antefatto per le Storie di Enea affrescate da Ercole Procaccini nella Rocca Sanvitale di Sala Baganza (1556-1557) (45). La qualità dei riquadri, però, è discontinua, e si avvertono modalità di stile che farebbero pensare all’intervento di maestranze diverse.
Al momento, gli spazi di questo intervento non consentono di approfondire la questione. In attesa di contributi ulteriori, ci si limiterà a sottolineare in questo ambiente un rimando, e nemmeno troppo velato, al repertorio ermetico delle Simboliche Questioni, e di conseguenza alla grafica di Giulio Bonasone. Si scorge, nell’affresco con La preghiera di re Giarba, l’eco della tavola XCVIII del trattato.
Qui una Didone miniaturizzata è sorpresa a volo dalla figura ignuda della Fama; la scena si ambienta in un paesaggio all’antica che suggerisce l’atmosfera egizia del simbolo XLVIII riportato alla pagina “CIIII” del secondo volume. Nel foglio del Bonasone, occhi e bocche sommarie tratteggiate sui gradoni di un obelisco in forma di piramide, sormontato da una sfera, richiamano gli attributi che nell’affresco caratterizzano la divinità mostruosa, creatura “immane” che “tanti vigili occhi ha sotto…[e]…tante lingue” (IV, vv. 182-183). Un riferimento all’artista, noto anche come pittore, si scorge, nella sala minore, nell’Hermes sospeso dell’episodio di Mercurio che comanda a Enea di partire, una versione al ‘recto’ di un disegno del Parmigianino dato alle stampe dal Bonasone (Mercurio e Minerva, 1524-1530) come già osservai nel 2011 (46), e si sarebbe tentati di collegare alla degli Sdegni e gelosie di Giunone incisi dal maestro le deità femminili che si incontrano, in un riquadro, nello spazio sidereo di un cielo astrologico, mentre scorre la ruota dello zodiaco (L’incontro tra Venere e Giunone): spunti “libreschi” per il “libro dipinto” di palazzo Leoni.
 








5 giugno 2019
 
Referenze fotografiche
Le immagini nn. 1-4, 6-7, 9-12 sono di proprietà dell’Istituto Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna (foto Andrea Scardova)
 
 
 
Elenco delle didascalie:
 
1. Lorenzo Sabatini, attr., Sinone condotto da re Priamo, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
2. Mario Sabatini, attr., [Im]perat Sapientia Vires, dai Geroglifici di Pierio Valeriano (Orapollo), Palazzo Leoni, salone (foto A. Scardova)
3. Lorenzo Sabatini, attr., Timete e Capi discutono sul cavallo di Troia. Laocoonte colpisce il cavallo con una lancia, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
4. Lorenzo Sabatini, attr., L’ingresso del cavallo a Troia, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
5. Bernard Salomon, attr., L’ingresso del cavallo a Troia, Eneide, libro II, Lione, 1552, p. 67 (foto e autorizzazione della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera)
6) Lorenzo Sabatini, attr., Venere appare ad Enea, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
7) Nicolò dell’Abate e aiuti, attr., L’ingresso dell’esercito greco a Troia, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
8) Orlando Furioso di m. Ludovico Ariosto…, I funerali di Brandimarte, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1542, 175 (autorizzazione della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna)
9) Collaboratore di Nicolò dell’Abate, su cartoni del maestro, Enea si prepara alla battaglia, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
10) Giovanni Taraschi, Davide e Golia, Modena, San Pietro, sottarco della cantoria dell’organo, 1546 (foto A. Scardova)
11) Collaboratore di Nicolò dell’Abate, su cartoni del maestro, Il rapimento di Cassandra, Palazzo Leoni, fregio del salone, 1555 (foto A. Scardova)
12) Nicolò dell’Abate, I triumviri, Modena, Palazzo Comunale, Sala del Fuoco, 1546 (foto A. Scardova su autorizzazione dell’Amministrazione Comunale di Modena)
 
 
 
[1] R. Parma Baudille, Bologna, Palazzo Poggi, in M. Fagiolo, a cura di, Virgilio nell’arte e nella cultura europea, catalogo della mostra, Roma 1981, p. 136.
[2]A. W. Boschloo, Il fregio dipinto a Bologna da Nicolò dell’Abate ai Carracci (1550-1580), Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1984, pp. 36-44, 82-83 e passim; J. De Jong, «Locus plenus Troiani laboris». Gli affreschi di Enea a Palazzo Leoni a Bologna, in Studi Belgi e Olandesi per il IX Centenario dell’Alma Mater Bolognese, Bologna, edizioni Luigi Parma, 1990, pp. 35-48.
[3] E. Landi, “Le stanze della memoria”. Civiltà accademica, modelli letterari, repertori a stampa. Considerazioni sull’iconografia degli affreschi di Palazzo Leoni, in Ead., G. Tonet, Libri a Palazzo. Una sede ritrovata per la biblioteca dell’IBC, Bologna, Bononia University Press, 2011, pp. 119-147; E. Landi, Gli affreschi raccontano. L’Eneide di Palazzo Leoni, Istituto Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna, Stamperia Regionale, 2018; Ead., Guida di Palazzo Leoni, in corso di stampa.
[4] Per l’architettura dell’edificio si rinvia a G. Roversi,Palazzi e case nobili del '500 a Bologna. La storia, le famiglie, le opere d'arte, Casalecchio di Reno (BO), Grafis Edizioni, 1986, pp. 296-297; M. Muzzioli, Palazzo Leoni. Fortuna critica e vicenda architettonica e decorativa, in E. Landi, G. Tonet, Libri a Palazzo…cit., pp. 161-164.
[5] L. Sighinolfi, Guida di Bologna, Bologna, Licinio Cappelli Editore, 1934, p. 51.
[6] E. Landi, Gli affreschi raccontano… cit., p. 4.
[7] Il prospetto esterno è documentato in BCB, G. Ferratini, ms. Gozzadini 79, c. 24v, n. 56 “Prospetto di Palazzo Leoni da S. Martino…”.
[8] C. Bianconi, Guida del forestiere, Bologna ed. 1844, p. 39.
 [9] G. Zucchini, La scoperta di affreschi di Nicolò dell’Abate in Bologna, «Il Comune di Bologna», XVI, 1929, VII, p. 23.
[10] Fregio delle Sale del già Palazzo Leoni, ora Marchesini dipinto dal celebre Nicolò dell’Abate, posto in litografia da Achille Frulli, Bologna 1851, “A. Frulli dis.” e “Lit. Angiolini”.
[11] J. G. Valdecasas y AndradaVanderwilde, Palazzo Leoni, dall’Ottocento al domani, in E. Landi, G. Tonet, Libri a Palazzo… cit., 2011, pp. 17-21.
[12] E. Landi, Il ciclo pittorico degli emblemi di Palazzo Leoni…, in Ead., “Le stanze della memoria”…cit., pp. 147-160.
[13] S. Béguin, Sala di Camilla, in V. Fortunati, V. Musumeci, L’immaginario di un ecclesiastico. I dipinti murali di Palazzo Poggi, Bologna, Editrice Compositori, 2000, p. 148.
[14] V. Fortunati in Ead., V. Musumeci, L’immaginario di un ecclesiastico…cit., p. 16.
[15] D. Cordellier,Histoire de Troye, in Id., Primaticcio Un bolognese alla corte di Francia, Milano, 5 ContinentsÉditions, 2005, 107-113, nn. 18-19; S. Massari, Giulio Bonasone, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Istituto Nazionale per la Grafica-Calcografia, Roma, Edizioni Quasar, 1983, vol. I, pp. pp. 53-54, n. 43.
[16]S. Cavicchioli, L’odissea di Enea. I fregi virgiliani dei Carracci e degli allievi in Palazzo Fava a Bologna, in Ead., Nei secoli della magnificenza: committenti e decorazione d’interni in Emilia nel Cinque e Seicento, Argelato (BO), Minerva Edizioni, 2008, pp. 85-104 cit., p. 93; Ead., “DucentibusFatis”. I fregi dedicati a Enea, padre di Roma, in A. Fenech Kroke e A. Lemoine, Frisespeintes. Les décors des villas et palais au Cinquecento, Paris, Somogyéditions d’art, 2016, p. 253, n. 43.
[17] C. Robertson, I cicli dell’Eneide a Palazzo Fava, in Ead., I Carracci e l’invenzione: osservazioni sull’origine dei cicli affrescati di Palazzo Fava, “Accademia Clementina Atti e Memorie”, 32, n.s., Bologna, 1993, 246, 253, n. 43; S. Cavicchioli, “DucentibusFatis”… cit., ib.
[18] G. Guandalini, G. Martinelli Braglia, La torre di Baggiovara: un ciclo ariostesco di seguaci di Nicolò dell’Abate, «Atti e Memorie della Deputazione di storia Patria per le Antiche Province Modenesi», s. XI, vol. XI, 1989, pp. 139-156; F. Martino, Baggiovara nella fortuna figurativa dell’Ariosto. Le tracce di Vincenzo Maestri, «Atti e Memorie della Deputazione di storia Patria per le Antiche Province Modenesi», s. XI, vol. XXIII, 2001, pp. 171-194.
[19] C.C. Malvasia, Felsina Pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, 1678, I, 3, pp. 397, 374.
[20] C. Malvasia, Felsina cit., II, Indice delle Pitture, p. 574.
[21] E. Landi, “Le stanze della Memoria”…cit., p. 122.
[22] C. Malvasia, Le Pitture di Bologna…, Bologna, 1686, p. 94; A. Mazza, “La non mai a bastanza lodata Natività del Signore…”, in E. Landi, G. Tonet, Libri a Palazzo… cit., pp. 65-81.
[23] AL,Notaio Uccelli Scipione,Inventario delli beni stabili, mobili, suppellettili, argenterie…ritrovati nell’eredità del fu Ill.mo Girolamo Leoni, e prima”, 1653-1699, 1691, prot. LXXIII, ff. 22-40v, f. 26v.
[24] BCB, M. Oretti, Le pitture che si ammirano nelliPalaggi, è Case de' Nobili della Città di Bologna..., mss. B. 104, I, c. 55; III, c. 38; B. 123, c. 434; B. 124, I, c. 283.
[25] P. Bassani, Guida agli amatori delle belle arti…, Bologna, 1816, 152; C. Bianconi,Guida delforestiere…, Bologna, 1844, p. 39.
[26] G. Giordani, Relazione di un fregio… cit., p. 141; cfr. nota di G. Giordani in Felsina Pittrice, Vite…, prima, seconda e terza parte, Bologna, ed. 1841, p. 274. Nella nota 1 Giordani auspica il restauro dell’affresco sotto il portico di palazzo Leoni.
[27] G. Zucchini, La scoperta… cit., pp. 23-25
[28] H. Bodmer, L’attività artistica di Nicolò dell’Abate a Bologna, “Il Comune di Bologna”, XXI, dicembre 1934, p. 45.
[29] A. Venturi, La pittura del Cinquecento, Milano, Hoepli, 1933, VI, p. 581.
[30] A. Emiliani, a cura di, Carlo Cesare Malvasia, Le pitture di Bologna…, Bologna, Alfa, 1969, p. 68; S. Béguin, Mostra di Nicolò dell’Abate, Bologna, Edizioni Alfa, 1969, p. 128.
[31] D. Benati, Le decorazioni, in G. Roversi,Palazzi e case nobili… cit., p. 299.
[32]W. Bergamini, Nicolò dell’Abate, in Vera Fortunati Pietrantonio, Pittura bolognese del ‘500, Casalecchio di Reno (BO), Grafis, 1986, I, p. 286, I; Ead., I committenti bolognesi di Nicolò dell’Abate, in S.Béguin, F. Piccinini, a cura di,Nicolò dell’Abate storie dipinte nella pittura del Cinquecento tra Modena e Fontainebleau, cat. della mostra, Milano, Silvana Editoriale, 2005, p.98.
[33] G. Zucchini, La scoperta… cit., p. 26.
[34] S. Cavicchioli, a cura di, Vite dei modenesi illustri Francesco Forciroli, trascrizione di G. Mancini, Modena, Aedes Muratoriana, 2007, pp. 162-163.
[35] BCB, M. Oretti, Notizie dei professori del disegno…, ms. B. 124, I, c. 283.
[36] D. Benati, Lorenzo Sabatini, in Id., Pinacoteca di Brera: scuola Emiliana, Milano, Electa, 1991, p. 251; G. Sassu,Sull’affidabilità dell’“osservatore al vivo”, in M. Pigozzi, Bologna al tempo di Cavazzoni.Approfondimenti, Bologna, Clueb, 1999, p. 65. G. Secondin, G. Ronchi, Basilica di San Martino in Bologna, Bologna, Costa Editore, 2010, pp. 153, 155 (come Giulio Taraschi).
[37] BCB, C. Malvasia, Notizie dei professori del disegno…, ms. B. 124, II, c. 28; G. Bianconi, Guida…cit., Bologna, ed. 1835, II, p. 273.
[38] J. Winkelmann, Lorenzo Sabatini, in V. Fortunati Pietrantonio, Pittura bolognese… cit., II, p. 613.
[39] A. Rodolfo, Le Sale dei Paramenti in Vaticano: documenti e iconografia, in C. Cieri Via, I. D. Rowland, M. Ruffini, a cura di, Unità e frammenti di modernità. Arte e scienza nella Roma di GregorioXIII Boncompagni (1572-1585), Pisa - Roma, Fabrizio Serra Editore, 2012, pp. 17-36. Si ringrazia il prof. Antonio Paolucci.
[40] V. Balzarotti, Lorenzo Sabatini in Palazzo Vizzani a Bologna: il fregio con Storie di Ciro, “Studi di Storia dell’Arte”, 29, 2018, pp. 93-102. Sul Polifemo della Galerie d’Ulysse cfr. M. Danieli, La decorazione pittorica, in Id., D. Ravaioli, con saggio di R. Dodi, Palazzo Zani, Argelato, Minerva, 2011, pp. 105-107. Si attende l’uscita della monografia su palazzo Vizzani curata dallo studioso per l’Associazione Dimore Storiche Italiane di Bologna.
[41] A. Rodolfo, Le Sale dei Paramenti…cit., p. 220. Cfr. inoltre M. Fanti, La villeggiatura di Ulisse Aldrovandi, “Strenna  Storica Bolognese”, VIII, 1958, pp. 17-43; L. Bolzoni, Gli emblemi, in Ead., L’”invenzione” dell’Aldrovandi per la sua villa di campagna, in E. Cropper, G. Perini, F. Solinas, Documentary Culture Florence and Rome…, Villa Spelman Colloquia Volume 3, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992, pp. 336-3348; E. Landi, “Le stanze della memoria…” cit., pp. 152-152.
[42] D. Ferriani, Giulio e Giovanni Taraschi, in S. Béguin, F. Piccinini, a cura di, Nicolò dell’Abate… cit., p.225 (con bibliografia precedente). Sulla situazione figurativa modenese della metà del secolo cfr. A. Mazza, La pittura a Modena e Reggio Emilia nella seconda metà del Cinquecento, in La pittura in Emilia e in Romagna. Il Cinquecento. Un romanzo polifonico tra Riforma e Controriforma, Bologna, Credito Romagnolo, 1995, pp. 185-186; G. Mancini, Carattere della committenza artistica modenese nel secondo Cinquecento, in Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi. Atti e Memorie, vol. XIX, Modena, Aedes Muratoriana, 1997, pp. 157-172.
[43] M. Dugoni, Vicende storiche e artistiche delle cappelle e dei dipinti, in E. Corradini, a cura di, La Chiesa di San Pietro a Modena, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2006, pp. 73-121. Alle pp. 106-107 lo studioso riconduce l’esistenza dei tre artisti a una citazione del Vedriani.Cfr. inoltre p. 121, nota 114. Concorde, nello stesso volume, S. Cavicchioli, Temi biblici e musicali nella decorazione dell’organo, in E. Corradini, La Chiesa di San Pietro…cit., p. 187.
[44] G. Guandalini, Coordinate di cultura umanistica in Modena: la Sala del Fuoco, in Ead., Il Palazzo Comunale di Modena. Le sedi, la città, il contado, Modena, Panini, 1985, pp. 101-102; F. Piccinini, La Sala del Fuoco, in S. Béguin, Ead., a cura di, Nicolò dell’Abate… cit., pp. 306-310.
[45] G. Cirillo, Di Orazio Samacchini e altri bolognesi a Parma, “Parma nell’arte”, 14. 1982, 1, p. 16; M. Muzzioli, La decorazione. La fortuna critica dei dipinti, in E. Landi, G. Tonet, Libri a Palazzo…cit., pp. 185-187.
[46] Per l’attività incisoria del Bonasone si rinvia ai numerosi studi di Elena Rossoni. E. Landi, “Le stanze della memoria”…cit., p. 139.