Su
Angelo Caroselli, l’artista romano oggetto di un’ampia ragguardevole ricerca ad opera di
Marta Rossetti, nata da una tesi di dottorato alla
Sapienza di Roma durata svariati anni ed ora divenuta un volume di oltre 750 pagine da poco in libreria per i tipi dell’
editore Campisano (fig. 1), hanno sempre pesato, com’è noto a tutti gli addetti ai lavori, vari luoghi comuni che hanno sicuramente ostacolato un’analisi approfondita delle sue opere generando una ancor minore attenzione alle peculiarità ed alle caratteristiche del suo stile.
Non poteva esimersi dal darne conto l’autrice, tramite una lunga ma meritoria rassegna di voci critiche riportate nella parte intitolata “
La vita e l’opera attraverso la fortuna critica”, posta giusto in apertura del suo lavoro, illustrando, qualche volta in maniera forse troppo insistita ma sempre con chiarezza e linearità, i dati personali in parte già noti (il battesimo e la cresima, le tappe a Firenze e a Napoli, il primo matrimonio con l’abbandono della prima moglie e le successive seconde nozze, il sodalizio e il trasferimento in casa di
Agostino Tassi ed infine la scomparsa nel 1652) e, insieme, le molte novità emerse dalle carte ritrovate negli archivi, che riguardano sia episodi della sua vita, sia, più in particolare, la produzione artistica.
Sotto questo aspetto, piuttosto notevoli risultano le aggiunte e soprattutto le sottrazioni operate con molta nettezza sul catalogo del pittore, tanto tramite la via documentaria quanto per via stilistica – e in questo caso con non poco coraggio, se teniamo presente la decisione con cui sono state espunte le proposte di studiosi come
Longhi, Moir e, più vicini a noi,
Bologna, Marini, Papi, Porzio, Semprebene.

Ci soffermeremo in vario modo più oltre su questo aspetto della ricerca, ma intanto vale sottolinearne almeno alcuni importanti esiti; in particolare quello riguardante il “
Ritratto di uomo” ora documentato come
Ritratto di Ferdinando Brandani (fig. 2) - lo stesso personaggio raffigurato in un dipinto di Velasquez- peraltro stilisticamente molto prossimo ad un altro
Ritratto di uomo, ora nel
Museo of Art di Rhode Island, creduto di
Ottavio Leoni ma ora riferibile allo stesso
Caroselli (fig. 3) sia pure con il punto interrogativo. Di grande rilievo poi la documentazione che ha consentito all’autrice di mettere in discussione attribuzioni anche più eclatanti, di opere assai note come “la Visione di Sant’Elena” della Pinacoteca Vaticana, “tradizionalmente attribuita a
Paolo Veronese” o come il
‘Musico’ della
Galleria Spada creduto di Tiziano, entrambi ora assegnati sia pure con riserva al pittore di Roma, ed una particolare citazione merita il collegamento ai marmi
Giustiniani del rilievo marmoreo nel
Riposo durante la fuga in Egitto, in
Palazzo Barberini (fig 4)
C’è molto altro, come vedremo, ma sarà il lettore a continuare meglio l’esplorazione -che non sarà priva di sorprese- nonché l’approfondimento su questo aspetto del lavoro della
Rossetti; preme invece ragionare innanzitutto sulla definizione della vera figura dell’artista, considerando che a tale riguardo qualche ombra a nostro parere è ancora da diradare.
Chi fu effettivamente
Angelo Caroselli?
Un “Pittore irriverente” ? come titola il libro –il primo in ordine di tempo dedicato all’artista romano- di
Daniela Semprebene. Forse fu un
tombeur de femmes, che “facilmente s’invaghiva di qualcheduna”, ma “incapace di guadagnarsi amici”, secondo il
Passeri e tuttavia “lontanissimo da ogni interesse ed avidità di denaro”; o fu semplicemente un “pasticcere di quadri” ? che sapeva contraffare alla perfezione, come sostiene il
Baldinucci, che però lo descrive “veramente angelo nei costumi e di sode virtù” ed anche “grande nella pittura” tanto quanto “singolare nella pietà”, nonché “grande erudito e finissimo critico”.
I giudizi estratti dalle biografie degli storici dell’epoca delineano, come si vede, una personalità contraddittoria; ma anche le descrizioni a noi più vicine, come quelle succedutesi per tutto l’arco del novecento, si muovono nella stessa linea, pur facendo trasparire pareri contrastanti. A cominciare dall’intervento “succinto ma fondamentale” –scrive la
Rossetti- di
Friedrick Novak (1912) proseguendo con il
Voss (1924) per arrivare soprattutto a
Roberto Longhi che, secondo la studiosa, giunse a “stroncare gli stessi modi pittorici” del romano, allorquando, analizzando il quadro raffigurante il
Giovane in meditazione (ma più probabilmente una
Maddalena come sostengono alcuni) parlò di “falso arcaismo” criticando in particolare “una ‘diligenza’ diremmo raffaellesca che, ai tempi di Caroselli, non era più in grado di intendere, ma soltanto di adulterare”.
Questo riferimento all’ “arcaismo” –sotto forma di una qualche “diligenza” sia pure “adulterata”- sembra in effetti il vero punto in comune tra quanti

hanno tentato un’esegesi ancorché parziale dei lavori di
Caroselli. Ed in effetti, ad una “volontà arcaicizzante” effetto di un “atteggiamento cosciente di rifiuto e rotture nei confronti del trionfante assolutismo barocco”, fa riferimento
Anna Ottani Cavina in quello che è stato il primo studio dedicato interamente ad
Angelo Caroselli, risalente al lontano 1965.
Marta Rossetti definisce questo testo “una vera e propria opera letteraria” da cui emerge un artista “scaltro, mutevole, affascinante” per il quale “mai una bandiera diviene ragione di vita”, specificando comunque che “l’indole non è di saltimbanco”.
Merito della
Ottani, secondo le citazioni riportate, è aver rilevato e documentato le ascendenze dei modi pittorici caroselliani, a partire da Caravaggio, proseguendo con
Annibale, Orazio Gentileschi, Domenichino, arrivando al neovenetismo di
Mola o
Testa, fino alla produzione di madonne frutto di un “controriformismo figurativo” di stampo eminentemente toscano, interno ad un ”impianto neorinascimentale (i rimandi sono a
Piero della Francesca, Bronzino, Allori, al Cinquecento veneziano)”.
Di “palese arcaismo” ebbe a parlare anche
Giuliano Briganti schedando una importante opera oggi proprietà della
Fondazione Roma, da lui definita
Madonna del baldacchino, della quale “non è facile individuare le fonti e quindi le intenzioni che sono dietro … a una così dichiarata aspirazione rinascimentale.
Raffaello, Correggio, Giorgione, Dosso? Di tutto e di niente”. Ed a questi riferimenti ha fatto cenno ora la stessa
Rossetti, la quale, schedando nel suo volume un’altra opera, la
Annunciazione di Matelica (fig. 5), parla di una “felice e arcaizzante complessità compositiva” che richiama alla mente “alcune immagini celebri della storia dell’arte”.
A questo punto, se mettiamo nel conto anche queste due Madonne, l’una dell’
Annunciazione di Matelica e l’altra del dipinto della
Fondazione Roma (in cui la Vergine appare con il Bambino tra le braccia e gli arcangeli Michele e Raffaele), di una vera e propria “produzione di madonne”, come scrisse la
Ottani, si deve parlare, dal momento che se ne arrivano a contare 29 dipinte dall’artista, per lo più col Bambino, ma anche con santi, angeli, o in fuga dall’Egitto. Né sappiamo dire se questa insistenza fosse il frutto solamente delle richieste delle varie committenze, magari in ragione di una qualche contingenza particolare di carattere politico o religioso, posto che la raffigurazione della Vergine aveva assunto da tempo un valore
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emblematico nella lotta contro i protestanti ripresa con gran vigore con lo scatenarsi della
Guerra dei Trent’anni, anche se mai messa in secondo piano dalla
Curia romana.
Eppure, a vederle bene queste vergini dipinte da
Caroselli riflettono un’idea del tutto peculiare: non compare infatti tra le pur numerose immagini mariane dipinte dall’artista alcuna rappresentazione di vergini ai piedi della croce, o in lacrime durante la deposizione del Figlio, o al sepolcro, né compaiono mai madonne addolorate; al contrario, tutte sono in atteggiamento sereno, se non, in qualche caso, addirittura sorridente e gioioso col Bambino (fig. 6), se si esclude la figura della Vergine nella
Pietà dipinta ad olio sul muro per conto di
Pietro Vittrici nella cappella alla
Chiesa Nuova (fig. 7).
Ma anche in questo caso, seppure accettiamo la circostanza –che la
Rossetti dice probabile- che la commissione a
Caroselli pervenne grazie al padre oratoriano
Fabiano Giustiniani, è difficile credere che l’iconografia sia frutto di una qualche specifica meditazione dell’artista. Perché è un fatto che non risulti da nessuna parte un suo particolare legame con l’ambiente -pure molto popolare tra la nobiltà romana e fra vari artisti in quegli anni- ruotante intorno all’oratorio di
san Filippo Neri. E la cosa non ci deve apparire affatto strana. Difficile, in effetti, immaginare Caroselli lì a battersi il petto, partecipe di quel clima, di quei miserere, di quelle recite senza neppure la fioca luce di una candela, di quell’associazionismo filippino insomma caratterizzatosi, proprio a partire dalla fine del XVI secolo, per il grande lavoro di restaurazione di un rigoroso costume religioso che il clero ordinario pareva aver dimenticato o quanto meno svalutato.
E’ noto, in effetti, che nonostante l’impegno e la determinazione di vari pontefici, a cominciare da
Pio V, la condizione del clero locale si era andata caratterizzando per la trascuratezza e il pressapochismo nella conduzione e nella gestione parrocchiale, spesso in balia di vicari mal retribuiti e ancor peggio motivati. Ha scritto
Mario Scaduto “se i danni di siffatto malgoverno non furono irreparabili, si deve ad alcune confraternite in buona salute … sostenute da qualche sacerdote illuminato” (cfr,
M. Scaduto,
La storia religiosa di Roma. Problemi e metodi, in “Ricerche per la storia religiosa di
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Roma”, 1, 1977, p 19). Fu dunque un’attività di capitale importanza per la Curia quella delle confraternite, anche se nel corso del Seicento –sempre a parere dello
Scaduto- venne ridimensionandosi l’ “afflato interiore che aveva animato le manifestazioni delle associazioni religiose”, con il risultato che avrebbe preso sempre più spazio un “bigottismo pomposo”.
Non fu insomma un sentimento partecipato, collegato alla spiritualità di una qualche confraternita, a caratterizzare quell’opera di
Caroselli che, dunque, rimane un
unicum.
Vero è –ma non sappiamo quanto e se l’artista ne avesse contezza -che i controversisti cattolici a suo tempo avevano duramente contestato le raffigurazioni in cui Maria piange o sviene sul calvario o ai piedi della croce :”Sta forse scritto nel Vangelo che la Vergine stesse distesa ai piedi della croce? No!” veniva scritto. E fu certo in ragione di ciò -come riporta il Baldinucci- che venne negata ad
Abraham Bloemaert l’autorizzazione a pubblicare un’incisione che rappresentava per l’appunto la madonna distesa ai piedi della croce. Né –richiamandosi a
sant’Agostino- si giustificava che piangesse :”
Stantem illa lego, flentem non lego”, aveva affermato il santo di Ippona (per le citazioni, cfr,
E. Male, L’arte religiosa nel ‘600. Italia, Francia, Spagna, Fiandra, Mi, 1988, p. 34)
C’è quindi da ritenere che il richiamo iconografico arcaizzante, che abbiamo visto essere un punto unificante nelle valutazioni degli studiosi, fosse dovuto in effetti ad una particolare visione dell’arte religiosa, non originata però da un “controriformismo raffigurativo” come adduceva la
Ottani, bensì più probabilmente da una visione del tutto differente, marcatamente rasserenatrice, che rifuggiva dalla rappresentazione del dolore, ed in questo senso si, da periodo aureo del Rinascimento. Non meraviglia allora che si sia percepito, da parte della critica d’arte, il richiamo agli antichi maestri. E’ come se il pittore romano riavvolgesse all’indietro il nastro della storia, verso un clima se si può dire di eleganza ed allo stesso tempo di indubbia sapienza figurativa (ma anche di inquietudine e di simboli, come vedremo), in grado di riproporre un’intera tradizione formale che porta in sé –come è stato notato- echi lontani (non a caso si sono fatti i nomi di
Piero, di
Botticelli, di
Bronzino, di
Michelangelo ecc.), estenuazione di una sensibilità che sotto questo aspetto non si può certamente definire al passo con i tempi.

Non va però ignorato l’atteggiamento di rispetto filologico nei confronti di una tecnica che aveva avuto il suo massimo splendore in epoca precedente: essa induce
Caroselli a mantenere quella certa frontalità delle immagini, quella tipica rappresentazione dei panneggi, quella fedeltà ai colori timbrici. Né allo stesso modo va ignorato il rispetto per la convenzione strutturale, vero e proprio omaggio ad un impianto compositivo evocato da più parti della critica, come appare bene se per esempio prendiamo quella che
Briganti, come si è visto, definiva la
Madonna del baldacchino -fig 8- (che però non è stato possibile all’autrice pubblicare se non tramite una “restituzione grafica” , per la mancata quanto ingiustificabile concessione alla riproduzione,
ndA).
Si vede bene qui come il rapporto -non solo tematico- con quella tradizione appaia molto poco mediato e come gli apporti stilistici e i prestiti iconografici, assunti come elementi per una reinvenzione che si potrebbe anche definire immaginifica, rientrino in una sorta di evocazione tanto a livello iconografico che stilistico.
Detto questo però il portato iconologico, che dovrebbe essere funzionale al dramma divino ed umano, appare pressoché impercettibile: il valore di una qualche teofania sia pure
latu sensu è del tutto perduto e se il richiamo cromatico, la ricchezza di linguaggio, le suggestioni stilistiche ricordano le antiche rappresentazioni, il complesso della raffigurazione invece sembra immerso in una sorta di
réverie pseudo mistica, certamente più nostalgica che spirituale, e che finisce appunto col riflettere esperienze molto diverse da quelle contemporanee.
Ne nasce l’idea che
Caroselli probabilmente non fu in genere come artista (non vogliamo dire come uomo) del tutto fedele ai modelli che dominavano l’estetica cattolica contemporanea; e crediamo che ovviamente in questo abbia pesato “la disinvoltura con cui il pittore mutava di pelle”, secondo la acuta definizione espressa a suo tempo da
Elisabetta Giffi (cfr.
E. Giffi,
Per il tempo romano di Pietro Paolini e gli inizi di Angelo Caroselli, in “Prospettiva”, 46, 1986, p. 26).
Che poi questo possa essere stato da subito il suo comun denominatore, non è difficile da credere, forse addirittura dal tempo del suo esordio come pittore, avvenuto che era molto giovane (nel 1604 risultano già suoi versamenti all’accademia di San Luca); una specie di costume, se non proprio ancora del contraffattore, quanto meno del disinvolto “mutante pelle”, probabilmente già in quei primi tempi ritenuto tale, se consideriamo che nel 1610, appena ventenne, parte per la Toscana ingaggiato da
Guglielmo Banzi, uno che evidentemente se ne intendeva (secondo
Baldinucci “trafficava in compere di quadri”), proprio per approntare quelle copie che il
Granduca Cosimo II è dimostrato che apprezzasse particolarmente (è l’anno, rileva la
Rossetti, in cui “Banzi muove 2000 scudi dal suo conto per pagare copie e pastiches”, finiti evidentemente questi nelle collezioni di

Cosimo II, quelli nelle tasche del pittore).
Non sarà quindi un caso, per fare solo alcuni esempi, che un dipinto come la
Visione di San Romualdo del
Museo di Capodimonte (ora in Deposito presso
Palazzo Reale) sia passato per decenni come opera di
Pier Francesco Mola almeno fino al 2012, allorquando
Gianni Papi la ricondusse al periodo napoletano di
Caroselli inserendola nel suo catalogo sulla base del confronto con altre opere, non tutte però accettate dalla
Rossetti che, invece, l’avvicina stilisticamente alla
Messa di San Gregorio Magno (fig. 9) della
chiesa di Santa Francesca Romana, “dipinta con grande probabilità -così scrive la studiosa- intorno al 1631”, nonché, “in seconda istanza” con il San Venceslao “dipinto tra il 1627 e il 1631 grazie a monsignor
Prospero Fagnani Boni, per la basilica di San Pietro e oggi al
Kunsthistorisches Museum di Vienna” ed ancora con il
Figliol Prodigo della
Galleria Spada e con l’
Orfeo che incanta gli animali di collezione privata; tutte opere (insieme ad altre ancora) tra loro accostabili “per il ductus pittorico ‘sciolto e seicentesco’ se valutato rispetto alla totalità della produzione del pittore”.
Ma la cautela e l’ampio arco di tempo in cui vengono posizionate le possibili datazioni sono la dimostrazione del fatto -rilevato da tutti i critici- di come sia arduo se non impossibile orientarsi nel percorso stilistico relativo alle opere dell’artista.
Né possono risolvere tale dilemma i pur importanti ritrovamenti emersi dai sondaggi effettuati dall’autrice negli archivi di Napoli, che però, a guardar bene, potrebbero consentire l’apertura di qualche nuova interessante riflessione. E’ necessario a questo riguardo esaminare in particolare la definitiva messa a fuoco circa il non breve soggiorno napoletano di
Caroselli (1616 – 1623), un tema in verità in parte già esplorato da
Giuseppe Porzio e dalla stessa
Rossetti, la quale ora però presenta nuovi elementi di notevole rilievo concernenti la vita del pittore, a cominciare dagli atti di battesimo dei figli, con i nomi delle madrine e dei padrini. Elementi che, se a prima vista potrebbero apparire poco influenti, invece non vanno affatto sottovalutati, dal momento che ci consentono di acclarare come il padrino di
Giacoma Caroselli, battezzata nella capitale del Viceregno il 26 settembre 1616, fosse
Giovanni Francesco Salernitano, un ricco nobile partenopeo con importanti parentele in ambito religioso e dell’alta politica. Fa certamente riflettere il fatto che l’inventario dei suoi beni comprenda “75 quadri, 35 disegni, 40 marmi, un crocifisso e un San Giovanni, oggetti in cristallo di rocca, lapislazzulo ed agata, 2000 libri … di letteratura artistica”. Non è illogico ipotizzare, come fa l’autrice, che il movente collezionistico possa in realtà nascondere “interessi artistici ed estetici che vanno aldilà del semplice possesso di oggetti d’arte”, tanto da far immaginare di che tipo debba essere stato il rapporto intessuto “con una figura particolare quale il
Caroselli, copista e pasticheur”. Tra l’altro non è affatto azzardato credere che tale inventario “sia da connettere ai fatti storico politici del tempo”, come l’autrice nota ancora giustamente, se si tiene conto dell’ordine emanato alla fine del 1647 in cui a “Ciccio Salernitano” viene imposto “entro il 2 dicembre … (di) venire ad abitare dentro di questa fedelissima Città di Napoli” nonché di “presentarsi alli capitani dell’Ordine sottoscritte”. Siamo allo scadere del 1647;
Masaniello, com’è noto, venne assassinato il 16 luglio di quell’anno nel
convento del Carmine “mentre nell’attigua chiesa il cardinale (
Ascanio Filomarino, ndA) celebrava con la consueta solennità la festività della Madonna”, tanto da far ritenere che “il Carmine fosse stato predisposto come un’autentica trappola per sottrarre la strage a testimonianze indiscrete “ e addirittura che “il Cardinale ne fosse tutt’altro che all’oscuro” (cfr,
R. Colapietra,
Il Governo spagnolo nell’Italia meridionale. (Napoli dal 1580 al 1648), in Storia di Napoli, vol V, tomo I, p 237); considerato tutto ciò, è assolutamente plausibile che, per non incorrere in sanguinose rappresaglie, il
Salernitano già da tempo avesse deciso di abbandonare la città, vista la tradizionale aderenza famigliare al ‘partito spagnolo’.
Ma per ritornare al soggiorno di
Caroselli in città, ci si è chiesti, da parte di quanti studiosi hanno trattato l’argomento, per quale motivo egli non rimanesse influenzato da quanto si veniva ricomponendo sul piano della figurazione, considerato il rinnovato impulso che l’esperienza di
Caravaggio -scomparso da poco- aveva dato all’intero ambiente artistico e culturale della capitale vicereale, dove peraltro, l’ha fatto notare
Gianni Papi, proprio allora “giungeva pressoché in contemporanea Ribera”. Se si esclude il dipinto della
Certosa di San Lorenzo a Padula, raffigurante
I Santi Paolo eremita e Antonio Abate nutriti da un corvo -che però la Rossetti non giudica autografo- dove forse è possibile cogliere -secondo lo studioso- un flebile accostamento ai modi giovanili di
Filippo Vitale, è un fatto che il pittore romano non rimanesse per niente suggestionato -né c’è traccia alcuna di suoi rapporti diretti- dai vari
Sellitto, Battistello, Ribera ed altri (cfr.
G. Papi, L’enigma Caroselli, in "Artibus et Historiae", 2012, n.65, p. 128). E’ la stessa considerazione ribadita sostanzialmente dalla Rossetti, né, per parte opposta, pare che
Caroselli abbia a sua volta lasciato traccia della sua permanenza a Napoli, come ha scritto
Giuseppe Porzio.
Si tratta di affermazioni che però, come dicevamo, potrebbero essere riviste perché la lunga e proficua indagine condotta dalla
Rossetti sul rapporto tra
Caroselli e la famiglia
Salernitano, testimoniato tra l’altro “dalla realizzazione nel 1684 da parte di
Filippo Lauri, allievo del romano, di una
Venere che consegna le armi ad Enea” (destinata forse al figlio o al nipote del padrino della figlia dell’artista), ha consentito il ritrovamento di “alcune carte antiche, prima non note, che documentano due opere pubbliche napoletane attualmente disperse”. Si tratta di un “
s.Andrea predicante dalla croce, fatto ai frati zoccolanti per la loro chiesa del monte Calvario”, e di “
un quadro d’altare ‘la Madonna Santissima dell’Arco con dui angioli che li pongano la corona in testa, et con lo suo Santissimo figliolo in braccia che sposi, et dia l’anello a Santa Caterina vergine e martire da una parte, et dall’altra ce hauerra da pittare Santo Onofrio ...” . I quadri, come detto, non si sa dove sono, ed è quindi impossibile capire se abbiano stilisticamente qualche cosa a che fare con un contesto tanto stimolante com’era allora quello partenopeo, e tuttavia non è escluso che ne possano esistere altri che prima o poi questo paragone potranno consentirlo, dal momento che le carte ritrovate confermano quanto scrisse a suo tempo il
Baldinucci e cioè che
Caroselli ebbe a dipingere “più cose al pubblico” durante il suo soggiorno partenopeo. Ed alcune di queste potrebbero perfino trovarsi ancora a Napoli.
Maurizio Marini ad esempio aveva ipotizzato a suo tempo che
Caroselli fosse l’autore della copia sita in san Domenico Maggiore della
Flagellazione di Cristo di
Caravaggio oggi a Rouen, collegamento confermato da
Porzio, e ritenuto “possibile” dalla Rossetti; senza contare quanto affermato da Papi, secondo il quale la copia napoletana del
San Giovanni Battista, il dipinto che
Caravaggio nel 1603 realizzò per il banchiere
Ottavio Costa ed oggi al
Museo di Kansas City, che nel ‘27 Roberto Longhi ritenne addirittura essere di mano del
Merisi, debba invece assegnarsi proprio a Caroselli. Anche in questo caso la
Rossetti non è d’accordo ma, va detto, la sua è una cautela assolutamente comprensibile. Pur tenendo infatti nella dovuta considerazione le note dei biografi
Baldinucci e
Passeri, secondo cui “eleggendosi per proprio genio il fare di
Michel’ Angelo da Caravaggio … si diede alla imitazione di quello”, affermazione in grado di aprire la strada a “suggestive ipotesi” come ha notato ancora
Papi, quanto meno -ma non è davvero poco- per quanto concerne la “individuazione della mano del pittore romano nel vastissimo campo delle riprese dei capolavori del lombardo” (Papi, cit., p. 133), tuttavia, conoscendo la capacità mimetica del
Caroselli, non è chiaro tramite quali parametri compositivi sia stato o sarà in futuro possibile collegare a
Caroselli copie di opere caravaggesche.
Ma se è vero che la questione sia tutt’altro che risolta e che anzi si possa aprire la strada ad ulteriori ricerche ed approfondimenti, parimenti non appare sciolta l’incertezza sulle caratteristiche stilistiche delle opere di
Caroselli, dovuta come si è detto alla sua preminente attività di contraffattore, né è chiarito il problema dell’impatto che l’ambiente artistico napoletano possa aver avuto su o anche da lui. Un ambiente inserito in un contesto al quale però bisognerebbe forse prestare maggiore attenzione, se consideriamo, tra le altre cose, che durante il soggiorno a Napoli di
Caroselli si stava svolgendo la lunga carcerazione di un intellettuale certamente singolare come
Tommaso Campanella.
Molto è stato scritto sulla figura e sulla opera del domenicano calabrese, e certo non è questa la sede per riprendere il tema; tuttavia non si può non notare la singolarità di certi eventi che collegano forse non casualmente le vicende del frate e dell’artista.
Dovevano ancora trascorrere poco più di dieci anni dall’arrivo a Napoli del pittore romano, che
Campanella, più volte processato per i suoi scritti, torturato, ritenuto pazzo ed ora in carcere per una congiura, si era lasciato irretire da tal
Michele Cervellone, suo compagno di cella ma quasi certamente una spia, in un tentativo di fuga dal carcere di
Castel Sant’Elmo, dove era costretto in una cella “fetida, oscura e fredda, con ferri ai piedi, giaciglio fradicio e sporco”, guardato a vista, come lui stesso scrisse, da “50 leopardi” (i soldati spagnoli,
ndA). E’ interessante notare che nel processo, il
Cervellone aveva riferito di aver assistito personalmente alla “evocazione di demoni intrapresa da Campanella” per favorire la fuga. Si sa che tra le molte accuse che il frate ebbe a subire, questa della frequentazione demoniaca –legata alla sua fama di mago alchimista indovino- era tra quelle più ricorrenti. Secondo Luigi Firpo pare anzi che vi ricorresse spesso in carcere per ottenere “la tanto desiderata libertà” (Cfr.
L. Firpo, Il Campanella astrologo e i suoi persecutori romani, in “Rivista di filosofia”, XXX, 1939, p.201).
Notiamo tra l’altro che scrivendo “al papa
Paolo V e ai
cardinali Farnese e San Giorgio”, per cercare di uscire dalla situazione di criticità in cui si trovava, Campanella aveva chiesto di essere trasferito a Roma per il motivo che “egli aveva gran cose da comunicare” e proprio rivolgendosi al pontefice: ”Alla persona di V.B. ho cose particolari d’avvisare per suo bene e del pubblico; che s’io mento ci è fuoco e forca per me”, fece riferimento a “visioni e rivelazioni avute ‘tre anni innanzi’ dal diavolo”. (Cfr.,
T. Amabile, Fra Tommaso Campanella. Ne’ Castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Na, 1887, v. I, p. 5).
Sappiamo che solo nel ’26 il frate di Stilo poté sbarcare nel
porto di Ripetta a Roma “travestito da prete e in catene”, così come sappiamo che la sua condizione sarebbe cambiata grazie al favore che gli accordò
Urbano VIII.
Sospettoso oltre ogni dire, letteralmente ossessionato da una sinistra profezia di morte collegata ad una particolare congiunzione astrale che lo riguardava, il pontefice aveva aperto le porte delle sue dimore a quel singolare religioso, forse ignorando, o forse no, quanto era stato riferito da vari testimoni nel processo sopra citato e cioè che “fra Tommaso” si credeva destinato “monarca del mondo e a dare nuova legge” e addirittura “si proclamava il Messia venturo“ (Cfr.
T. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Na, 1882, v. III, p.139).
Campanella, al corrente delle inquietudini del papa e mirando a conquistarne la fiducia, aveva messo in atto nel 1628, al culmine della “campagna astrologica” contro il
Barberini e mentre addirittura il ‘partito spagnolo’ si preparava per un nuovo conclave, strane pratiche di magia descritte nel
De siderali fato vitando, ricavandone, va detto, qualche risultato, se è vero quello che è scritto in un “avviso di Roma” dell’agosto del 1628 :“si è inteso che gli habbi dati certi fomenti, che sono contra li mali humori, et la malinconia, si dice che il papa si sia messo il pensiero … di vivere longamente e di molta quiete”.
Bisogna dunque entrare, per quanto possibile, dentro questo clima particolare che si viveva in quegli anni a Roma dove “dietro la severità della Controriforma troviamo spesso un mondo misterioso e tortuoso” fatto di “fermenti culturali ermetici”; “una sorta di seconda Roma –come è stato scritto- che vive nell’ombra della ufficialità” dove “non è un caso che proprio i rappresentanti dell’autorità della Chiesa coltivino in privato ciò che reprimono in pubblico”, dove “Innocenzo VIII il persecutore di Pico … non esita a consultare durante la malattia l’astrologo di Ludovico il Moro” e dove infine “Urbano VIII, che condanna l’astrologo Morandi, celebra riti magici insieme a Tommaso Campanella“ (cfr.
F. Troncarelli, La città dei segreti. Magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (XV- XVIII), MI, 1985, p. 11).
Ovviamente in tutto ciò l’Inquisizione non se ne stava con le mani in mano. Dagli inizi degli anni venti circolava in città un testo
Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficorum, con tutta probabilità redatto dal cardinale
Desiderio Scaglia. Creatura di
Paolo V Borghese, legato al ‘partito spagnolo’, lo Scaglia sembra avesse perfino brigato per annullare l’elezione del Barberini al soglio di Pietro, dopo avergli votato contro nel conclave (secondo
Von Pastor i voti contrari furono solo 3). Né si era sottratto dal mettere sotto accusa
l’Atheismus triumphatus il libro pubblicato da
Tommaso Campanella nel 1626, cercando anzi di trascinare nuovamente davanti all’Inquisizione l’autore, ma finendo poi con l’inchinarsi davanti alla autorità di
Urbano VIII.
Nominato dal
papa Borghese Inquisitore generale del Sant’Uffizio, lo
Scaglia da buon domenicano (certo distante anni luce lui dal suo confratello di Stilo), si era segnalato per l’estrema severità con cui aveva represso ogni tipo di manifestazioni considerate opera del demonio; c’è anzi da ritenere, se diamo credito alle cronache dell’epoca, che si fosse guadagnato il cappello cardinalizio proprio per l’audacia mostrata nella “attione … l’estrema che fece in Roma Commissario, che uno de’ Prencipi della Chiesa accelerogli”.
E vale allora la pena riportarne almeno una parte perché ci consente di fare alcune considerazioni utili al nostro discorso:
”Sacrificavano al Demonio in luogo sotterraneo certi Scelerati, una Fanciulla, per impetrar da sì fallito Thesoriere quel Metallo che per essere stato sempre mezo potentissimo della perdition delle Anime, più tosto Maledittione, che oro esser appellato dovea. Giunse al Papa l’aviso di sì esecranda tragedia: gli fù riferito che i Delinquenti erano numerosi & armati … Fece chiamar per questo la Consulta; & in essa si sentivano pronuntiar più timori che parole … Solo Desiderio fra tanti … alla difficile impresa Esibissi. Fù visto allhora un uomo cangiato tutto in cuore … Impugnò un Crocifisso e passando in quelle tenebre profanate giunto alla porta di quell’Inferno … abbatté la porta; portossi in quell’aria che puzzava incensi dannati; scompigliò quei fuochi, che ardevano vittime detestabili; cancellò quei caratteri che pronuntiavano nefandi essorcismi; distornò quello, che era Malefitio, non Sacrificio; fece incatenare i perfidi Sacerdoti, e per dirlo in una sola parola, mise sottosopra quante machine haveva il Diavolo estrutte in quella horribile pompa” (Cfr.
M. Slawinski, Marino, le streghe e il cardinale, in “Italian Studies”, LIV, 1999, p. 60-61).
Come si vede, l’armamentario negromantico è pressoché completo: la vergine da sacrificare (più spesso compariva in questi riti un neonato), luoghi profanati, oscure tenebre, fuochi, incensi fetidi, strane iscrizioni, esorcismi, e infine l’evocazione del demonio. Non manca quasi nulla in questa rassegna, dove “perfidi sacerdoti” impegnati nelle arti della magia, nel momento culminante collegato alla fabbricazione dell’oro, non rifiutano l’aiuto del Maligno. Osservato da un altro punto di vista, è un assemblaggio disparato di strani elementi culturali, collegati alla magia, all’esoterismo, a componenti filosofico-mistiche di antica tradizione che alimentano illusioni e speranze e dove, almeno fino a
Cartesio, come è stato sottolineato “si può essere simultaneamente sapienti e scienziati, maghi e filosofi, profeti e uomini di mondo; cioè ermetici senza ermetismo” (Cfr,
Troncarelli, cit, p 16).
Ma che c’entra tutto ciò con
Caroselli?
“Si è sempre supposto –ha scritto tempo fa
Jozef Grabski- che egli (
Caroselli,
ndA) fosse legato ai circoli degli adepti di scienze segrete: la magia, l’occultismo e l’alchimia. Benchè non abbiamo documenti scritti … basandoci solo sull’analisi dei quadri possiamo dedurre che … probabilmente egli praticava il doppio mestiere di artista e di alchimista” (Cfr
J. Grabski, Il Quadro alchimistico di Angelo Caroselli nella Fondazione Longhi a Firenze” in “Paragone”, XXIX, 341, 1978, pp. 3 – 13). In verità, a conclusioni simili era giunto molto prima
Roberto Longhi: ”Egli dovette esser covato dalla negromanzia di quei tempi –scriveva già nel 1927 su “Vita artistica”- e considerare la pittura non già come attività spirituale ma come industria alchemica” (Cfr,
R. Longhi, Ter Brugghen e la parte nostra, ora in
Saggi e Ricerche 1925 – 28, FI, 1967, t. 1, p. 166); giudizio che probabilmente ha consentito tra le altre cose di poter leggere in questa luce “l’invito fatto all’artista da parte del Re d’Inghilterra, Carlo I, egli stesso adepto di scienze segrete” (Cfr.
Grabski, cit, p. 7 che riporta un parere di Luigi Salerno).

Si può credere a questo punto che
Caroselli conoscesse le idee e le opere se non proprio direttamente quel “tal frate Campanella Domenicano, introdotto presso la Santità Sua, che sospetto a’ spagnoli è stato 24 anni in prigione a Napoli et hor liberato qua si trova et oltre l’astrologia professa di Negromantia ancora … “ –come scriveva in un dispaccio datato 19 agosto 1628, l’Ambasciatore veneziano presso la Santa Sede- ?
E’ stato scritto ad esempio che nel 1612 a Napoli erano entrati in contatto con
Campanella alcuni esponenti del
gruppo dei Rosa-Croce, uniti probabilmente dalla stessa propensione ermetica e soprattutto dall’idea del “rinnovamento del mondo in prospettiva magico-religiosa … non è certamente da escludere una diretta influenza su questi intellettuali delle opere e del pensiero di Campanella” (Cfr,
G. Formichetti,
Ermete Trismegisto nelle opere di Tommaso Campanella, in La città segreta, cit. p. 71).
Dunque, alla luce dei non pochi anni trascorsi da
Caroselli a Napoli –quando il domenicano pur in condizioni di carcere duro, come si è visto, non smetteva di scrivere libri- ed ora a Roma, dove cercava persino di atteggiarsi a fautore della politica barberiniana- è almeno legittimo porsi la domanda. Resta da capire se e come fosse possibile tradurre artisticamente idealità e pratiche così sibilline.
Occorrerà allora richiamare a questo riguardo le affermazioni di
Longhi da cui eravamo partiti, laddove alla caratteristica di “falso arcaismo” che gli faceva considerare “adulterata” l’arte del pittore romano, ne aggiungeva però una seconda: “un’altra (cifra) è quella diremo ‘negromantica’, dove il Caroselli pretende di stupire il suo pubblico … ciò che avviene -sottolineava lo studioso- con effetti finali alquanto raccapriccianti, ma non discari, sembra, a un gusto di ‘materializzazione’ quasi medianica degli oggetti, proprio a un certo seicento”.
Questa sottolineatura probabilmente non è stata recepita con l’attenzione che a nostro avviso merita, forse perché inserita -come si è visto- in un

contesto di ‘stroncatura’ senza appelli dell’opera caroselliana che certo può averla messa in ombra; ma se ammettiamo che una serie di norme, o un qualche insieme di proposizioni teoriche ci sia stata alla base quanto meno di una parte della produzione del Caroselli artista, bisognerebbe a nostro avviso ripartire da qui, da quelle strane pratiche che abbiamo visto esplicarsi neppure troppo sotterraneamente perfino nella corte papale, nonostante i divieti e le condanne inquisitoriali.
Roberto Longhi considerava proprio questa la specifica del pittore; del resto egli poteva riflettere, avendolo sotto gli occhi quotidianamente, sul dipinto raffigurante una
Vanitas (o
Allegoria della Vanità, in "Fondazione Longhi" – fig. 10 -). Tanto che, analizzando l’altrettanto nota
Vanitas della
Galleria Corsini (fig . 11)
vale a dire il “Quadro di donna con una vecchia con uno specchio in mano con cornice di noce di mano del Carosegli” -così descritto in un inventario del 1650, con l’artista romano ancora vivente - sottolineava come l’artista vi esprimesse la sua “cifra più comune”, ossia la cifra ”negromantica”.
Va ovviamente tenuto nel giusto conto a questo riguardo, per il rispetto che si deve ad un lavoro di così ampio spessore filologico e documentario, che nel suo libro, la
Rossetti -peraltro in compagnia di larga parte della critica contemporanea- tende a ridimensionare l’importanza di questo tema, riferendo “legata alla mano dello pseudo Caroselli” quella particolare tipologia di opere. Si è parlato a lungo, e finora senza risultati sicuri, di questo misterioso collaboratore. La tesi avanzata dalla studiosa –alle cui note rimandiamo per una disamina della questione - è che possa trattarsi di “un membro della famiglia dei maestri orefici Cousin, italianizzata Cugini, imparentata con i Caroselli tramite
Brigida Lauri, seconda moglie del pittore e figlia di
Balthasar Lauwers e di
Elena Cousin”. E tuttavia, per quanto riguarda la produzione di quei certi soggetti, occorrerebbe forse tenere del dovuto conto che il nomignolo potesse derivare a questo ancora ignoto seguace si da una assidua frequentazione con l’artista, ma anche dal fatto che assumesse forme iconografiche evidentemente già tipiche del pittore romano.
Per fare una digressione, si può dire che più o meno la stesso discorso potrebbe riguardare un altro iniziale seguace di
Angelo Caroselli, vale a dire
Tommaso Dovini (o Donnini), detto
il Caravaggino, il quale una volta assunto nella bottega venne “spinto dal maestro a studiare molto approfonditamente e a copiare i dipinti del lombardo, specializzandosi a tal punto nell’imitazione del
Merisi da poter ben presto affiancare
Caroselli in questo lavoro fino a meritarsi il soprannome del Caravaggino” (cfr
. F. Curti,
Precisazioni documentarie su Tommaso Dovini, detto il Caravaggino, in
Decorazione e collezionismo a Roma nel Seicento. Vicende di artisti, committenti e mercanti, a cura di
F. Cappelletti, Roma, 2003 , p.145). Non era per niente inusuale infatti, com’è ben noto, che un artista giovane, ancora apprendista presso un maestro più o meno noto, ne derivasse, a volte per comodità, più spesso per onorarsene, una sorta di attributo di riconoscimento (ad es.
Alessandro Allori fu detto
il Bronzino,
Francesco Boneri, Cecco del Caravaggio,
Bartolomeo Cavarozzi, Bartolomeo de’ Crescenzi, ecc).

Quindi, per ritornare al tema, non è improbabile che altre prove del genere
Caroselli possa aver realizzato, ed in ogni caso è un fatto che egli vi si misurò più di una volta. In un davvero imponente
Catalogo Ragionato, la
Rossetti analizza la storia del quadro della
Galleria Corsini preso come significativo esempio da
Longhi e pubblica cinque repliche (più una copia tarda); a queste vanno aggiunte altre due
Vanitas uguali tra loro ma di differente iconografia rispetto a quella
Corsini, come pure differente è l’altra
Vanitas di
Palazzo Barberini, assai nota perché più volte pubblicata ed esposta, ed ancora differente è la versione al
Collegio Alberoni di Piacenza; infine come
Vanitas è letta anche la tela raffigurante
I Cinque sensi (fig. 11).
Siamo a dodici raffigurazioni, senza contare altre opere che in modo o nell’altro ad un significato simile potrebbero senza dubbio alludere. Se si esamina, come crediamo opportuno, questo tema alla stregua di un “soggetto molto più complesso, legato al pensiero alchemico, così caro a Caroselli” (Cfr
Grabski, cit, p 6) e quindi vi aggiungiamo le
Negromanti (figg. 12, 13) una già in
collezione Canesso, l’altra alla
Pinacoteca Podesti di Ancona -certamente vicine semanticamente ma decisamente di più incisivo impatto simbolico e allegorico- pur essendo queste le due uniche prove di un simile tema messe in catalogo dalla
Rossetti, risulta chiaro come l’artista si muovesse pienamente a suo agio su questo terreno.
Avviene insomma come se
Caroselli prendesse finalmente atto delle proprie potenzialità non collegate alla riproduzione ed alla contraffazione di

opere altrui, si rendesse conto cioè delle problematiche inerenti al mestiere e al ruolo dell’artista, e conseguentemente dell’urgenza di una dilatazione
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dei temi, esprimendo così, attraverso una sorta di conversione iconografica, se si può dire, in una maniera invero originale quella che può apparire la sua riflessione sul destino dell’uomo, sulla vita e sulla morte.
Può sembrare curioso che ciò potesse avvenire e che fosse proprio lui – se ora accettiamo di vederlo come artista ‘autonomo’- ad adottare un simile punto di vista. Tuttavia, non va trascurato quanto riferiscono le note biografiche, come si è visto all’inizio, quando ne esaltano l’altruismo; fu “singolare nella pietà”, un vero “angelo nei costumi e di sode virtù” tramanda il
Baldinucci, secondo il quale –prendiamo la citazione da
Emile Male- “non volle andare in Inghilterra, pur essendovi chiamato dal re, nel timore di non potersi dedicare ai suoi esercii di pietà, essendo in un paese protestante” (
Male, cit. p. 36).
Vero è che dietro questa facciata resterebbe pur sempre da vedere come poi tutto si esprimesse quotidianamente, in un’esistenza che quelle stesse fonti tramandano non esattamente morigerata. Se pensiamo ad alcuni suoi contemporanei ad esempio la differenza salta agli occhi. Bernini ad esempio, nonostante -a sentire sua madre- si sentisse “il padrone del mondo”, poi però “ogni mattina udiva devotamente la messa”, come tramanda il figlio
Domenico, e inoltre “leggeva avidamente i libri di devozione” essendo “profondamente religioso” (cfr,
I. Lavin,
Bernini e l’unità delle arti visive, 1980, p.4). Ed era quello stesso artista che, nel 1619 ”eresse a lumi spenti e coperti” un vero e proprio “sacro teatro”, inaugurando, come narrano le cronache, la pratica delle “quarant’ore” nell’oratorio del Caravita in tempo di carnevale, mentre già tre anni prima lavorava agli “epitaffi di monsignor Giovanni Battista Speroni” in
Santa Prassede.
D’altra parte, in un secolo come il Seicento che, secondo l’idea di molti, fu un secolo particolarmente devoto, il genio berniniano ebbe sempre presente l’immagine della morte, come si capisce dalle molte sculture funebri. “Nel corso della sua lunga vita -ha scritto
Erwin Panowski- Bernini trattò, dandogli nuova forma, tutti i tipi possibili di scultura funeraria, dalle modeste memorie … edificate nelle chiese romane minori, in onore di persone distinte ma non troppo importanti, fino alle grandiose tombe di due papi a San Pietro” (Cfr.
E. Panowski, La scultura funeraria dall’Antico Egitto a Bernini, a cura di
P. Conte, To, 2011, p.156).
Dunque, la meditazione sulla morte, la sua rappresentazione visiva, divengono in forza proprio dell’opera di
Bernini il "logo" come diremmo oggi del secolo XVII, che entra si può dire fisicamente nelle chiese, ne impronta la raffigurazione, si trasferisce nella letteratura, campeggia insomma in tutte le arti. E’, in pratica, come se fosse questa l’altra faccia di un secolo che “si porta dietro le sue superstizioni … vede dappertutto l’azione del maligno …

subisce la seduzione della magia” (
Scaduto, cit. p. 25.).
Proprio questo può essere illuminante su quanto abbiamo accennato all’inizio del nostro discorso, vale a dire quale fu la reale ispirazione di Caroselli. Rimasto del tutto estraneo -almeno a quanto se ne sa- ad un contesto in cui gli artisti gareggiavano nel creare opere d’arte su tela, in stucco, gesso, cera -teatri, macchine, fuochi artificiali, apparati- quando occorreva festeggiare particolari ricorrenze, festività, carnevalate ecc, egli, per l’appunto, subisce in un certo senso la “seduzione della magia”, affronta i temi oscuri del simbolismo alchemico, concepisce immagini capaci di creare suggestioni e riflessioni ben al di là di quanto appare visivamente. Simboli, certo, ma rivestiti, questi, di una suggestione oscura, con un’iconografia di difficile decifrabilità, come nelle immagini singolari delle due “Negromanti” catalogate dalla
Rossetti, figure capaci di creare uno spaesamento semantico e proiettare in una dimensione extraumana, come se l’artista fosse alla ricerca di un “medium” tra il mondo terreno e quello dello spirito.
Molto precisa e dettagliata è la schedatura delle due tavole fatta dall’autrice -che le connette, confermando ipotesi precedenti, al
Ragazzo morso dal ramarro di
Caravaggio e alla
Scena magica di
Pieter van Lear, il Bamboccio- ed ai suoi acuti approfondimenti rimandiamo il lettore; conviene qui sottolineare quegli elementi descritti molto bene dalla studiosa che in qualche modo richiamano la scena sacrificale che abbiamo visto arditamente interrotta dal Cardinale Scaglia. Se si eccettua il bambino retto in braccio da una vecchia che nel dipinto di Ancona prende il posto della vergine, vi compaiono infatti il fuoco, le tenebre, poi i carboni ardenti, e poi l’evocazione del maligno con i suoi artigli diabolici, e poi ancora le strane iscrizioni, i misteriosi segni sulle pagine del libro su cui si sta consumando una candela. Secondo la studiosa, che ritiene le due opere dipinte a
pendant, la
Negromante di Ancona presenta i tratti della Crudeltà e della Melanconia, elementi che “si agganciano ai caratteri della strega”.

Saremmo di fronte insomma alla “visione stravolta e terrorizzata del magico”, come l’ha definita
Dora Catalano, tipica soprattutto delle “
Stregonerie” di
Salvator Rosa, il quale “raccoglie il lascito della traduzione nord europea e ne ripropone non solo l’iconografia ma anche l’implicito messaggio: la riduzione della magia al suo lato demoniaco” (cfr
D. Catalano, Oltre Salvator Rosa. Magia e e Demonio in alcuni dipinti romani del Seicento, in
La Città dei segreti, cit., p. 99). E però, come nota giustamente la studiosa, una “connessione tra magia e demoniaco” era presente già in quelle che significativamente definisce le due “
Streghe” di
Caroselli, oltre che nel quadro citato di
Van Laer, realizzati senz’altro prima dei testi di
Rosa. La Rossetti infatti riferendosi alla
Negromante già in
collezione Canesso la situa tra il 1620 e il 1625, un arco di tempo per noi piuttosto significativo e distante dalle opere dipinte dal
Rosa.
Ma l’equazione magia uguale negromanzia verso di chi si dirigeva particolarmente ?
Un notevole saggio storico di Marina Cafiero ha chiarito molto a questo riguardo:” Per i loro riti e usanze, oltre che per l’ostilità di cui erano oggetto, gli ebrei erano considerati maghi e negromanti per eccellenza”. Proprio in ragione di ciò,
Pio V, nel 1569, ne aveva stabilito l’espulsione dallo Stato della chiesa “escludendo Roma, Ancona ed Avignone”. E nonostante la bolla
Coeli et terrae, con cui com’è noto
Sisto V nel 1586 aveva condannato tutte le arti magiche e l’Astrologia nel suo complesso, ancora
Gregorio XIII e poi
Clemente VIII erano dovuti intervenire con due costituzioni già molto esplicite nei titoli (
Antiqua Iudaeorum improbitas del 1581 e
Cum Haebreorum malitia del ‘93) che “contenevano puntuali accuse agli ebrei di praticare le arti stregonesche e innanzi tutto l’evocazione e la consultazione del diavolo” (Cfr.,
M. Cafiero, Magia ed ebraismo: un nesso poco considerato, p. 259) e dove gli “orrendi delitti” (“
orrenda facinora”) imputati loro - “per disprezzo e bestemmia della religione cristiana”- venivano elencati minuziosamente in modo tale che “gli inquisitori potevano e dovevano procedere”.
Tra gli elementi necessari affinché le “pratiche magiche, diaboliche e stregonesche degli ebrei” avessero successo, occorrevano “circoli magici”, “caratteri diabolici”, “accensione di candele”, “formule astruse”, “pratica degli anelli”, “caraffe e ampolle piene d’acqua”, nonché quell’ “idioma incomprensibile, ritenuto molto efficace per formule magiche, proprio per i suoi caratteri di oscurità e segretezza … dall’incerto significato”. Ritroviamo in larga misura questi elementi nei due dipinti di
Caroselli e in qualche sua
Vanitas, insieme al “tema del fuoco” che in questo caso, sottolinea la Rossetti nella scheda della
Negromante di Ancona, “è il vero protagonista, perché produce un effetto di luce rossa che si riflette sul volto della donna”. Non manca naturalmente l’elemento più truculento, che si ricollega all’accusa contro gli ebrei di “omicidio rituale a danno dei bambini cristiani”
(Cafiero, cit), vale a dire il sacrificio del neonato.
A fronte di ciò, c’era il fatto come scrive la
Cafiero, che “cristiani ed ebrei compivano insieme sortilegi e rituali magici”, come dimostra la documentazione archivistica citata dalla studiosa, secondo la quale “gli aspetti di commistione, scambi e connubi tra ebrei e cristiani nel campo dei sortilegi e delle magie risaltano con evidenza”. E fa riflettere in questo senso la “attione” che abbiamo visto promossa dal
cardinale Scaglia contro il rituale satanico della fabbricazione dell’oro, dove gli ebrei proprio non compaiono, non essendoci dubbio alcuno che in caso contrario non sarebbero scampati né alla repressione né alla pubblica denuncia. Specie se consideriamo che lo stesso cardinale inquisitore, nello scritto dedicato ai sortilegi (probabilmente la
Prattica, risalente ai primi decenni del Seicento) “pur dando una descrizione di quelli qualificanti, cioè implicanti il patto con il demonio, finiva per coinvolgere tutte le tipologie di sortilegi nella categoria dell’ eresia e nelle medesime pene” (cfr, Cafiero, cit. p. 260).
Se consideriamo a quali conclusioni –come si è visto- giunsero spesso quanti accusarono Campanella costringendolo a ventiquattro anni di galera, si pone il problema di sapere come il frate approdasse ai lidi dell’esoterismo magico-negromantico, posto che in gioventù a quanto pare avesse addirittura deriso l’astrologia; allo stesso modo, occorre chiedersi in forza di cosa, ritornando alle sue composizioni negromantiche,
Caroselli venne distolto dalla pratica di contraffattore e copista.
Ed è a questo punto che le vicende del frate di Stilo e dell’artista romano probabilmente s’incrociano.
Fu un “
Adamo ebreo”, si crede partito con lui dalla Calabria alla volta di Napoli, ad inserire
Campanella nelle pratiche esoteriche finendo con il pronosticargli “che havea da essere il Monarca del mondo” dal momento che chi tra gli uomini era pervenuto “a qualche dignità o imperio” aveva potuto far conto solo su “tre pianeti ascendenti favorevoli” mentre
Campanella “n’havea sette et per questo aspettava la Monarchia del mondo” (T. Amabile,
Fra Tommaso Campanella, la sua congiura …, cit., 230).
E
Caroselli ? La
Rossetti ha avuto l’acutezza di notare, schedando un importante quadro di ubicazione ignota, cioè
Cristo riposa presso il pozzo di Giacobbe, che “alcuni personaggi indossano un berretto simile alla Kippah, copricapo indossato dagli ebrei maschi”, che un edificio che compare in fondo potrebbe essere “la porta della città di Sikhar nella terra di Samaria”, con un mascherone che “presenta un’iscrizione redatta con quattro lettere dell’alfabeto ebraico”, ed infine che “la figura dal volto scuro” indossa il caratteristico abito e mantello rosso e blù a coprire la testa, cioè un “copricapo dalla foggia palestinese”. Secondo la studiosa “certi elementi di questo come di altri dipinti di Caroselli” è possibile che “rimandino al mondo della cultura ebraica”.
Ed in effetti tra le frequentazioni partenopee dell’artista ci fu il notaio
Giuliano Nepeta, “il cui cognome -nota la Rossetti- rinvia a Nept, ovvero Nepi, paese natale di Achille Caroselli” (il padre dell’artista
ndA) il quale inoltre per venire incontro alle volontà testamentarie della moglie “il 15 novembre 1616 paga 31 ducati a Caroselli … affinché realizzi … una tavola d’altare … rappresentante la “
Madonna dell’Arco tra i Santi Caterina d’Alessandria (con nozze mistiche) e Onofrio … “.
Scrive ancora la
Rossetti che il cognome Nepeta
alias Nepi, come pure quello del “procuratore del Caroselli dimorante in Napoli”,
Claudio Napoli, “debbono insospettire” riportando un parere del “professor
Mauro Perani” secondo il quale “l’usanza dei cognomi indicanti la città di provenienza sia per gli ebrei già prassi consolidata nel Cinquecento”.
Sono considerazioni che aprono molti interrogativi, da una parte relativamente alle possibili componenti culturali che -come del resto si è visto- potrebbero avere avuto influenza sul pittore, ma anche, per un verso esattamente opposto, riguardo alla necessità che spinse molti ebrei ad accreditarsi –magari proprio tramite committenze di carattere religioso- presso un contesto sociale e politico certo poco tollerante nei loro confronti –anche per le credenze e le superstizioni che abbiamo citato-. Come potrebbe essere stato il caso del
notaio Nepeta, o
Nepi, che potrebbe rientrare nel complesso e non troppo ancora indagato fenomeno della partecipazione degli ebrei a ritualità ed usanze diverse dalle loro; un tema che in questa sede è solo possibile sollevare.
Resta dunque un tema, questo collegato alla “frequentazione da parte del pittore di personaggi di verosimile ascendenza ebraica”, come coglie bene nella
Prefazione Stefania Macioce, “degno di ulteriori indagini”.
E non è il solo che scaturisce dalla ricerca condotta con rara efficacia da
Marta Rossetti, così che infine, come in un percorso ad anello, ricompare la domanda iniziale: chi fu davvero Angelo Caroselli ??
di
Pietro di Loreto roma 13 / 1 / 2017