in mostra al Palazzo delle Paure Lecco
Giovanni Cardone Ottobre 2023
Fino al 26 Novembre 2023 si potrà ammirare al Palazzo delle Paure Lecco la mostra NOVECENTO. Il ritorno alla figurazione da Sironi a Guttuso a cura di Simona Bartolena. L’esposizione è prodotta e realizzata da ViDi cultural, in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Urbano Lecchese. Da un mio Saggio scritto a quattro mani con Rosario Pinto Valori Plastici E il Clima di Ritorno all’Ordine edito da Printart Edizioni Salerno: Fu proprio sulla questione legata alla città portuale che l’Italia aveva trovato la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile 1919, avanzò la proposta di creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere un porto utile per tutta l’Europa balcanica e che le rivendicazioni dell’Italia nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti, tanto da essere additate come ‘imperialiste’. Fece pubblicare, sui giornali francesi, un suo articolo che ribadiva questi concetti. Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, ma nelle più grandi città italiane si verificarono disordini presso le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi. Orlando fece ritorno a Parigi il 7 maggio 1919, ma al suo arrivo nella capitale francese, il politico italiano trovò un clima decisamente ostile nei suoi confronti, tanto che si rese conto dell’impossibilità di proseguire sulla propria linea e rassegnò le dimissioni. Il nuovo governo fu presieduto da Francesco Saverio Nitti, nuovo ministro degli esteri fu Tommaso Tittoni. Il 10 settembre 1919, Nitti sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci (quindi il confine del Brennero), ma non quelli orientali. Le potenze alleate, infatti, avevano autorizzato l’Italia e il neo-costituito il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che nel 1929 avrebbe assunto il nome di Jugoslavia) a definire congiuntamente i propri confini. Immediatamente (12 settembre 1919), una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta Gabriele d’Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendo l’annessione all’Italia. Tra il popolo era dunque cresciuta la delusione per la ‘vittoria mutilata’ e la sfiducia verso le istituzioni era largamente aumentata, soprattutto dopo la firma del trattato di pace con la sola Austria29.

Tra alterne vicende, la questione adriatica di definizione dei confini orientali si protrasse fino al novembre del 1920. Il nuovo ministro degli esteri italiano Carlo Sforza, uomo esperto di politica estera e personalmente in contatto con i politici serbi sin dal periodo bellico, per ottenere l’auspicata normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi, aveva, frattanto, ritirato le truppe italiane d’occupazione in Albania e promesso la rinuncia italiana all’annessione della città di Fiume. Pur facendo tali concessioni a testimonianza della volontà italiana di risolvere il problema adriatico e riprendere le trattative, Carlo Sforza precisò agli interlocutori di considerare essenziale che il confine tra i due Regni fosse fissato sulle Alpi Giulie e fosse coincidente con quello naturale; considerava, altresì, essenziale l’integrazione in favore dell’Italia di alcune isole adriatiche, quali Cherso e Lussino, più altre da definire. Fece sapere, infine, di essere disposto ad affrontare qualsiasi passeggera impopolarità nel suo paese, pur di difendere gli interessi permanenti dell’Italia e della pace tra i due Regni. Da questo momento in poi l’Italia come disse lo stesso D’Annunzio fece la famosa ‘Vittoria Mutilata’ molti deputati si trovarono d’accordo con il grande poeta anche l’allora direttore dell’Avanti Benito Mussolini che alla fine ci portò al Fascismo e alle famose Leggi Razziali. Nel mondo dell’arte che cosa succedeva? Che i primi cinquant’anni del XX secolo si potrebbe prendere spunto da una frase lapidaria ma pregna di significato di Robert Hughes a proposito del Futurismo, il primo grande movimento italiano d’avanguardia, che nel nostro Paese inaugurò l’avvento del Ventesimo secolo. Scrive Hughes, con la sua acuta penna: “Probabilmente i futuristi non avrebbero amato tanto il futuro se non fossero venuti da un paese tecnologicamente arretrato come l’Italia”, e, si potrebbe completare la frase, da un paese che da soli trent’anni aveva raggiunto una stabilità nazionale e indipendente (1870), dunque da un Paese che aveva intrapreso la propria gara con la modernità quasi a ridosso del secolo XX. Con una parte del proprio territorio, quella situata a sud di Roma, in uno stato d’endemica arretratezza, governato dalle più inique leggi del latifondo, e una parte invece, quella a Nord, più vitale e intraprendente, pronta alla riconversione della propria economia rurale in un sistema produttivo industriale, l’Italia postunitaria manifesta anche attraverso l’arte e l’impegno degli artisti, la sua forte volontà di cambiamento. Ma se ciò avverrà primariamente con il Futurismo, a partire dunque dal 1909, segnali largamente positivi si avvertirono già sul finire del secolo precedente. Per comprendere il significato della poetica futurista, degli strumenti e delle azioni che i suoi protagonisti misero in campo nel loro riuscitissimo tentativo di svecchiamento dell’arte italiana, è necessario dunque fare qualche passo all’indietro nel tempo per spiegare i forti legami che unirono i futuristi alla tradizione artistica italiana della fine Ottocento e, in senso più ampio, alle novità che anche nel nostro Paese arrivarono dalle imprese più significative della pittura europea francese, impressionismo, pointillisme, simbolismo e tedesca Jugendstil e Sezession in particolare. Infatti, fu proprio nel corso del secolo diciannovesimo, oggi ricordato dalla critica come il secolo della luce degli impressionisti, ma si dovrebbe aggiungere, cosa assai più importante per l’evoluzione dell’arte italiana, anche secolo del romanticismo e del simbolismo che in Italia si crearono le condizioni per l’avvento della rivoluzione futurista. Il futurismo nacque in continuità e non in rottura con l’arte del passato, del movimento divisionista in particolare, un movimento pittorico che cronologicamente di poco lo precedette e che, a sua volta, fu pacifica continuazione delle esperienze della Scapigliatura lombarda, di autori come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni e delle forse più note ricerche dei pittori Macchiaioli toscani, capeggiati da Giovanni Fattori e dalle idee di Diego Martelli, che faceva la spola tra Francia e Italia, assolvendo al grato compito di mettere in contatto gli artisti italiani con le più avanzate ricerche sulla percezione luministica francese. Due esperienze, quella della scapigliatura e dei macchiaioli, che videro la luce nel pieno del XIX secolo, maturate indicativamente nell’arco cronologico compreso tra il 1855 e il 1870, entrambe fuoriuscite dal grembo del romanticismo e che per prime avviarono nel campo della pittura italiana la ricerca ‘del vero’, aprendo lo spazio del quadro alla rappresentazione di una nuova concezione del paesaggio, inteso nella sua ‘naturalezza’ luministica ed atmosferica, ma anche sensibili a soggetti più impegnativi dal punto di vista del loro contenuto di reportage sociale. E sarà proprio l’attitudine all’indagine socio-umanitaria, in linea con le teorie anarchico-socialiste diffuse in Italia da molta letteratura politica alla fine del XIX secolo, frammiste alla rilettura delle idee di Ruskin, proposte dal mentore del Divisionismo, il pittore Vittore Grubicy de Dragon, mercante e teorico del movimento, a diventare uno degli aspetti più fortemente distintivi del divisionismo italiano, in questo assai diverso rispetto al neoimpressionismo francese, che per sua stessa natura sembra essere stato un movimento più predisposto all’indagine analitica, ‘scientifica’ della visione che a questioni di natura interpretativa in chiave esistenziale della realtà. Ed anche quando l’uso della tecnica ‘divisa’, per filamenti sottili e ravvicinati di colore puro, di primari e complementari, tecnica ampiamente sperimentata dai pittori italiani, da Pellizza a Morbelli, da Previati a Segantini, farà sembrare più vicina l’Italia alla Francia, sarà solo un fraintendimento o un vizio di lettura critica di due fenomeni radicalmente differenti. Infatti, la ricerca del pointillisme francese fu espressione di quella natura meditativa e razionale di concepire l’arte come esercizio continuo sulle potenzialità stesse del fare pittura, dunque di riflessione per così dire ‘interna’ alla pittura stessa, sugli strumenti che le erano propri come colore, spazio, luce, materia, atmosfera, percezione. Per il divisionismo italiano, diversamente, si deve parlare di una ricerca artistica intesa anche e soprattutto come mezzo d’indagine sulla natura stessa delle cose, aperta alla rappresentazione sociale della realtà, capace di raccontare la storia del disagio quotidiano delle classi meno abbienti, dalla giovane classe operaia a quella dei lavoratori della terra, che divennero soggetti tra i più rappresentati nella pittura italiana di fine Ottocento. Una pittura in grado anche di partecipare al sentimento cosmico della Natura, che, soprattutto nell’opera di Giovanni Segantini, si materializza nelle sembianze più umili della vita quotidiana, affermando così il potere evocativo e simbolico delle ‘cose semplici’, fonte di verità e di bellezza. Lo spirito nuovo del futurismo italiano nascerà direttamente dalle ceneri ancora accese dell’esperienza divisionista. È dato innegabile, infatti, che le figure di maggior spicco del gruppo storico del Futurismo, da Boccioni a Carrà, da Balla a Severini, da Russolo a Sironi, proprio nei fondamenti scientifici della sperimentazione divisionista, nel suo linguaggio aperto alla più completa rivoluzione della tecnica, nella nuova sensibilità per la storia, trovassero la base teorica di quello spirito di modernità, che fu la fonte viva della prima avanguardia italiana del ’900. Il passaggio di testimone tra divisionismo e futurismo avvenne in una data, il 1909, in cui la parabola del divisionismo italiano era entrata già da tempo in fase calante, ma i nomi di pittori come Pellizza, Morbelli, e Segantini, con alcuni dei loro capolavori, Fiumana, Il Natale dei rimasti, La raccolta del fieno, non possono essere tralasciati quando si parli della forza rinnovatrice della pittura futurista. Il forte legame con il passato si avverte con evidenza nelle opere dipinte dai giovani Boccioni, Carrà e Severini all’esordio della loro carriera artistica, all’incirca tra il 1903 e il 1908. È, su tutti, buon esempio di questo legame il bellissimo quadro dipinto in Russia da Boccioni nel 1906, intitolato Ritratto di Sophie Popoff. Un quadro che rappresenta il passaggio tra la tradizione e il nuovo, nuovo che prende avvio dagli strumenti propri dei pittori divisionisti, in particolare l’uso della pittura “divisa” e, più in generale, dalla comune propensione per la ricerca luministica, vista come possibile fonte dinamica della rappresentazione. Un quadro assai significativo anche perché racconta dell’anima cosmopolita dei giovani artisti italiani dell’epoca, che maturarono i propri convincimenti teorici attraverso i lunghi e continui viaggi all’estero e i preziosi contatti internazionali. La storia del Ritratto di Sophie Popoff inizia nel 1906, quando Boccioni si reca a Parigi.

Il 17 aprile scrive alla madre: “Sono in una città addirittura straordinaria. Qualche cosa di mostruoso, di strano, di meraviglioso”. Ricorda le migliaia di carrozze e le centinaia di omnibus, tramvai a cavalli, elettrici a vapore, i grandi sotterranei illuminati a luce elettrica della metropolitana, i caffè brulicanti, le insegne e la gente che corre che ride, donne tutte dipinte con colori vivissimi. “Vorrei portar via un quadro di tale spettacolo” è la conclusione della sua lettera, nella quale già si avverte l’ansia di modernità del Boccioni futurista. Ma la sua pittura non è ancora al passo con le sue idee e le sue sensazioni. Più propenso ad una ricerca di solide volumetrie, rese secondo la tecnica divisionista, ma con nella memoria ancora viva l’influenza dell’opera di Gaetano Previati, tra tutti i pittori divisionisti italiani quello decisamente più simbolista, Boccioni a Parigi è fortemente attratto dalle poetiche impressioniste e post-impressioniste, con i cui principi teorici si confronterà apertamente per lungo tempo, almeno fino alla redazione del manifesto tecnico della pittura futurista del 1910. Ed è in questo clima di grande fermento e di grande curiosità che a Parigi conosce e frequenta Augusta Petrovna Popoff, una colta signora russa, sposata Berdnicoff. Invitato dai Berdnicoff, Boccioni intraprende un lungo viaggio in Russia. Lascia Parigi alla fine dell’estate del 1906 e visita le città di Mosca e San Pietroburgo. Al suo rientro passerà anche da Varsavia. Soggiorna a Tzaritzin in casa Popoff, come si apprende da una fotografia che lo ritrae insieme ai suoi ospiti sulla veranda della casa. Sulla fotografia si legge la scritta “Russia-Tzaritzin Casa Popoff 1906”. Proprio a Tzaritzin dunque egli dipinge la grande tela con il ritratto della signora Popoff, raffigurata intenta a cucire, seduta davanti ad una finestra. La luce filtra attraverso i vetri e si riverbera sulle mani della donna, illuminando il suo operoso lavoro. L’uso della tecnica divisa, congiunto alla ricerca luministica, fanno di questo quadro un dipinto di ‘passaggio’, di grande interesse per la storia personale di Boccioni, nel quale si può cogliere la complessità straordinaria della sua formazione, che si misura con quanto di meglio in Europa si era realizzato nell’ambito della pittura. La sua preparazione artistica è uno straordinario miscuglio di simbolismo, espressionismo e divisionismo, e gli accenti più forti anche in quest’opera sembrano ancora derivargli da un lato dalle cupe atmosfere delle composizioni di Munch, conosciute attraverso Previati, e dall’altro dalle teorie sulle forze dinamiche dell’azione e della visione, che aveva visto praticare a Parigi da Seurat, ma di cui sicuramente Carrà per primo gli aveva parlato. Il primo contatto tra artisti italiani e ambiente russo dell’epoca contemporanea avviene dunque, quasi silenziosamente, attraverso il pennello del più geniale pittore italiano del Futurismo, con alcuni anni d’anticipo rispetto al viaggio di Filippo Tommaso Marinetti. Se è vero che il tratto distintivo del divisionismo rispetto alle coeve poetiche europee, francesi in particolare, va ricercato in una concezione della pittura marcatamente socio umanitaria e spiritualistica, fu altrettanto vero il fatto che il futurismo, erede naturale delle “nuove idee” di questo movimento, seppe portare a legittima conclusione il processo di cambiamento avviato in seno al divisionismo, con un intervento radicale e definitivo per quanto riguarda sia la questione fondamentale della rappresentazione del mondo attraverso il medium della pittura “divisa”, sia quella altrettanto importante che atteneva al ruolo dell’artista nella società italiana del primo ’900, sia, infine, a quella relativa al senso e alla funzione stessa dell’arte in una società passatista e conservatrice come quella in cui maturò ed esplose, come uno dei primi fenomeni di massa, l’avanguardia futurista. Il futurismo fu l’invenzione di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), che raccolse e valorizzò istanze di rinnovamento già in atto nel gruppo dei giovani artisti italiani, milanesi, romani e fiorentini in particolare. Poeta e letterato geniale nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, vissuto a lungo tra Parigi e Milano, città dove non a caso erano sorte le prime industrie e dove il progresso era apparso come un risultato facile e raggiungibile, Marinetti visse e disseminò il “credo” futurista in tutta Europa, condividendo con moltissimi artisti, assetati di novità e di voglia di cambiamento, le idee rivoluzionarie contenute nei vari manifesti teorici, sottoscritti a partire dal 1910 dai protagonisti principali del movimento, del gruppo così detto storico, quello della ‘prima ora’, Boccioni, Russolo, Carrà, Severini, Balla e, successivamente, anche da Antonio Sant’Elia, Fortunato Depero, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici e molti altri ancora come i giovanissimi Tullio Crali, Renato Bertelli e Ernesto Thayath, che al futurismo aderiranno nella stagione estrema degli anni Trenta. Dotato di rara intelligenza, sposata ad una spericolata e indomita voglia di vivere e ad un egocentrismo difficile da imitare, Marinetti fu senz’ombra di dubbio l’artefice di uno dei più interessanti casi di partecipazione di massa ad un progetto culturale, il futurismo appunto, generato dalla sua mente febbricitante in una serata parigina, il 20 febbraio del 1909, e promulgato come un editto dalle pagine del quotidiano francese “Le Figaro”. Aderirono da subito tutti i pittori italiani della giovane generazione, se si esclude il caso di Balla, che all’epoca della sua adesione al futurismo aveva quasi quarant’anni ed era già stato maestro di Boccioni e Severini, la sua forte personalità lo portò ad imboccare la strada della sperimentazione divisionista e che proprio nella poetica sovversiva del futurismo trovò libero campo d’azione per la propria voglia, anche utopistica, di cambiamento dell’arte e della società tutta. A lui accorse anche gran parte dell’opinione pubblica italiana, che lui stesso seppe coinvolgere grazie ad un’attività indefessa di “marketing culturale”, che trovò risposta alternativamente nel disprezzo dei passatisti e nell’orgoglio di chi nel futurismo vide il riscatto dell’arte italiana sulla egemonia francese del secolo appena passato. Marinetti, per sua stessa affermazione l’uomo più moderno d’Italia, era nato da una cultura che faceva nello stesso tempo capo al dandismo decadente del poeta Gabriele D’Annunzio e all’amore adorante per la tecnologia, vera medicina del mondo. Marinetti, soprannominatosi “caffeina d’Europa”, intraprese un’attività frenetica di pubbliche relazioni con i gruppi dell’avanguardia internazionale interessati alle teorie del futurismo. Oltre a Parigi, dove partecipò a confronti incandescenti con letterati e poeti, Marinetti, si recò in Russia, dove soggiornò dal 26 gennaio al 15 febbraio del 1914, invitato da Genrich Tasteven, delegato russo della Società delle grandi conferenze di Parigi, per stringere rapporti amichevoli e fare del proselitismo a favore delle teorie futuriste italiane. In Russia, cosa ben nota, il futurismo aveva avuto già da alcuni anni una buona e del tutto autonoma affermazione grazie all’opera di alcuni gruppi attivi nelle grandi città, capeggiati da artisti come Sersevenic a Mosca, Severjanin, Ignat’ev a Pietroburgo. L’arrivo di Marinetti, fu per alcuni entusiasmante, per altri, come per il giovane Larionov, fu degno di un “tiro di uova marce”. I cubo-futuristi Majakovskij, Burljuk e Kamenskij molto diplomaticamente scelsero di rimanere lontani da Mosca, impegnati in una tournée già intrapresa. A Pietroburgo, pur in serate conviviali, non mancarono, e furono anzi molto vivaci, gli scontri sul valore della poesia futurista italiana declamata da Marinetti, considerata dai russi assai poco convincente rispetto alla loro più avanzata sperimentazione in campo poetico e letterario. Questo viaggio favorì ciò nonostante la nascita di nuove relazioni internazionali e di nuovi rapporti tra gli artisti. Primo importante risultato del viaggio in Russia di Marinetti, fu infatti la partecipazione di Archipenko, Kulbin, Exter e Rozanova all’Esposizione Libera Futurista Internazionale organizzata nell’aprile maggio del 1914 a Roma, nella Galleria futurista di Giuseppe Sprovieri. Con i russi esponevano, tra gli altri, Fortunato Depero, lo stesso Marinetti, Giorgio Morandi pittore che partecipò per un tempo brevissimo al futurismo, Enrico Prampolini, Mario Sironi. Questo primo incontro aprì la strada a nuovi importanti rapporti e scambi tra i futuristi italiani e l’avanguardia russa ed in particolare tra Alexandra Exter ed Ardengo Soffici, la cui opera rappresenterà l’esempio più interessante di contiguità culturale tra i due futurismi. Altrettanto importanti per l’affermazione delle idee futuriste furono i contatti avuti da Marinetti con la più vicina Svizzera, forieri d’importanti novità per le teorie del costituendo gruppo Dada, che nel 1916 accolse e rielaborò molti spunti della poetica futurista italiana, dalla poesia sintetica al verso libero, dalla sintassi all’uso ‘politico’ della polemica. Il grande nemico di Marinetti, come di tutti i pittori aderenti al futurismo, fu il passato, la storia, la memoria. Sotto la scure dei molti manifesti teorici caddero via via veri e propri oggetti ‘di culto’ della tradizione passata. Condannò l’arte del Rinascimento tanto quanto il tango, la musica di Wagner e gli spaghetti così come la Venezia romantica e nostalgica e l’amore per il chiaro di luna. Il nome dato al movimento fu anch’esso una sua invenzione: un nome che felicemente si adattava ad indicare, pur genericamente ma per questo ancora più efficacemente, quella fede assoluta per le nuove tecnologie, per la macchina in particolare, che in tutta la concezione estetica futurista risulterà come il vero motore del cambiamento, la leva per l’avvento della rivoluzione sociale e culturale nell’intera Europa cosa che di fatto avvenne, ma non nel senso sperato dai futuristi. I pittori futuristi della prima ora, quelli firmatari del Manifesto del 1910 e del successivo manifesto tecnico, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla furono animati, in violenta polemica con il passatismo culturale borghese, da una concezione vitalistica, che faceva capo alla filosofia di Bergson ma anche a quella di Nietzsche, in un’alternanza di slanci vitali verso il futuro e di frenate nell’eroismo ancora romantico del superuomo, che alla fine decretò la morte (solo apparente) dell’ideale classico, delle accademie, delle scuole di nudo e di quant’altro aveva prodotto la misura di Apollo nel corso dei secoli precedenti. Si rinnovarono i temi e i soggetti dei quadri, che diventarono il teatro ideale per la rappresentazione dei nuovi miti contemporanei: la città industriale innanzitutto, con la sua folla brulicante, i cantieri rumoreggianti e i tram in continuo movimento, con i suoni, le luci, i rumori e la velocità, che bene rappresentava il ritmo frenetico della vita moderna, della città che sale, dello sferragliare dei tram lungo i binari incandescenti, delle luci di strada e del movimento del chiaro di luna, del ticchettio dei ballerini e persino il profumo degli stati d’animo, che tanto audacemente essi vollero raffigurare. Per dipingere questi nuovi temi, i futuristi presero in prestito dal divisionismo la tecnica della scomposizione del colore, tecnica che aveva il vantaggio di cogliere, grazie alla velocità dei tocchi, il senso dinamico della vita in movimento, la frenesia e il sovrapporsi delle forme e delle luci nella nuova percezione e visione del mondo moderno. L’uso della tecnica divisionista, definita “complementarismo congenito” per la presenza appunto dei colori complementari, fu per tutti i pittori futuristi un valore espressivo irrinunciabile, che permetteva di innalzare “alle più radiose visioni di luce”, anche le più cupe ombre del quadro. E il pubblico? Secondo quanto scrivono gli stessi futuristi nei cataloghi delle prime esposizioni (1912) “il pubblico deve convincersi che per comprendere delle sensazioni estetiche alle quali non è abituato, deve dimenticare completamente la propria cultura intellettuale, non per impadronirsi dell’opera d’arte, ma per abbandonarsi ad essa”: una dichiarazione d’intenti davvero all’avanguardia, che quel tempo produsse un radicale cambiamento nel concetto apparentemente immutabile del ‘vedere l’arte’. Agli spettatori si presenta infatti la possibilità di fare grazie all’arte un’esperienza del tutto nuova, che li pone, come scrisse Boccioni, al centro del quadro, ovvero al centro di una rappresentazione nella quale, grazie alla simultaneità spazio-temporale, è possibile cogliere la sintesi di ciò che si ricorda e di ciò che si vede, vivere lo stato d’animo psicologico, che si coglie nel continuo di scene esterne ed emozioni interne, ed infine percepire la nuova realtà del tempo moderno, che si mostra non più come un insieme ordinato e sequenziale di oggetti, ma piuttosto come un assemblaggio frammentario di forme, di luci e di colori, governato dal dinamismo delle linee-forza, moltiplicatrici straordinarie delle ombre e delle luci, dei pieni e dei vuoti, delle pause e dei rumori, che caratterizzano appunto la visione futurista del mondo. Boccioni, il più grande interprete del futurismo, arruolatosi nel 1915, morì tragicamente cadendo da cavallo il 16 agosto del 1916. Con la sua morte sembrò che il futurismo fosse giunto alla stazione finale. Diversamente, oggi sappiamo che già nel corso della prima stagione futurista, quella che va dal 1909 alla metà del 1916, si preparò un’agguerrita successione, a conferma del grido di Marinetti “I vivi, i vivi soltanto sono sacri. Il Futurismo malgrado l’immensa spaventosa scomparsa del povero Boccioni e di tanti altri è più vivo che mai!”. Poco più di sei anni separavano il tragico 16 agosto del 1916, segnato dal lutto della morte accidentale di Boccioni, dalla redazione del Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910) e dal più corposo La pittura futurista, manifesto tecnico (11 aprile 1910), scritti che contribuirono a dare una organica definizione a quel getto continuo di pensieri, idee, proponimenti, abbozzi di teoria che era stato felicemente cantato da Marinetti nella fatidica notte dell’11 febbraio 1909 e poi surriscaldato fino ad alte temperature nelle discussioni degli attori principali di questo primo atto della storia del futurismo, di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini in particolare. In quei sei anni molti però erano stati i cambiamenti, le virate e perfino le abiure di artisti, che associati al movimento avevano poi intrapreso strade diverse. Pensiamo per esempio a Romolo Romani e Aroldo Bonzagni, futuristi della prima ora, tra i firmatari del manifesto dell’11 febbraio del ’10, subito scomparsi dalla vita attiva del movimento, o alla brevissima parentesi futurista dell’allora poco più che ventenne Giorgio Morandi, del cui sperimentare conosciamo oggi solo pochissime e rare testimonianze, o, pensiamo ancora alle “parole in libertà” pubblicate nel 1914 su “Lacerba” con lo pseudonimo Massimo Campigli dal berlinese Max Hielenfeld, che nel 1915 veniva incluso da Papini e Soffici tra i seguaci del futurismo, ma che, dopo il lungo periodo di guerra e la prigionia, nel 1919, alla ripresa del suo lavoro di pittore già rivolge altrove la sua ricerca. Alla metà del secondo decennio del XX secolo in tutta Europa, quasi in coincidenza cronologica con alcuni dei più trasgressivi movimenti dell’avanguardia, e per mano di artisti che di questi movimenti erano stati parte attiva, dal cubismo al dadaismo, dall’espressionismo al futurismo, soffiò il vento di un nuovo classicismo, annunciato da opere diventate simbolo di quell’inversione di linguaggio, o, meglio sarebbe dire, di quella conversione “al concreto, al semplice, al definitivo” di cui parlerà alcuni anni più tardi Margherita Sarfatti, la teorica del Novecento italiano. Partendo proprio dalla figura ella era una grande letterata è fu la prima donna in Europa ad occuparsi di critica d’arte, dimostrando versatilità e competenza. Tuttavia oggi viene comunemente ricordata soprattutto perché, pur provenendo da una famiglia ebrea, ella 1910 divenne l’amante di Benito Mussolini pianificandone la politica culturale fino alla svolta delle leggi razziali, quando per lei divenne opportuno espatriare. In realtà, per quanto contraddittoria, la vicenda umana e professionale della Sarfatti non merita le facili riduzioni. Come altri personaggi del suo tempo, la Margherita Grassini sembra attratta in modo ricorrente dai percorsi contrastati e fiammeggianti di passioni, sotto alcuni aspetti dimostra il suo impegno contro la discriminazione sessista, scrivendo e finanziando dei periodici femministi, sotto altri aspetti evidenzia una tendenza a misurarsi soprattutto con il modello di successo maschile, rappresentato prima dal padre, poi dal marito, da Mussolini e persino da alcuni artisti con cui in tempi diversi instaura una relazione sentimentale. Margherita si muove spesso su un crinale di improbabili equilibri che nel periodo di impegno socialista scrive sull’Avanti, e si batte per l’uguaglianza, tuttavia non riesce a rinunciare al lusso e ai privilegi di casta, tanto che di frequente viene criticata dalla sua stessa cerchia. Scrive sul periodico ‘Unione femminile’ e collabora fino al 1915 alla pubblicazione ‘La difesa delle donne lavoratrici’, frequenta la Kuliscioff, ma il suo emancipazionismo naufraga di fronte al mito dell’uomo-guida, dell’amour fou a cui immolarsi. Margherita si forma sugli scritti di John Ruskin, legge Marx, Turati e Anna Kuliscioff. Nel 1898 sposa giovanissima, a dispetto della famiglia, un avvocato socialista da cui avrà tre figli, lui che aveva tredici anni più di lei, imposta il matrimonio in modo libertario. Si impantana per quasi vent’anni nella relazione con Mussolini, anche lui sposato ma geloso al pari di lei. Animata da uno spiritualismo tormentato e segnato tra l’altro dal suicidio di una sorella Margherita esita tra la fede ebraica e il cattolicesimo, a cui si converte nel 1928. La Margherita Grassini Sarfatti trasforma anche la propria visione politica, inizialmente affine al socialismo, in un convinto nazionalismo e progressivamente si coinvolge nell’avventura fascista. Appoggia il regime, ma discute con Mussolini a proposito dei gerarchi in ascesa, che lei considera volgari e pericolosi. Il rapporto con lui attraversa alti e bassi, finché si deteriora ed entra in piena crisi la Sarfatti fugge quando vengono approvate le leggi razziali e ritorna solo alla fine del conflitto mondiale, per trascorrere gli ultimi anni lontana dalla ribalta a cui era abituata. Gli scritti e le testimonianze concordano sulla poliedrica intelligenza di Margherita e sulla vastità della sua cultura, la Grassini cresce in una famiglia veneziana assai agiata e dispone di maestri eminenti, sensibile intenditrice d’arte, condivide con il marito Cesare il desiderio di una vita sociale più vivace perciò nel 1902 si trasferisce con lui a Milano, dove dà vita ad un salotto frequentato dai più promettenti artisti del momento e guida iniziative culturali importanti. Conosce quattro lingue e incontra personalità di fama dal futuro pontefice Pio X, alla regina Elena di Savoia, a Guglielmo Marconi, a Joséphine Baker e si circonda di numerosi artisti e letterati tra cui Ada Negri, Fogazzaro, Marinetti, Shaw, Cocteau, D’Annunzio, Prezzolini, Palazzeschi, Panzini, scultori e pittori del calibro di : Adolfo Wildt, Arturo Martini,Sironi, Marussig, Carrà, Russolo, Boccioni e degli architetti Sant'Elia e Terragni. L’incontro anche sentimentale con il giovane Mussolini avviene nel 1912 su posizioni socialiste, da cui entrambi si allontanano in quanto interventisti per fondare Il Popolo d'Italia, ma la realtà della Prima Guerra Mondiale è durissima, nel 1918 muoiono al fronte anche ragazzi come il figlio di Margherita in questa fase gli ideali di sacrificio e dedizione patriottica che avevano animato il figlio non vengono messi in discussione dalla Grassini, ma anzi diventano un riferimento consolatorio per lei, che in seguito pubblicherà un volume in versi dal titolo ‘ I vivi e l'ombra’, dedicato al figlio. Morto il marito nel 1924 Margherita accompagna in modo sempre più scoperto l’affermazione di Mussolini e del partito esperta organizzatrice di eventi, collabora al piano della marcia su Roma, agli scritti teorici del fascismo e in pieno regime assume anche incarichi istituzionali. Probabilmente la Grassini, forte della stima di cui gode già da tempo a livello internazionale per i suoi scritti, è convinta di poter guidare le scelte politico-culturali del regime e sottovaluta la progressione del clima antisemita.

Infatti, sulla questione ebraica Mussolini cambia nel tempo la sua posizione, passando da una iniziale tolleranza all’assunzione piena del modello nazista. Anche rispetto alla donna che lo sostiene egli muta atteggiamento, pur apprezzandone la bellezza la definisce avara e sordida, secondo uno stereotipo collaudato dalla propaganda fascista nel descrivere gli ebrei. Eppure il duce ha ricevuto da Margherita grande sostegno economico oltre che morale. Anche il miglior biglietto di presentazione ai governi stranieri gli giunge dalla Sarfatti che nel 1926 la scrittrice pubblica ‘Dux’, la biografia mussoliniana che adula il capo e lo descrive vitale, spregiudicato, sensuale e aggressivo, energico portatore di ciò che viene indicato come spirito italico, con la sua consueta padronanza della scena, Margherita presenta il libro negli USA assicurandogli un enorme successo. Finché Mussolini è impegnato nella prima organizzazione dello Stato fascista, la Grassini ha notevole spazio probabilmente sono sue alcune parole chiave della propaganda fascista, come fascio e duce, è sua la mistica della romanità resuscitata dal fascismo, è lei a rendere credibile all’estero l’immagine del duce. Il desiderio mussoliniano di grandezza si arma della competenza di Margherita, che intende correggere il cattivo gusto dell’estetica fascista e assumere il ruolo di musa e mediatrice. Del resto Margherita è un’autorità nel campo dell’arte, e da sempre ama valorizzare i talenti orchestrandone la riuscita, incoraggia e protegge i giovani artisti con Umberto Boccioni ed Emilio Notte ha avuto anche brevi relazioni, persegue il disegno di una nuova società in cui l’arte sia sovrana. La sua visione mescola esaltazione spirituale e residui risorgimentali, spirito pedagogico e individualismo in questo quadro gli artisti sono determinanti per la costruzione del futuro. Tra le due guerre l’arte europea, accantonando l’impeto destabilizzante delle Avanguardie, è pronta a rivalutare il realismo classico, in Italia Margherita Grassini Sarfatti auspica appunto un ritorno al classicismo. Con entusiasmo dà corpo al suo progetto, che intende coniugare la modernità con la monumentalità del Rinascimento. Infatti, nel 1922 fonda il gruppo noto come Novecento, al quale inizialmente aderiscono sette pittori A. Funi, P. Marussig, L. Dudreville, E. Malerba, M. Sironi, U. Oppi e A. Bucci; alcuni di loro se ne allontanano presto per timore di essere strumentalizzati, ma il gruppo si ricostituisce nel 1926 con il nome di Novecento Italiano e raccoglie, data la protezione assicurata dal regime, un numero assai alto di adesioni. Nonostante le pressioni di chi vuole ridurre la cultura a semplice strumento di regime, per qualche tempo la Sarfatti riesce a mantenere questa iniziativa lontana dai toni più volgarmente propagandistici, tenendo fede alle motivazioni artistico culturali che la animano. Negli anni successivi la Grassini si interessa all’architettura razionalista, privilegiando progettisti volti al contemporaneo come Terragni, Figini, Michelucci e Pollini. Proprio al giovanissimo Terragni, di cui capisce e protegge il talento, Margherita commissiona il monumento funebre per il figlio Roberto, ignorando altri professionisti più in vista, ma non ugualmente radicali. Inoltre promuove la valorizzazione delle arti applicate con il fine di coniugare modernità e tradizione, rinnova la Biennale di Monza e istituisce la Triennale di Milano, facendovi costruire il Palazzo dell'Arte. Sebbene aspiri a raccogliere in Novecento l’intera ultima produzione artistica italiana, Margherita è comunque aperta a tutti i fenomeni emergenti e interessata alle differenze estetiche ma nel frattempo il Ministero della cultura si trasforma in un rissoso centro di potere, da cui le arrivano attacchi sempre più numerosi. Mentre all’estero le finalità artistiche di Novecento riscuotono grande successo, in Italia alla Sarfatti viene meno buona parte degli appoggi. L’emarginazione di questa lucida intellettuale coincide in architettura con l’adozione da parte del regime di un freddo e retorico stile littorio, ben lontano dalla sobrietà formale del razionalismo. Il tentativo grassiniano di dare al fascismo una piattaforma ideale ormai è diventato ingombrante, Margherita non concorda con le imprese coloniali, non approva l’intensificarsi dei rapporti con la Germania nazista, si scontra con l’ostilità di gerarchi avidi e senza scrupoli come Farinacci e Starace e nel contempo percepisce la perdita di interesse nei suoi confronti da parte di Mussolini. Nel 1938, di fronte al clima così mutato, la Sarfatti fugge all’estero; la sua famiglia invece vive in pieno le vicende del totalitarismo antisemita, tanto che una sorella Nella Grassini Errera rimarrà vittima del lager ad Auschwitz. Margherita soggiorna prima a Parigi dove frequenta tra gli altri Jean Cocteau, Colette e Alma Mahler e infine si stabilisce in Sud America, dato che il suo desiderio di essere accolta negli USA non ha trovato risposta. Ritorna in Italia alla fine della guerra e nel 1955 riesce a far stampare una autobiografia dal titolo ‘Acqua Passata’, dove il rapporto con Mussolini è quasi ignorato. Resta invece inedito a lungo il primo manoscritto delle sue memorie intitolato ‘Mea culpa’, pubblicato solo post mortem con il titolo My fault. Negli ultimi anni Margherita si isola nella sua villa di Cavallasca, vicino a Como, dove morirà nel 1961. L’interesse per l’arte oppure per le ‘arti’ nasce precocemente e si esprime compiutamente in occasione dell’Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali moderne tenuta a Parigi nel 1925 e delle Biennali di Monza e poi le Triennali di Milano, occasioni cui ella partecipa direttamente. I suoi interventi in questi ambiti sono stati oggetto di studi specifici ad opera di storici delle rispettive discipline pur tuttavia, ho deciso di riportarle in questo saggio per meglio capire la sua figura di Critico d’Arte e di donna ed i vari movimenti artistici che hanno caratterizzato il primo novecento. Come non ricordare il “ritorno a Ingres“ di Picasso, con la serie dei piccoli disegni naturalistici e dei ritratti di Ambroise Vollard e di Max Jacob, dipinti dal pittore spagnolo verso il 1915, testimonianza di uno dei “ritorni” più celebri della storia dell’arte del ’900, o quello altrettanto significativo del pittore italiano Gino Severini, che nel 1916 dipinse “in una forma semplice che rammenta i nostri primitivi toscani” il Ritratto di Jeanne e La maternità? Ma quale fu la pittura che deviò il suo corso nel nuovo classico del ’900? Secondo Franz Roh, il teorico tedesco del realismo magico, tutta la migliore pittura europea, dal cubismo al futurismo, all’espressionismo, fu interessata da questo “ritorno all’ordine” e la maggior parte degli autori che avevano propugnato le tesi dell’avanguardia si ritrovarono verso la fine del secondo decennio del secolo a ripassare la lezione degli antichi maestri. Nell’elenco delle tendenze realiste comparse tra la fine dei secondi anni Dieci e i primi anni Venti, Roh cita il naturalismo di Derain, il purismo di Ozenfant e Janneret, il classicismo di Valori Plastici, la scuola di Rousseau, il verismo di Dix e Grosz, il nuovo linearismo di Beckmann e Hofer. All’origine di questa sorta neo figurativa, che attribuiva alla pittura una funzione ermeneutica della realtà profonda attraverso lo studio delle apparenze, stava l’idea del ritorno inteso non come reazione all’avanguardia, bensì come richiamo dell’antico e del classico alla contemporaneità. Scriveva nel 1988 a questo proposito Jean Clair, in un importante saggio dedicato al realismo magico, che il ritorno della pittura a schemi saldamente legati alla tradizione antica era da considerare “insito nella vita stessa delle forme”: “Non il ritorno automatico, passivo e nostalgico ai valori sicuri del passato, bensì l’espressione ansiosa, dopo il decennio frenetico che la storia dell’arte aveva attraversato fra il 1905 e il 1915, del bisogno di fondare l’arte del dipingere su basi più solide e più stabili”. Che non si fosse trattato di un “ritorno” inteso come restaurazione di uno stile antico, contrapposto al linguaggio delle avanguardie del primo Novecento, lo dimostra l’ampio dibattito critico, vivacissimo soprattutto in Italia e in Germania, attorno alla definizione della parola classico, da non intendersi, come spiegava il letterato italiano Massimo Bontempelli, come una determinazione di tempo, bensì come una categoria spirituale: “classica – scriveva infatti Bontempelli, profeta della ‘fine dell’avanguardia’ – è ogni opera d’arte che riesca ad uscire dal proprio e da ogni tempo”. I critici letterari che si occupano della produzione letteraria di Bontempelli, adoperano di solito il termine “realismo magico” per definire i tratti tipici del suo stile letterario. Comunque, occorre rendersi conto del fatto che nelle opere di Bontempelli possiamo individuare sia elementi tipici proprio per il realismo magico sia elementi che rivelano l’ispirazione da altre correnti letterarie. La produzione bontempelliana quindi non può essere definita nei limiti di un solito filone letterario, ma si tratta piuttosto di un risultato dell’influenza di vari movimenti letterari, artistici e filosofici del tempo. Siccome la presente tesi si occupa dei racconti di Bontempelli scritti negli anni ‘20 e ‘30, nei quali l’influsso del realismo magico sulla produzione dello scrittore prevale sulle altre tendenze, è opportuno soffermarsi proprio su questo argomento. Lo scopo di questo capitolo è perciò quello di provvedere uno sfondo teoretico necessario per poter affrontare l’opera letteraria dello scrittore. Si propone di definire il termine realismo magico e di individuare i tratti tipici di questo filone letterario, confrontandolo con altri filoni letterari che manifestano tratti simili. Inoltre, ci si concentra sulla concezione del realismo magico di Bontempelli, delineando i suoi concetti più significativi. Esaminando l’espressione “realismo magico”, si può notare che si tratta di una sorta di ossimoro che unisce due elementi semanticamente in contrasto - da una parte il sostantivo “realismo” che si riferisce a situazioni e ambienti reali, e dall’altra l’aggettivo “magico” che viene associato con il mondo fantastico e immaginario. Tra i tratti tipici del realismo letterario appartengono l’ambientazione precisa, i protagonisti comuni e la rappresentazione fedele della vita dei personaggi. Gli autori quindi cercano di raffigurare la realtà quotidiana, creando nei lettori la sensazione che raccontino fatti veri. Dal punto di vista della forma, la narrativa tende a seguire l’ordine degli avvenimenti senza sperimentazioni stilistiche o formali, facendo continuamente il riferimento al reale. Il termine “magico”, invece, viene spesso usato per riferirsi a eventi straordinari, soprannaturali e inverificabili. Così, nella narrazione si trovano temi e situazioni inconsueti che si intrecciano e si oppongono con gli schemi tradizionali usati nel realismo. Il termine “realismo magico” è quindi una sintesi di due termini opposti che costituiscono un legame tra il mondo reale e fantastico. In altre parole, si parla del realismo magico quando gli elementi magici appaiono in un contesto realistico. Il termine “realismo magico” è per la prima volta utilizzato nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per descrivere lo stile particolare del gruppo dei pittori tedeschi appartenenti al movimento artistico “Nuova Oggettività”. Gli artisti appartenenti a questo movimento cercano di esprimere l’orrore e il caos della guerra, ma i loro dipinti sono privi di ogni sentimentalità. Per di più, nella loro concezione della realtà sono notevolmente influenzati dal pittore italiano Giorgio De Chirico, esponente principale della corrente artistica che si chiama “La Pittura metafisica”. Tra i caratteri fondamentali della produzione di De Chirico appartengono per esempio le prospettive multiple, l’assenza dei personaggi umani, le scene che si svolgono nei posti isolati e l’atmosfera inquietante, tutto ciò suscita la sensazione di solitudine e straniamento. Dunque, i dipinti metafisici raffigurano oggetti ed eventi che fanno parte della realtà quotidiana, ma li presentano da prospettive diverse, creando una sensazione del mistero e della meraviglia. A differenza del realismo magico letterario, nella pittura non troviamo gli elementi magici o fantastici inquadrati esplicitamente nella rappresentazione della realtà, ma si tratta piuttosto di una visione del mondo attonita, come se la realtà fosse vista attraverso un obiettivo misterioso. Successivamente, il realismo magico è associato con il realismo insolito degli artisti come Ivan Albright, Paul Cadmus e George Tooker che fanno parte del gruppo di pittori americani attivi negli anni ‘40 e ’50. Quanti dipinti si potrebbero considerare delle vere e proprie opere che fanno parte di quel rinnovamento che, in opposizione ai linguaggi delle avanguardie, allo scorcio del secondo decennio del secolo tornarono a parlare l’antica lingua dei grandi maestri primitivi italiani, di Giotto, di Piero della Francesca e di Paolo Uccello, alcuni addirittura ritrovando nuove suggestioni nel mito delle culture arcaiche e primitive, così come magistralmente rilette da Picasso il volto più dionisiaco dell’arte contemporanea, in alcuni tra i suoi più incredibili dipinti degli anni Dieci, primo fra tutti Les demoiselles d’Avignon? Un sintetismo primitivo, che aveva appassionato anche il giovane Amedeo Modigliani, quando giunse a Parigi nel 1906, e aveva messo alla prova, suppergiù negli stessi anni, un po’ tutta l’avanguardia, da Apollinaire a Marie Laurencin, da Delaunay a Vlaminck, da Brancusi a Max Jacob, da Picasso a Max Weber, che nel culto delle antiche civiltà nere, ma soprattutto nell’opera incorrotta e profondamente ingenua del Doganiere Rousseau, colsero l’esempio più alto del realizzarsi, nell’attualità della storia contemporanea, di una nuova, perfetta congiunzione di forma, verità e simbolo. E proprio a Rousseau va dato merito se rimase accesa nell’arte europea del XX secolo una fiamma di naïvetè arcaica ed innocente, capace di alimentare il cuore di molti artisti moderni, dai già citati Picasso, Derain, Max Weber, all’italiano Carlo Carrà, che per questa via, spenta la passione futurista e non ancora domata quella metafisica, ritroverà, verso il 1915, i caratteri distintivi di una “pittura dell’origine” sua propria, animata da suggestioni e motivi che richiameranno a nuova vita non solo la tradizione arcaica dei pittori primitivi del Trecento e Quattrocento ma anche la forza perduta del simbolo. In Carlo Carrà il ricordo della figurazione primitiva di Rousseau diventerà l’allegoria del Fanciullo prodigio, un dipinto del 1915, in cui si è voluto acutamente ravvisare una sorta di ritratto dell’Artista, di colui che attraverso la sofferenza dell’età adulta ha ritrovato la fanciullezza e nella fanciullezza ha riabbracciato il prodigio della Meraviglia, lo sguardo incontaminato della purezza. Nello spazio senza tempo, dove viaggia La carrozzella, dipinta da Carrà nel 1916 o nel primitivismo scarnificato ed enigmatico di I romantici, sempre del 1916, si compie la brevissima ma intensa stagione del primitivismo italiano, che volgerà da queste premesse, verso l’affermazione di quella che il grande critico e storico dell’arte tedesca Wilhelm Worringer, proprio riferendosi all’opera di Carrà, nel 1921 definì “la misura classica dell’arte europea”. Se per la maggior parte degli artisti europei il ritorno alla figurazione coincise con un atto di rinuncia dei postulati teorici e formali delle dottrine dell’avanguardia, ci fu anche chi, come il grande pittore italiano di origine greca Giorgio de Chirico, sulla strada del classico aveva da sempre indirizzato la propria ricerca. Il pittore greco dal volto d’Apollo, padre della Metafisica, aveva fatto la sua scelta fin dai tempi della giovinezza, quando, negli anni di Monaco, aveva adottato come suoi maestri ideali Bòcklin e Klinger, e aveva trovato conferma alla sua idea di moderno nella scultura antica e nelle regole dell’arte italiana del Rinascimento. Fedele ai propri convincimenti, che gli fecero abbracciare da subito la strada di una figurazione classica, de Chirico, fin dall’inizio attese alla vita segreta delle cose e tentò di rappresentarla nelle sue prime composizioni metafisiche, all’incirca a partire dal 1910, sebbene l’anno ufficiale di nascita della Metafisica va ricondotto dal 1917, quando nella città di Ferrara, lì giunti per diverse ragioni, si incontrarono e ne condivisero le formulazioni di poetica Carlo Carrà, il più giovane Filippo de Pisis, Alberto Savinio, fratello di de Chirico e lo stesso de Chirico, che alla metafisica aveva da tempo dedicato il suo cuore e la mente. Come dice lo stesso De Chirico dalle pagine di “Valori Plastici”: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile, ci vorrà tempo e fatica”, tuonava Giorgio de Chirico alla fine del 1919 sulle pagine di “Valori Plastici”, ad un anno dalla prima uscita della rivista diretta da Mario Broglio. Quel processo di “restaurazione” dei valori formali che si era avviato nelle arti figurative in tutta Europa nell’immediato primo dopoguerra trovò espressione in Italia in questa rivista, luogo di convergenza e di confronto delle forze più vive dell’arte e della critica di quegli anni. Sin dal primo numero ospitò sulle sue pagine i nomi più diversi di critici e artisti, provenienti da situazioni culturali talvolta contrastanti. Comune era però l’asserzione della crisi della modernità, così come era stata espressa nell’esperienza dell’avanguardia e la ricerca di uno stile e di un linguaggio che si esprimessero nell’ambito di regole formali eterne. Ciò si traduceva nella volontà di riaffermare la concezione dell’arte come esperienza della tradizione, specificamente quella italiana, e di propugnare come alternativa un rinnovato classicismo, talvolta invocato come “italianismo artistico”. Questo clima intellettuale tipicamente italiano e l’intento di definire “il carattere dell’arte” distinguono il “clima di Valori Plastici” dalla generale tendenza del ritorno all’ordine che è diffusa negli stessi anni in tutta Europa. È datato aprile 1918 il frammento poetico Zeusi l’esploratore che Giorgio de Chirico invia a Broglio da Ferrara perché appaia sul primo fascicolo di “Valori Plastici”, la cui uscita verrà invece posticipata, per vari motivi, al mese di novembre. Il primo numero di “Valori Plastici” apre all’insegna della Metafisica, recando sul frontespizio l’Ovale delle apparizioni di Carrà del 1918. Si accrediterà così l’immagine di rivista ufficiale della Metafisica, presentandosi principalmente come tribuna di espressione di de Chirico e Savinio, anche se nella mente di Broglio non c’era un preciso programma, né l’intenzione di lanciare manifesti, quanto piuttosto quella di provocare un confronto all’interno di una situazione comune. Nello stesso periodo si pubblicava il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà. Tra il 1918 e il 1919 si parlava perciò ancora di Metafisica, finalmente chiarificata dai primi scritti teorici pubblicati dagli artisti stessi, proprio mentre evolvevano verso nuovi approdi. Et quid amabo nisi quod aenigma est? era stato infatti il titolo da lui dato molti anni prima ad un famosissimo autoritratto, opera nella quale il suo volto appare segnato da una profonda inquietudine, quasi che la capacità di vedere oltre le apparenze, gli rivelasse tutte le pene della solitudine e della malinconia, proprie dell’uomo contemporaneo. Ogni Piazza d’Italia del resto sarà, nello stesso tempo, luce accecante e ombre inquietanti, visibile e invisibile che si rincorrono, presente e passato che si congiungono. Se per i futuristi la relazione tra lo spazio e gli oggetti fu azione allo stato puro, per i pittori metafisici divenne luogo della rivelazione magica della vita nascosta delle cose: gli oggetti, pur rimanendo riconoscibili, persero ogni legame di contiguità e di logica concatenazione con lo spazio che li circondava o con gli altri oggetti disposti nello stesso spazio. Ne furono prove superbe le rarissime nature morte metafisiche di Giorgio Morandi che alla metafisica giunse più tardi, accompagnato oltre che dalla lezione di Carrà, da un ripensamento in guisa di una assoluta rarefazione delle cose nello spazio della lezione di Cézanne e la serie più nota delle Piazze d’Italia di de Chirico appunto, come la celebre Matinée angoissante, dipinta nel 1912, che ci rivela lo spettro dell’enigma in una Torino assolata, con il lungo porticato in ombra che corre a perdita d’occhio sulla sinistra e che incrocia in primo piano la sagoma cupa di un treno che passa, ricordo improvviso del padre e della terra natale. “La pittura di de Chirico scrisse Soffici sulla rivista “Lacerba” nel 1914 non è pittura nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d’archi e di facciate, di grandi linee dirette, di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d’immobilità di stasi, che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo della nostra anima quasi addormentata. Giorgio de Chirico esprime come nessuno l’ha mai fatto “la melanconia patetica di una fine di bella giornata in qualche antica città italiana, dove in fondo a una piazza solitaria, oltre lo scenario delle logge, dei porticati e dei monumenti del passato, si muove sbuffando un treno, staziona il camion di un grande magazzino, o fuma una ciminiera altissima nel cielo senza nuvole”.

Alla Metafisica successe il tempo del mito e dell’allegoria: negli anni Venti, la pittura di de Chirico, con la quale ebbe interessanti assonanze quella dell’amatissimo fratello Alberto Savinio, più interessato però alla rappresentazione onirica e surreale della realtà che all’indecifrabilità dell’enigma, si volgerà alla rilettura dei grandi Maestri del passato. La perfezione tecnica e la misura di Raffello, Tiziano, Dosso Dossi, Poussin (e negli anni Trenta soprattutto Rubens, Fragonard, Delacroix) gli fecero comprendere come raggiungere il folle sogno dell’immortalità, senza per questo rinunciare alla seduzione dell’enigma, cui si confacevano le sembianze dei manichini gladiatori, copia dei dioscuri omerici che compaiono nei suoi quadri verso il 1926, o gli archeologi ermafroditi, con il torace e il ventre ingombro di colonne, templi, alberi e quanto d’altro la sua fervida fantasia e lo stato di sogno gli suggerivano. Gino Severini anticipa tutti. Già nel 1916 aveva affermato la propria indipendenza dal futurismo, approdando alle sue prime composizioni classiche, una scelta che troverà fondamento teorico nel testo pubblicato a Parigi del 1921. È in anticipo anche sulle scelte d’altri grandi pittori del tempo, come per esempio Pablo Picasso, che solo nel 1917 porterà a conclusione, grazie anche al viaggio in Italia, quel processo pur iniziato nel ’15 di trasformazione della sua pittura in direzione neoclassica. Con Severini è forse Carlo Carrà l’artista italiano che meglio rappresenta il passaggio del guado tra avanguardia, Realismo magico, Novecento e per certi aspetti antinovecento. La sua pittura attraversò e fu protagonista di tutte le principali tappe dell’arte italiana del primo ’900, dal futurismo al primitivismo, all’avventura metafisica, all’approdo alle poetiche della nuova figurazione di Novecento, alla sublimazione dell’opposizione al regime nelle sequenze dei paesaggi dipinti negli anni estremi della dittatura. “Mutare una direzione in arte – ebbe a scrivere a questo proposito in La mia vita – non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico. Scoprire nuovi rapporti ignoti, aprire meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà”. Passata brillantemente la prova metafisica, in cui realizzò quadri dominati dall’inquietudine ma anche opere di più complessa fattezza nate dall’ambiguità come la natura morta metafisica superò la fase critica del passaggio tra il sogno visionario metafisico e la concretezza del realismo di Novecento, tra il ’19 e il ’21, dipingendo alcune delle più radiose rappresentazioni della storia dell’arte europea del ’900. I dipinti Le figlie di Loth, L’attesa, Il Pino sul mare, esercizi di umiltà e grandezza insieme, mostrarono nella restaurazione del candore arcaico ispirato dalla pittura dei grandi Primitivi italiani, la continuità della tradizione, che allo spirito del tempo presente portava dal passato i doni della Meraviglia, della Scoperta e dello Stupore, di una pittura, insomma, che era nello stesso tempo etica ed estetica. Negli anni successivi Carrà riportò la sua pittura dentro un alveo di più forte naturalismo, dando vita ad una serie di mirabili paesaggi con figure o semplici marine raffiguranti il litorale toscano, che rappresentarono anche in età tarda, tra la fine degli anni Venti e i Trenta, il permanere nella sua ricerca di caratteri di magico realismo, coniugati non più alla rarefazione narrativa del suo antico primitivismo o della parentesi metafisica, ma piuttosto alla riscoperta di una nuova mitologia del quotidiano, ancora ricca d’incanto e di sorpresa, nella quale azioni e cose, nel permanere nell’atmosfera di un misterioso incanto, assurgevano al ruolo di nuovi riti. La ricomparsa in epoca tarda di una riflessione sulla pittura di paesaggio, impegnò Carrà nell’esecuzione quasi ossessiva di opere in cui luce e atmosfera davano spazio a quella voce antinovecentista, che fu di molti artisti contrari al regime, che proprio nella rinascita di temi molto ortodossi della pittura, come il paesaggio, seppero attendere negli anni più bui del fascismo all’esercizio etico del mestiere. La Metafisica rappresentò un episodio straordinario dell’arte italiana, ma limitato nel tempo. I suoi protagonisti, in primo luogo de Chirico, ma è il caso anche di Carrà, de Pisis, Morandi, Savinio, alle soglie degli anni Venti erano già consapevoli che questo capitolo intenso ma breve della loro ricerca stava volgendo alla fine e la loro pittura era già in ascolto di nuove suggestioni, attratta più fortemente e più compiutamente da un esercizio formale e di composizione che superava, in direzione di una ritrovata classicità, la separazione dell’enigma metafisico. Peraltro la pittura metafisica contribuì con la sua poetica di rarefazione formale, di visionaria percezione della realtà, di straniante relazione tra i luoghi e le cose, a preparare un fertile terreno per quegli artisti che alla pittura dell’avanguardia avevano dato poca retta, o per brevissimo tempo ne avevano condiviso la poetica come Mario Sironi, Achille Funi, Ubaldo Oppi, Felice Casorati, Virgilio Guidi, Antonio Donghi, Piero Marussig, Arturo Martini, artisti tutti già attivi sulla scena dell’arte nazionale nei secondi anni Dieci. Costoro, ignorando il clamore futurista in quel torno di tempo ancora acceso nei toni, e certo più interessati al richiamo della storia, erano pronti a scrivere il nuovo capitolo della pittura italiana postbellica, che dalla storia e dalla riflessione sul passato voleva trarre originale energia creativa. Il loro intento fu quello di far rivivere la tradizione antica nell’attualità del tempo presente, di ridare fiato alla ricerca dell’origine e dell’identità, di promuovere in un clima culturale dove la tendenza neopurista vinceva le ultime resistenze dell’avanguardia, una ricognizione sui repertori antichi per farne nuova fonte d’ispirazione. Tra gli interpreti più originali della traduzione metafisica in testi di puro arcaismo magico fu senza dubbio il piemontese Felice Casorati, autore di alcune tra le più toccanti e misteriose composizioni di quegli anni “di mezzo”, tra il ’20 e il ’23, anni sospesi tra la vocazione all’incanto del realismo magico e la più solida partita di Novecento. Casorati non visse il travaglio dei molti cambiamenti di stile, che aveva accompagnato la maturazione per esempio dell’opera di Carrà: il suo abbandono alla figurazione composta e tradizionale fu una scelta di antica data e risaliva ancora ai primi anni Dieci, quando nel 1907 fu accettato tra gli espositori della Biennale di Venezia e poi, tra il 1913 e il 1920, fatta salva la parentesi della guerra, partecipò sempre a Venezia alle rassegne di Ca’ Pesaro. Dunque non di ritorno ma piuttosto di continuità nella cifra classica si deve parlare per questo grande autore, che nella casa-studio di via Mazzini a Torino, accoglieva come discepoli giovani artisti come Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Levi, tutti protagonisti di quel momento d’oro della vita torinese, all’incirca verso il 1923, in cui le aspettative di un’arte nuova vennero a coincidere con la poetica del realismo magico. Ma quale antico, quale classico fu invocato da questi artisti sopravissuti alla tragica, lunga parentesi della prima guerra mondiale, che cambiò le sorti e il volto del vecchio continente, aprendo la strada a nuovi nefasti destini, nei primi anni Venti, anni ancora innocenti, celati sotto le spoglie dell’utopia socialista? Non bastò all’inizio richiamare a nuova vita la gloriosa storia che aveva fatto grande l’Italia artistica del Rinascimento: i più, Carlo Carrà in testa, vollero spingersi ancora oltre, fino alle nude pendici rocciose del Monte sacro dipinto da Giotto, per recuperare all’arte contemporanea l’essenzialità narrativa della lezione esemplare di verità ed etica dei Primitivi italiani, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Modelli che divennero esempi di riflessione per la nuova poetica del realismo magico, dove proprio il silenzio magico di Giotto fu la parola d’ordine che non fece perdere la rotta nella notte buia dell’ideologia, il silenzio delle parole mute, dei luoghi senza tempo, di vite immobili e sospese, l’unica vita possibile per chi non volle misurarsi o confondersi con la retorica di Stato. La magica e immota segretezza che pervase di sé gli oggetti della pittura italiana ed europea degli anni Venti, fu espressione di valori contrari a quelli delle avanguardie, sia nell’ambito pittorico che in quello afferente il significato dell’opera d’arte, che rispose a una nuova visione dell’oggetto acquistava il valore assoluto di “simbolo profondo per contrastare l’eterno flusso mediante qualche cosa che persiste”. È questa una definizione di poetica che attribuiva alle cose animate e inanimate della pittura una funzione escatologica, vicina al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer e in evidente contrapposizione con la filosofia bergsoniana dello slancio vitale. Lo spirito del realismo magico, cresciuto e nutrito tra il 1918 e il 1922 grazie al dibattito teorico aperto dalle pagine della rivista “Valori Plastici” diretta da Mario Broglio rivista cui contribuirono le intelligenze più vive dell’arte del tempo, da de Chirico, a Carrà, a Savinio all’incirca verso il 1923 confluì e per certi aspetti si saldò con i caratteri più austeri e composti di Novecento, che non fu un vero e proprio movimento, come del resto non lo era stato il realismo magico, ma più semplicemente una tendenza di stile. L’eterogeneità del lavoro dei pittori, che oggi si indicano come novecentisti, non consentì infatti di elaborare una poetica comune, anche se furono condivisi alcuni caratteri distintivi di uno stile che fece ricorso alla figurazione, alla fedeltà ai canoni di un naturalismo idealizzante, ad una composizione sommaria, non descrittiva, ma vigorosa nella ritrovata plastica dei volumi, ad atmosfere sospese che accoglievano forti suggestioni del realismo magico. Iconografia e caratteri stilistici di questa nuova figurazione traevano esempio da modelli del mondo classico per eccellenza, ma anche da quello già ricordato dei Primitivi italiani e soprattutto dalla lunga stagione rinascimentale e dalla sua rinascita in età neoclassica, da artisti della tempra di Ingres, ma anche dalla pittura dei fiamminghi e degli etruschi, un soggetto quest’ultimo che trovò compiuta celebrazione nell’opera di Massimo Campigli. I temi più diffusi furono il ritratto, la natura morta e l’allegoria, porta aperta tra la realtà apparente e la verità profonda delle cose. L’allegoria apparve nelle sue molteplici sembianze, da quella mitica a quella biblica, da quella implicita, celata dietro l’apparente realismo delle cose rappresentate, a quella esplicita rivolta alla poesia sommessa e raccolta del quotidiano, a quella, infine, allusiva legata ad un repertorio iconografico di simboli che riflettevano le grandi problematiche della vita e della morte, del tempo, del sacro. Novecento nacque nel 1922 da un raggruppamento di sette artisti, Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi, che si presentarono riuniti sotto quest’etichetta nel 1923 alla mostra tenutasi nella Galleria Pesaro di Milano, con gli auspici di Mussolini e la presentazione della giornalista, critica d’arte Margherita Sarfatti. Nel 1924 il gruppo “Sei pittori del Novecento” (Oppi si era isolato) si presenta alla Biennale di Venezia con un testo della Sarfatti in catalogo: scopo della mostra, così come delle esposizioni che seguiranno, alcune di grande rilievo come quelle del 1926 e del 1929, fu quello di ridare alla pittura italiana, un primato nell’ambito della ricerca artistica europea. Margherita Sarfatti, teorica del gruppo, lavorò con fede e passione per ricondurre ad unità di stile e d’intenti il lavoro dei migliori artisti italiani dell’epoca, anche allo scopo di rifondare una tradizione pittorica italiana moderna. Tenace e volitiva Margherita Sarfatti difese i caratteri di “italianità” dell’arte contemporanea, cui però non pose mai veti né vincoli, accogliendo nel suo gruppo le più disparate inclinazioni, purché rivolte all’identico progetto di sostegno e valorizzazione dell’arte nazionale. E proprio in quella direzione, di un’arte profondamente italiana, capace di rappresentare il nuovo sentimento degli artisti, attenti ad un’interpretazione in chiave contemporanea della tradizione passata, ma anche di un’arte coincidente con i nuovi valori dettati dal regime si pose la delicatissima questione del rapporto arte e politica. È delicatissimo il compito di valutare criticamente, alla luce della storia tragica del Ventennio fascista, il significato di quella affinità tra l’interesse degli artisti per i Maestri Antichi e quell’identica passione espressa dalla dittatura, che in Italia proprio sulla pittura degli Antichi costruì gran parte del proprio repertorio di simboli e vaneggiamenti, di glorie e d’eroi, mostrando nella retorica della citazione il limite della propria politica conservatrice. I rapporti tra la poetica di Novecento e il regime di Mussolini, che a Novecento diede il proprio appoggio ufficiale nel 1923 in occasione della prima mostra del movimento alla Galleria Pesaro di Milano e nel 1926 alla mostra Il Novecento Italiano sempre a Milano, è un capitolo complesso della storia artistica dell’Italia fascista tra gli anni Venti e i Trenta. E la complessità derivò proprio dall’ambiguità della relazione tra l’immaginario dell’ideologia fascista, che nella sua febbrile attività di propaganda rispolverò molti dei vecchi miti dell’Italia antica, attualizzandoli in una veste retorica e conservatrice, e la poetica autenticamente originale di quel ritorno all’ordine, che dopo l’euforia dell’avanguardia, aveva ristabilito il valore dello stile come idea, della regola come metodo di conoscenza, del classico come origine e attualità. Negli anni Trenta il disperdersi all’interno della poetica di Novecento del silenzio e dell’aura incantata del realismo magico, che lasciò il posto ad un realismo sempre più concreto e assertore di valori ideologici funzionali al fascismo, fu manifesta espressione della fine dell’autonomia dell’arte. La perdita del sogno e del principio di verità favorirono l’avvento di un nuovo corso della pittura italiana, forzatamente epico e monumentale, per molti aspetti anche glorioso nei risultati, soprattutto là dove si misurò con le grandi dimensioni degli affreschi murali di propaganda. Mario Sironi fu tra i molti che si ritrovarono a dover fare i conti con le grandi committenze pubbliche, destinate a celebrare i sogni di gloria del regime, i suoi luoghi comuni, le sue virtù. Avvezzo ad una straordinaria e colta frequentazione dei repertori classici, frammista ad una pressoché unica capacità di governare con il suo gesto creativo la tettonica degli spazi delle grandi composizioni, il suo contributo emerse per qualità e altezza dei risultati pittorici, certo non secondi a quell’autentica vocazione magico realista, che nel corso degli anni Venti, nelle sue misteriose composizioni, come per esempio nel superbo dipinto del 1924 L’allieva, aveva offerto uno dei più significativi contributi del XX secolo alla rappresentazione della tragica melanconia dell’uomo contemporaneo. Per molti altri, invece, la concessione ad una pericolosa adulazione, trasformò il gesto creativo in una pedissequa propaganda, di segno dunque contrario ai principi di un’arte realmente libera. Non fu sempre facile nel turbinio degli eventi dell’arte del Ventennio riconoscere e distinguere la moralità dell’esercizio autentico dell’arte dall’acquiescenza al potere. Ciò avvenne principalmente per due motivi: da un lato per il fatto che in Italia la questione culturale non diventò mai una bandiera in prima linea della propaganda politica, a tutto vantaggio della circolazione delle idee dell’arte, anche di quelle non propriamente in linea con il gusto del regime, dall’altro lato perché anche là dove, come in Novecento, i temi della pittura coincisero con i nuovi miti del potere politico, questo fatto, come sopra si è ampiamente scritto, non fu se non in casi eccezionali tacciabile di consapevole connivenza ideologica. Va peraltro rilevato che l’organizzazione delle attività culturali sul territorio nazionale aveva creato nel settore artistico uno strumento molto avanzato di controllo, costituito da una rete capillare di premi e di mostre “sindacali” provinciali e regionali, i cui migliori esponenti confluivano nelle grandi manifestazioni nazionali. A queste mostre, è inutile dire, posizioni contrarie al regime non furono naturalmente ammesse, mentre furono ammesse, forse perché non riconosciute come antitetiche alla politica culturale del fascismo, molte opere che oggi si possono definire “di resistenza”, opere nelle quali gli artisti, contrari al gusto dominante di Novecento, e contrari soprattutto all’idea di un’arte di regime, manifestarono il loro disagio con una fuga nelle più svariate direzioni, dal facile ripristino della poetica del paesaggio postimpressionista, all’espressionismo di toni accesi della Scuola romana, all’astrazione geometrica dei pittori milanesi attivi attorno alla galleria del Milione di Milano, al chiarismo promosso dal critico Edoardo Persico, al Gruppo dei Sei di Torino sostenuto dal critico Lionello Venturi. In questo modo si assicurò alla vita culturale del Paese un passaggio sufficientemente ampio attraverso le more del fascismo, che solo alla fine degli anni Trenta, poco prima dello scoppio della guerra, rafforzò le proprie difese contro l’opposizione culturale, che inconsapevolmente era stata nutrita e cresciuta al suo stesso interno nel corso degli anni precedenti. Negli anni Trenta, nel clima di generale dispersione delle regole e degli indirizzi di stile, che avevano governato il fronte dell’arte novecentista, emerse dunque alla superficie, pur celata da un’apparente, innocua diversità, la fronda di chi non era stato solidale all’idea del ritorno all’ordine e aveva battuto altre strade. Molti di questi artisti trovarono ragioni comuni in una pittura calata in una sorta d’esistenzialismo capace di slanci lirici della materia e del colore, inimmaginabili per la sobria plastica di Novecento, o, ancora, sospinti verso il racconto di una visione tragica e angosciosa della realtà, cosa anche questa severamente bandita dalle serene, placide composizioni del vigoroso classicismo di Novecento. Tra i molti artisti impegnati nella battaglia per la sopravvivenza di quella voce antiformalista e anticlassica, Mario Mafai e Renato Guttuso rappresentano gli estremi di una ricerca, che per vie diverse coltivò l’identica tensione di ansia e di verità. Da un lato ci fu l’avventura della scuola di via Cavour a Roma, culla della cosiddetta Scuola romana, che ebbe come principali protagonisti tra il 1927 e il 1930 Mario Mafai, la moglie Antonietta Raphäel, e l’amico intimo Scipione. La loro storia, che iniziò con il comune apprendistato presso la Scuola libera di nudo a Roma nel 1925, si intrecciò naturalmente con quella “ufficiale”, scandagliò le possibilità dell’arcaismo, della metafisica, del classicismo, per approdare infine, in dialettica con Novecento e non come radicale opposizione, ad una pittura del tutto originale, intrisa di emozionalità dove il colore riconquistò una forte carica espressiva, aiutato dal ricorso ad un tonalismo romantico che soprattutto in Scipione e Mafai corroborava la forma di una nuova capacità evocativa, non più descrittiva e analitica ma sommaria ed enunciativa. La fine precoce di Scipione, morto nel 1933, e l’allontanamento dall’Italia di Mafai e della moglie Antonietta Raphäel, chiuse un capitolo brevissimo ma intenso dell’arte italiana, la cui eredità fu accolta e interpretata da altri artisti romani impegnati in percorsi alternativi alle strettoie del classicismo, come Cagli, Capogrossi, Melli, Ziveri. Protagonista del gruppo milanese ‘Corrente’, costituito da oltre una decina di artisti riunitisi nel 1938 attorno alla rivista “Vita giovanile”, fondata dal pittore Ernesto Treccani, fu invece il giovane Renato Guttuso, un’artista che salirà agli onori delle cronache internazionali dell’arte nell’immediato dopoguerra, per il suo rigoroso impegno culturale nella vita politica dell’Italia postfascista. Già sul finire degli anni Trenta Guttuso aveva fatto la sua scelta, proprio nella direzione anticlassica battuta da ‘Corrente’, che alla tradizione mediterranea e rinascimentale oppose una visione tutta europea, sorretta da una riflessione critica su quanto la pittura d’oltralpe aveva prodotto nella scia dell’anticlassicismo, dunque basata sul riesame dell’opera di Van Gogh, Ensor, Munch, gli espressionisti tedeschi e soprattutto di Picasso, sulla cui lezione si imposterà il lavoro di gran parte della pittura italiana alla fine della seconda guerra mondiale. Nel gruppo di ‘Corrente’ Guttuso rappresentò l’anima anti-lirica per eccellenza, che si opponeva a quel filone più incline all’espressività del colore che della forma, bene interpretato da Renato Birolli. La pittura di Guttuso fu inizialmente orientata in senso fortemente espressionista, sfuggendo ad ogni sospetto di classicità: il suo tragitto partiva da rappresentazioni nelle quali forma e colore, nell’esasperazione delle linee e dei toni, si mescolavano sulla tela come parti indistinguibili di una realtà nella quale, forse solo in misura pari alle visionarie tele di Scipione, si coagulava la ribellione alle regole e alla misura di Novecento. Agli inizi degli anni Quaranta – già dal 1937 Guttuso risiede stabilmente a Roma dove è vicino anche all’ambiente della cosiddetta Scuola romana – il suo espressionismo cede gli accenti più forti ad una più sobria figurazione, come nel caso di Figura, tavolo e balcone (1942) e Donna alla finestra (1942), opere nelle quali già si misura la sua vocazione per un realismo capace di accendere “una nuova sensibilità estetica, che andava di pari passo con una nuova coscienza sociale, che da un generico ribellismo antiborghese arrivava alla progressiva consapevolezza antifascista”. Negli stessi anni, nel silenzio di un’impresa quasi impossibile, giorno dopo giorno, ci fu chi giocò una partita assolutamente solitaria. È il caso del pittore bolognese Giorgio Morandi che rinunciò a partecipare a qualunque manifestazione pubblica e collettiva, dove l’arte fosse stata protagonista. Fu il suo un distacco dalla vita attiva, un prendere le distanze dalla politica, la dichiarazione di una propria diversità, così come diversa da ciò che si andava ricercando in Italia in quel torno di tempo, fu la sua opera, quotidianamente e quasi ossessivamente attesa allo studio e alla catalogazione delle poche, piccole cose del suo ristretto mondo domestico. Bottiglie, tazze, brocche e qualche barattolo vuoto, rimasto a decantare sul tavolo di casa divennero la ragione stessa della sua poetica, forma e contenuto della sua ricerca, tutta risolta nell’amore di un unico genere, la natura morta appunto, con qualche rara eccezione per il paesaggio. “Nel ’31 – scrive il critico Arcangeli nella monografia dedicata al grande bolognese – Morandi, torna a colare a picco, in silenzio. Modestamente, senza importunare nessuno, senza che nessuno intenda davvero, dipinge i quadri e lavora all’incisione ch’io ritengo le opere più ardite e nuove dell’Europa di quel momento. Sono i suoi soliti oggetti, ma adesso egli riprende l’indagine, tentata in profondità verso la fine del ’29 e proseguita saltuariamente nel ’30, con anche più dura, triste, accanita sapienza. Ogni opera, testimonia di un’ossessione allucinata, potente, quasi folle. Davvero, come testimonia Brandi, si potrebbe ora parlare d’attacco dissolvente all’oggetto... ma l’oggetto non cede mai... Sono i suoi ostaggi, questi oggetti di cui egli è, tuttavia, prigioniero; sono ostaggi e, sicuramente, houtes pates”. Solo un cenno ma ne vale la pena: la fine della seconda guerra mondiale azzera in Italia, come nel resto d’Europa, ogni certezza e riapre conflitti radicali tra gli artisti, tra chi è chiamato traditore e chi invece sa di non aver tradito. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente creduto. Ogni guerra vuole le sue vittime anche dopo la fine reale dei conflitti. In questo la cultura con le sue abiure e le sue licitazioni, con i suoi compromessi e le sue sconfessioni, sembra essere un terreno molto fertile dove si accalcano i morti, chi non ha reagito, chi non ha capito, chi non ha voluto capire, chi infine ha fortemente creduto. I vivi riannodano i fili della storia e per lo più ripercorrono il passato per ritrovare la strada. In Italia la Biennale del ’48 è un’occasione straordinaria per riprendere i contatti con il mondo artistico internazionale, che nell’Italia fascista si credeva a portata di mano ma che invece si scopre essere stato assai lontano. Picasso è il nuovo mito del dopoguerra, con la sua meritata fama antifascista: la sua opera entra con forza nella riflessione della prima generazione di pittori astratti italiani. La prima sfida, democratica, pone sul tappeto la querelle tra arte figurativa e arte astratta. Entrambe sono rappresentate da artisti che non hanno avuto paura di essere contro il regime, Renato Guttuso ed Emilio Vedova, ma la questione si surriscalda per alcuni anni, infuocando il dibattito artistico italiano. Come dice Rosario Pinto: “Non caso, ed in limine, sarà proposta nel 1942 la Crocifissione di Renato Guttuso, un’opera che, però, viene fatta oggetto di dileggio e di rifiuto da parte cattolica, fino al punto di veder comminata, da parte del vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, ai preti che dovessero recarsi ad ammirarla nel cotesto della seconda edizione del ‘Premio Bergamo’, la “sospensione a divinis”.
La funzione sociale e democratica dell’arte può essere interpretata dalla pittura non figurativa o meglio sarebbe affidare il suo potere didascalico ed educativo alla figurazione, sicuramente più facile da intendere e interpretare? Sono ferite che stenteranno a rimarginare, ma sono passaggi obbligati nella maturazione di una nuova identità della giovane arte italiana contemporanea. Accompagna la mostra un catalogo realizzato da Ponte43 per le edizioni ViDi cultural.
Palazzo delle Paure Lecco
NOVECENTO. Il ritorno alla figurazione da Sironi a Guttuso
dal 22 Luglio 2023 al 26 Novembre 2023
Martedì dalle ore 10.00 alle ore 14.00
dal Mercoledì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso