Roberto Pinto ha insegnato all’Università di Trento ed è attualmente docente di Storia dell'arte contemporanea presso l'Università di Bologna. Curatore indipendente è stato caporedattore di Flash Art. Tra le molte mostre da lui curate ricordiamo qui la Biennale di Gwangju (2004), la Biennale di Tirana (2005), Subway (varie sedi, Milano, 1998), Transform (varie sedi, Trieste 2002), Spazi Atti (PAC, Milano, 2004), Dimensione Follia (Galleria Civica, Trento, 2004), Confini (MAN, Nuoro, 2006). Ha curato le otto edizioni del programma di incontri e conferenze La generazione delle Immagini (Accademia di Brera e Triennale di Milano) e le relative pubblicazioni. Tra i suoi libri, si segnala Lucy Orta, Phaidon Press, Londra 2003. Dal 2004 al 2007 è stato curatore del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti, Como.
Lo abbiamo incontrato a proposito del suo recentissimo volume Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione, Postmediabooks, Milano 2012, che affronta questioni di particolare importanza in merito alle politiche espositive dell’arte contemporanea, in un epoca che ha profondamente modificato le gerarchie culturali e lo stesso approccio critico riguardo alle produzioni artistiche attuali.
D. Da storico dell’arte antica il tuo libro mi ha particolarmente interessato perché le questioni che sollevi circa la capacità di una mostra di restituire in modo adeguato tradizioni culturali diverse mi sembra che valgano anche in relazione all’arte di altre epoche e altre scuole, e che il problema cruciale sotteso al tuo lavoro riguardi proprio le condizioni di possibilità che consentono di comprendere ciò che è (o sembra) diverso da noi e non direttamente e “naturalmente” accessibile alla nostra comprensione (come si presume, con larga approssimazione, che avvenga nei confronti di ciò che viene prodotto al’interno della propria cultura). Per cominciare la nostra chiacchierata vorrei che ci spiegassi com’è nato il progetto del tuo libro e quali sono i suoi obiettivi critici sostanziali.
R. Il progetto scaturisce dall’incrocio fra i miei personali percorsi professionali e un’istanza critica di ordine più generale. Il libro, tanto per cominciare, raccorda i due aspetti che hanno caratterizzato il mio lavoro: da un lato, l’attività dapprima di osservatore dell’evoluzione del mondo delle mostre di arte contemporanea, attraverso il mio lavoro di redattore di FlashArt, e poi, per circa dieci anni, quella di curatore di esposizioni anche internazionali, che in qualche modo mi ha reso partecipe dei meccanismi di globalizzazione in atto; dall’altro, negli ultimi sette-otto anni, da quando insegno all’università, sono entrato all’interno dei processi di analisi e interpretazione di questo fenomeno. Nei circa trent’anni che ho dedicato allo studio dell’arte contemporanea certamente la situazione si è radicalmente trasformata, passando da uno stato di cose in cui nelle mostre internazionale si trovavano rappresentati, studiati ed esposti solo artisti del mondo occidentale (Europa e Stati Uniti) a uno ben più articolato e composito dove quegli automatismi e quelle gerarchie non esistono più: lo stimolo principale alla base del mio libro è stato il desiderio di analizzare questo cambiamento così rilevante e cercare di comprendere le ragioni che lo hanno determinato e le conseguenza che ha prodotto, potendomi giovare di un punto di visto duplice, in qualche modo al contempo esterno e interno. Per realizzare questo obiettivo ho cercato di lavorare su due livelli, quello storico e quello critico, che sovente sul terreno dell’arte contemporanea faticano ad agire di concerto, nel senso che un vizio endemico del modus operandi dei “contemporaneisti” è di leggere i fenomeni quasi esclusivamente sotto il profilo critico, procedura peraltro indispensabile per poter approcciare, discutere e comprendere in tempo reale l’arte contemporanea. D’altro canto, però, mi sembrava non meno indispensabile sottoporre il tema delle mostre anche a un tipo di indagine più propriamente storico, più attento agli aspetti economici, politici, contestuali e in generali ai processi culturali che si agitano dietro all’evento espositivo. Il punto di partenza è che l’arte contemporanea vive soprattutto, attraverso le mostre, e alle grandi mostre (per esempio, la Biennale di Venezia o Documenta) si ritrovano tutte le componenti del mondo dell’arte, a cominciare dagli artisti, per vedere, scoprire, apprezzare o respingere. Sono eventi della massima influenza e dagli effetti incalcolabili, per cui qualsiasi analisi dell’evoluzione dell’arte di oggi ci si deve soffermare con la maggiore attenzione possibile.
D. Primitivism in 20th Century Art (New York, 1984, a cura di William Rubin), Magiciens de la terre (Parigi, 1989, a cura di Jean-Hubert Martin) e in subordine The Other Story (Londra, 1989-1990, a cura di Rasheed Araeen), sono le tappe principali (non a caso tra New York, Parigi e Londra) di quel processo di sostanziale trasformazione che si è verificato negli ultimi tre decenni nelle esposizioni internazionali di arte contemporanea e che il tuo libro analizza criticamente: a che punto siamo oggi rispetto alla traiettoria culturale che si è andata delineando attraverso quelle celeberrime e dibattutissime mostre?
R. Si tratta a mio avviso di un processo che in qualche modo oggi si è compiuto, anche se questo non necessariamente significa che siamo effettivamente approdati a scardinare i principi gerarchici vigenti e pervenuti quindi a una lettura per così paritaria dei fenomeni artistici. A me importava innanzitutto individuare questi fondamentali punti di partenza che hanno rilanciato a un più alto livello di consapevolezza e di problematicità questioni che necessariamente erano già state prese in considerazione dalla storia dell’arte: non ci dimentichiamo che il MoMA, il museo allora più importante e influente per quanto riguarda la presentazione dell’arte contemporanea, già nel 1941 si permette di dedicare una mostra agli indiani d’America in sostanza di taglio completamente antropologico. Primitivism in 20th Century intende ripercorre questo processo di sviluppo culturale partendo dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare agli anni Settanta del XX secolo, mostrando che il fenomeno non nasce nel nono decennio del Novecento con la cosiddetta “globalizzzazione” ma ha radici ben più antiche. La mostra di Rubin incarnava e condensava gli aspetti positivi e anche i limiti della storiografia tradizionale, che presupponeva che l’arte fosse in fin dei conti un fenomeno esclusivamente “occidentale” e che quindi tutto ruotasse in funzione di questo: per cui le maschere africane erano interessanti per quel che significavano per Picasso, i disegni degli indiani d’America alla luce di Max Ernst o di Jackson Pollock e così via… Tutto ruotava intorno alla ricezione dell’artista occidentale senza alcuna possibile reciprocità, e di tutto il resto alla storia dell’arte poco poteva importare. Di questo approccio generale la mostra del MoMA del 1984 è un’espressione esemplare, nonostante la qualità che ancor oggi appare superba del lavoro storico e critico di Rubin su Picasso. Questa grande mostra ha prodotto una serie di reazioni, che hanno visto in essa un episodio emblematico, da studiare, comprendere ma anche criticare e superare. Se il valore di questa esposizione è stato profondamente generativo, ancor più grande è stata l’influenza di Magiciens de la terre del 1989, mostra organizzata nell’ambito delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese. Una mostra che mise per la prima volta sullo stesso piano, nello stesso spazio e con lo stesso investimento produttivo la medesima quantità di artisti occidentali e non occidentali nell’ambizione di rappresentare una sorta di utopica Repubblica delle Arti, di democratica piattaforma di scambio fra gli artisti di tutto il mondo. E’ evidente come una scelta del genere fosse sostenuta da un mito universalista a sua volta molto occidentale: ma non c’è dubbio che quella spinta utopica abbia avuto una fantastica forza generativa, che si coglie appieno anche attraverso le molte risposte polemiche che essa ha determinato da parte di artisti, critici e storici d’arte, antropologi, che lavorano all’interno di un territorio di confine non ben definito tra la storia dell’arte, la sociologia, l’antropologia e la storia della cultura, che hanno rilevato perfino aspramente (e con buoni argomenti) i limiti del progetto e della sua realizzazione.
Shirin Neshat alla mostra Transculture, Biennale di Venezia 1995 Damien Hirst mentre allestisce alla Biennale di Venezia 1993
(foto Gorni) (foto Gorni)
D. Non trovi che l’onorevole preoccupazione e l’apprezzabile intento di comprendere e riconoscere analoga dignità, in quanto opere d’arte e in quanto oggetti di studio, alle produzioni provenienti da “altre geografie artistiche”, con tutte le conseguenti preoccupazioni di adeguare la propria strumentazione storico-critica a materiali così diversi, in fondo corrisponda comunque a un’espressione estrema, per quanto “sterilizzata”, di superbia culturale, e che l’ossessione della correttezza politica - derivi essa da cattiva coscienza, etnocentrismo o semplicemente dall’approdo a uno stadio sopraffino di sviluppo culturale - sia pur sempre il frutto di un punto di vista viziato da un complesso di superiorità? Il modo più corretto di leggere i segni di una civiltà diversa non dovrebbe derivare “banalmente” dal porsi di fronte ad essa nel modo più serio, onesto e informato possibile, con lo stesso impegno che mettiamo cercando di comprendere i prodotti della nostra cultura? Quest’ultimo atteggiamento, tra l’altro, non somiglierebbe di più a quello che fanno le altre culture quando studiano la nostra? Non mi sembra che gli storici dell’arte giapponese siano ossessionati dal dubbio di potere o meno comprendere, che so, Leonardo da Vinci: lo studiano, e lo capiscono, in quanto vertice universale del pensiero umano, e amen…
R. Innanzitutto c’è da dire che in effetti, ancora negli Ottanta, se evidentemente erano disponibili tutti gli strumenti appropriati per studiare l’arte occidentale, lo stesso decisamente non si poteva affermare riguardo l’arte che veniva prodotta in Gabon o in Costa d’Avorio, tanto per dire: anche perché in pochi ritenevano che fosse importante studiarla. E questo non solo - per ignoranza o disinteresse - da parte occidentale, ma anche, per oggettive carenze di mezzi a tutti i livelli, da parte di quegli stessi paesi. Nel 1989, per fare una mostra di arte africana, Martin si trovava di fronte a una sorta di grande vuoto: non c’erano centri studi sull’arte africana come oggi, con investimenti importanti e mezzi intellettuali appropriati. Doveva costruire delle reti per studiare questi materiali, e l’arroganza che in controluce può essere rilevare in questo progetto è intrinseca alla grande utopia democratica occidentale che sosteneva la sua impresa. Il giapponese che studia Leonardo non sente il bisogno di immedesimarsi, e non si domanda se sta comprendendo o fraintendendo, perché la cultura occidentale è penetrata in profondità e dunque nessuno arriva totalmente ignaro e sguarnito di fronte alla nostra arte. E’ chiaro che per noi trenta o quarant’anni fa c’era un enorme gap informativo e anche culturale-valoriale da colmare prima di poter affrontare con un minimo di cognizione di causa l’arte africana e nelle grandi mostre generative di cui stiamo parlando, a partire da Magiciens de la terre, la prima questione è stata di chiudere questi buchi.

Pepon Osorio, En la Barberia no se llora, installazione alla VI Biennale dell'Avana 1997 (foto Gorni)
D. Che ruolo ha svolto e svolge l’Italia nella complessa dinamica evolutiva che tu descrivi e indaghi? Qual è, dal tuo osservatorio, lo stato di salute della critica italiana nel settore dell’arte contemporanea?
R. C'è da premettere, intanto, che la nostra storia nazionale presenta delle importanti peculiarità: nostro malgrado, non siamo propriamente un paese con un rilevante passato coloniale alle spalle (sebbene la nostra, pur modesta, stagione colonialistica in Africa sia stata forse perfino più feroce rispetto a quella inglese, francese o olandese). Nell’era moderna non siamo mai stati veramente un impero, anche se con Mussolini affermavamo il contrario. Detto questo, la penetrazione e l’influenza dell’arte non occidentale in Italia è stata certo più contenuta che in Francia, Inghilterra o negli Stati Uniti, e più netto il rifiuto di culture così irriducibili ai canoni della nostra tradizione: quindi, per dirla in sintesi, in generale da noi il problema si è posto poco. Per rispondere al primo quesito che mi poni, la partecipazione dell’Italia al processo di revisione e apertura culturale che sul terreno delle mostre d’arte si è inaugurato con Magiciens de la terre è stata molto limitata e il suo ruolo decisamente marginale, anche in connessione col fatto che l’ondata migratoria dai paesi poveri verso il nostro Paese si è verificata in modo più tardivo. Se questo vale in linea generale non ci può però dimenticare della Biennale di Venezia, che è stata ed è un grande appuntamento internazionale di straordinaria importanza per varietà e ricchezza di offerta e di approcci, e che è sempre riuscita, per la sua struttura e talora perfino suo malgrado, a restituire la più adeguata immagine d’insieme possibile della produzione artistica di oggi, con la sua frammentazione, pluralità e multiculturalità.
Per quanto concerne la seconda parte della tua domanda farei una premessa: l’università italiana in genere si disinteressa della stretta contemporaneità, nel timore (che naturalmente è giustificato) di entrare entro un’area minata, un corpo troppo fragile e in divenire per poterci mettere seriamente le mani. Questo ha creato un’inevitabile, e negativo, distacco fra il mondo degli studiosi veri e propri e quello dei curatori, che di fatto sono coloro che si occupano realmente dell’attualità e che però, al di là della qualità delle persone (che naturalmente talora può anche essere notevole), spesso se ne occupano in modo superficiale, totalmente dipendente dall’occasione, e tale da consumarsi nei tempi brevi che connotano l’evento espositivo, dal suo concepimento alla sua organizzazione sino alla sua realizzazione. Spiace dirlo, ma spesso chi cura le mostre di arte contemporanea in Italia ha un approccio poco più che giornalistico, è informata in modo generico e ha studiato poco (spesso perfino l’oggetto dell’esposizione a sua cura), non si preoccupa granché di quello che scrive e di come lo scrive, di come spiega, colloca storicamente, argomenta criticamente intorno al valore o ai significati di ciò di cui si occupa, per di più adottando non di rado un linguaggio da cui sono banditi ogni rigore e chiarezza. Questa purtroppo è un’anomalia della storia dell’arte italiana contemporanea, perché in Francia, Germania o Stati Uniti questa di dicotomia di fatto fra “studiosi” e “curatori” non esiste, perché dietro alle mostre ci sono istituzioni e strutture serie, fondi adeguati, personale qualificato e un congruo tempo di indagine, studio e riflessione. Devo aggiungere che proprio la consapevolezza di questi limiti è stata la molla principale che ha fatto nascere dentro di me il bisogno di porre in secondo piano l’attività di curatore e mettermi a studiare in modo diverso e più approfondito.
D. Si può dire, a tuo avviso, che nelle sorti dell’arte contemporanea si sia determinato un eccesso d’importanza e di centralità delle mostre, a scapito di un’attività storico-critica maggiormente rivolta alla ricerca e alla riflessione (filologica, assiologica, ontologica) sulle opere e sugli artisti?
R. Le mostre assolvono una funzione evidentemente insostituibile di presentazione, proposta, discussione intorno a quanto di nuovo viene creato dagli artisti, ma non può rappresentare tutto il lavoro che deve essere svolto intorno all’arte di oggi; in questo senso c’è sicuramente la necessità di perseguire e individuare modalità critiche ulteriori e diverse che ci permettano di svincolarci dalla sudditanza nei confronti del pardigma-mostra. Vorrei citare a titolo di esempio un’iniziativa che sono orgoglioso di avere curato: per nove anni, a Milano, ho organizzato in Triennale degli incontri con gli artisti che, partiti in sordina con un pubblico medio di 20-30 persone, sono arrivati nel tempo ad attestarsi su 3/400 spettatori negli incontri con gli artisti più famosi. In quelle circostanze gli artisti avevano l’occasione di raccontarsi e di raccontare il loro lavoro, la ragioni che erano sottese alla loro storia di produttori di forme. C‘è un sapere da coltivare che passa attraverso metodi alternativi alle mostre, anche tradizionali, ma non sempre praticati dall’arte contemporanea: per fare qualche esempio più banale, ci sono libri da scrivere e non solo cataloghi di esposizioni, c’è da approfondire il lavoro sugli archivi, da stringere la collaborazione fra università e musei, organizzare dottorati di ricerca, e infine anche pensare mostre diverse, con poche o pochissime opere da studiare a fondo, di cui ricostruire la genesi, i significati, le connessioni.
D. Per concludere, c’è una mostra ideale che sogni, o auspichi, di organizzare in futuro legata alle tematiche che sono al centro del tuo libro?
R. Non c’è. Una mostra del genere oggi non la farei perché mi sembra che riuscirebbe soprattutto un grande e superfluo spot alla globalizzazione. Penso che sia necessario aspettare qualche anno per poter riprendere in mano tutto il tema con un più adeguato sguardo retrospettivo che permetta di leggere meglio i complessi passaggi critici e culturali che si sono succeduti fra gli anni Novanta del Novecento e il principio del nuovo millennio. Oggi una mostra risulterebbe comunque in ritardo rispetto al problema – al contempo artistico, sociale e politico - della convivenza di culture molteplici e radicalmente diverse all’interno degli stessi spazi, anche perché quel problema, almeno nelle mostre, di fatto non esiste più. In questo senso il mio libro descrive e si situa dentro un processo che storicamente più o meno può dirsi giunto a compimento, con ogni probabilità in modo irreversibile: e quindi la mia lettura è e vuole essere una lettura storica di un fenomeno che può essere osservato per intero, tant’è che l’ultimo evento importante che analizzo nel libro è Documenta 11 del 2002.
Luca Bortolotti