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Per il giornalismo che si occupa di cronaca gli accadimenti estremi, efferati e negativi sono fondamentali, per non dire vitali. Così la pratica della "cronaca nera" si fa abitudine, fino a diventare il rito quotidiano per mezzo del quale una branca del giornalismo (con tutti i dibattiti ad esso collegati) perpetua se stessa all'insegna dell'inestinguibile bisogno che l'uomo ha di dare sfogo - e insieme di alimentare - il suo bisogno di stupore/indignazione di fronte a determinati fatti incredibili/terribili.


Certamente, si obbietterà, l'informazione in merito a questi episodi del quotidiano vivere è necessaria sia per diritto di cronaca sia per obbligo di sensibilizzazione. Ma quando un rito si estende fino all'ipertrofia si rischia di scadere nel morboso e nell'assuefazione. Capita, a volte, che le dimensioni di tale rito diventino tanto estese da infettare anche altri campi dell'informazione. Così, la cronaca culturale specializzata in storia dell'arte da qualche tempo è affetta da una singolare forma di "scandalismo storico-artistico", tale per cui si grida alla vergogna (quasi con lo stesso cipiglio delle pseudo-tribune politiche televisive) per qualsiasi avvenimento, guardato sempre e comunque con sospetto e pregiudizio, pronto a diventare indignazione al primo passo falso.
Certo, sarebbe folle non ammettere che tante, troppe cose legate al mondo dell'arte (e della sua fruizione/conservazione) in questo paese non vanno e non c'è modo di farle andare. Ma, come per la cronaca, un conto è il diritto all'informazione, un conto è il gusto per "la villetta degli orrori" e la "rabbia dei parenti".

VERMEER_003m(1)Un caso emblematico di questo cortocircuito caotico e chiassoso nel quale è impantanato il dibattito culturale italiano è ben espresso dall'arcinota vicenda della Ragazza con l'Orecchino di Perla ora esposta a Bologna e indissolubilmente legata a Marco Goldin.
Su questo vero e proprio caso è stato detto di tutto da parte di tutti, venendo a creare un vero e proprio sistema satellitare della vicenda in sè e rendendo difficile raggiungere il centro della questione, cioè "che cosa" sia esposto ora a Bologna. Su queste stesse pagine, poche settimane fa è stato dedicato un articolo che si è lodevolmente degnato di informare tutti i lettori sulle opere presenti alla mostra oltre al quadro di Vermeer (al quale rimando: https://news-art.it/news/ma-quella-giovinetta-pensa-solo-ai-soldi.htm).

Dai molti articoli disponibili ovunque, invece, si deduce spesso chiaramente un fatto: quasi nessuno è andato personalmente a vedere la mostra, reputando sufficiente il passaparola e le immagini fornite dal sito di Goldin. Meraviglie del mondo digitale, imbarazzi del mondo giornalistico o semplice superficialità contemporanea, lascio al lettore la decisione.
Certamente c'è anche chi ha condotto il lavoro con serietà, volendo realizzare una narrazione in prima persona della vicenda e apportando alcune riflessioni personali frutto di meditazione e impegno, con posizioni non per forza condivisibili, ma sicuramente fertili per un dibattito onesto (http://storiedellarte.com/2014/01/la-ragazza-di-vermeer.html).

REMBRANDT_007m(1)Decisamente diverso è il giudizio esprimibile sulle opinioni di chi "la pancia" di questa storia l'ha voluta cavalcare, con considerazioni al limite del campanilismo anni '40, arrivando a sostenere che all'Italia non serve l'arte di altri paesi, essendo meglio Antonello da Messina o Annibale Carracci (http://www.youtube.com/watch?v=IlKO2rtGJTU).
Al di là della considerazione degna di una partita di calcio, se anche fosse così? Ha senso nel 2014 una reazione così aggressiva (e spaventata) rispetto all'occasione di vedere in italia un nutrito numero di eccellenti opere olandesi? Questa posizione "protezionista" è piaciuta moltissimo ad una certa classe intellettuale di specialisti del settore, che hanno sentito coccolare quel senso di avversione e allergia per qualsiasi forma d'arte foreste che, dai tempi del Keine Malerei di Roberto Longhi, impazziscono quando si crea un supposto confronto tra arte italiana e scuole del nord. Certo, è verissimo che a Palazzo Fava (sede della mostra) c'è un ciclo di affreschi di Carracci che toglie il fiato e che le molte pinacoteche cittadine sono ricolme di capolavori, ma questo nulla toglie (o aggiunge) ai dipinti di Vermeer, Rembrandt, Steen, de Hooch e Frans Hals che sono in mostra. Semmai, dovrebbe caricare di ulteriore responsabilità chi quei capolavori della pittura emiliana li amministra ogni giorno e non riesce in alcun modo a renderli attrattivi per il grande pubblico.

Nemmeno la posizione, seppur decisamente più logica e moderata, di chi invita a compiere un viaggio in Olanda per assorbire appieno la cultura che ha generato quei capolavori ci pare condivisibile (http://www.huffingtonpost.it/2014/01/30/vermeer-bologna-daverio-_n_4694857.html). È ovvio che, se possibile, un'opera d'arte va sempre goduta nel suo ambiente naturale. Ma, quando motivi economici o contingenze specifiche non lo rendono possibile, la visione durante una mostra itinerante è sempre meglio che l'osservazione attraverso uno schermo o un'immagine stampata, sempre e comunque in qualche misura falsante. Chiunque si occupi d'arte per passione e/o professione lo sa: l'effetto di un'opera d'arte dal vivo non è quasi mai lo stesso che si ottiene da una riproduzione, nè a livello sensoriale, nè a livello intellettuale.

HALS_007m(1)Poi c'è il grande "problema" dell'operazione commerciale, di cui sarebbe colpevole Goldin, che - ironia della sorte - proprio questa volta offre al pubblico un pacchetto unitario, diretto e semplice. Nessun carrozzone dell'arte stile "dalla Venere di Willendorf a Andy Warhol", ma solo ed esclusivamente opere olandesi del '600, con un intento finanche troppo specialistico ed inaspettato da parte del creatore di tante mostre blockbuster.
La colpa? Aver iper-commercializzato l'immagine del dipinto di Vermeer, già famoso di suo per un libro dal gusto molto popolare e per un film abilmente ruffiano e, dunque, di grande successo. Si imputa che la mostra avrebbe dovuto chiamarsi "da Pieter Claesz a Carel Fabritius" per essere un prodotto onesto. Ma, francamente, le dinamiche del mondo contemporaneo rendono possibile sfuggire alle logiche mediatiche e commerciali in cui sguazziamo? La colpa, allora, più che di Goldin che cavalca un sistema per ottenerne il massimo, è della "grammatica" che parla il mondo contemporaneo, fatto di slogan, ostentate emozioni visive, grandi verità accennate senza impegno, viralità da social network: in sostanza, di fruizione senza mediazione né meditazione. Ed è in questo che la mostra denuncia un problema macroscopico e irrisolvibile: lo scollamento tra un mondo intellettuale (globale) ed un pubblico di fruitori (globale anch'esso).

Verrebbe quasi da citare parole ripetute anche recentemente nel dibattito politico. Mentre in accademia, in università e nei corridoi delle sovrintendenze si discute e ci si indigna per questi ed altri fatti, fuori c'è un mondo di visitatori di mostre che nulla conosce e nulla vuole conoscere di questi stessi dibattiti, essendo diventato ormai opinionista di se stesso, più autonomo, certo, e anche più indifeso.

FABRITIUS_001mE dei magnifici dipinti della mostra, di cui si lamentava proprio l'esser stati messi in disparte rispetto alle polemiche? Resta che ora, in Italia, c'è un campione della più grande collezione di pittura olandese dopo quella del Rijksmuseum, un evento paragonabile ad una trasferta all'estero di un pezzo degli Uffizi: imperdibile per qualsiasi amatore.
L'occasione è fondamentale per godere di una pittura che in Italia è scarsa nelle collezioni pubbliche, anche per la sua radicale e totale differenza rispetto al '600 italiano: un'arte, quella olandese, quasi materialista, laica, borghese, commerciale, ma anche vitale, di spiazzante sincerità, entusiasta per ogni aspetto dell'esistenza. Con un pò di sforzo, la mostra offre così la possibilità di vedere la differenza rispetto alla pittura fiamminga (che spesso per noi italiani è la stessa cosa) e quella violenza d'impatto che, per un'amatore dell'arte italiana, può risultare finanche fastidiosa, ma certamente istruttiva.
Se il '600 è stato chiamato il "Secolo d'Oro d'Olanda" un motivo c'è e non è (solo) per i quadri di Vermeer. Al centro di questa pittura c'è la vita, senza filtri, presa nelle sue gioie e nei suoi dolori, senza menzogne e senza idealizzazioni. Concetti, questi, che entrano nella memoria genetica di un popolo e che suonano come una provocazione per l'arte italiana e per chi si occupa di quest'ultima: ma è dall'accettazione della verità così come essa è che può arrivare un cambiamento, non dalla sua idealizzazione.
Massimiliano Caretto, 15/03/2014