Oltre al manualistico e scontato (ma spettacolare) confronto tra l’Olympia del 1865 e la tizianesca Venere di Urbino (1538), affiancato da altri paragoni un po’ forzati, le opere in mostra seguono lo svolgersi della carriera di Manet, attraverso i suoi tre viaggi in Italia: il primo nel 1853, in occasione di un tour europeo del giovane pittore, durante il quale toccò anche Venezia e Firenze e forse Roma; poi il ritorno a Firenze tra ottobre e dicembre 1857; e infine nel 1874 nella sola Venezia.
La mostra ha proprio l’intento di valutare l’influenza che l’arte italiana ha esercitato sul pittore. I primi due viaggi si collocano infatti nel periodo di formazione anteriore al debutto di Manet al Salon (1861) e alla scandalosa affermazione del Dejeuner sur l’herbe (1863) e dell’Olympia. Sono quindi viaggi cruciali per la definizione di quella rivoluzione tecnica che si riconosce all’artista, con l’abbandono del disegno, del chiaroscuro e della prospettiva, insomma delle basi della formazione accademica di un pittore.
Dalle opere esposte nelle sale di palazzo Ducale emerge chiaramente l’influenza della pittura italiana, soprattutto del Cinquecento, sulla formazione di Manet. Un’influenza peraltro non nuova alla data dei primi viaggi in Italia, dal momento che era dal 1850 che il diciottenne Édouard poteva copiare i dipinti italiani del Louvre. Ma questa mostra ha il pregio di sottolineare come la pittura italiana abbia un ruolo probabilmente più determinante di quella spagnola nell’evoluzione di Manet. Fino a oggi, infatti, come denunciato dai curatori della mostra Gabriella Belli e Guy Cogeval, prevaleva l’idea che per l’evoluzione formale dell’artista fossero stati determinanti i modelli di Velazquez, Ribera e Goya, secondo una lettura critica “ispanofila” avviata da Baudelaire, Zola e Malraux, la cui autorità non è mai stata messa in discussione, così come non è mai stata messa in discussione la loro tendenza sciovinista a negare il rapporto con l’Italia, patria di un classicismo ben lontano dai caratteri nazionali francesi che stavano istradando la pittura transalpina verso la modernità.
Ecco allora che, al contrario, le copie al tratto presenti in mostra denunciano l’interesse di Manet per la pittura italiana: sono state realizzate soprattutto durante il soggiorno fiorentino del 1857 e costituiscono circa un quinto dell’intera produzione grafica del pittore; ecco inoltre le copie dell’Autoritratto di Tintoretto e della Venere del Pardo al Louvre, o della Venere di Urbino degli Uffizi, o ancora le numerose derivazioni, anche parziali e soprattutto iconografiche, da opere di Andrea del Sarto, Tiziano, Tintoretto, Raffaello, Annibale Carracci…
Questo rapporto con l’Italia è ben documentato dalla mostra e conferma quanto, anche a livello di manuali scolastici da noi si diceva già da qualche tempo. Ma si tratta dell’interesse di un giovane pittore per un’Italia, del passato si badi bene, che intorno alla metà dell’Ottocento godeva in Francia di un prestigio assoluto, come testimoniato non solo dal perdurare della validità del modello presso gli ambienti accademici, o da numerose vicende di collezionismo, ma anche dalle testimonianze letterarie avviate da una visione romantica alla Stendhal, e confermate anche dai fratelli de Goncourt e dal loro viaggio in Italia del 1855-1856.
Ma, se dal catalogo della mostra emerge esclusivamente questa Italia, dalle opere esposte vien fuori qualcosa di diverso, che trasforma il rapporto di Manet con il nostro paese in un processo più articolato di avvicinamento a quel che poteva vedere dalle nostre parti. Nelle opere della fine degli anni Cinquanta o dei primissimi Sessanta, Manet va sviluppando quella pittura senza chiaroscuro che diventerà la sua cifra più innovativa e che lo avvicinerà a posteriori al gruppo degli impressionisti. E nelle opere di questo periodo (alcune delle quali esposte in mostra), come il Ritratto di M. e M.me Manet (1860) dell’Orsay, o la Femme à la cruche (1860) dell’Ordrupgaard di Copenhagen o ancora il Bevitore d’assenzio (1858) della Ny Calsberg Glyptothek sempre di Copenhagen, così come in alcuni paesaggi di questo stesso periodo, qualcosa ricorda altri possibili confronti italiani.
Quando Manet vi soggiorna nel 1857, a Firenze era infatti vivace il dibattito su quali fossero le vie lungo le quali si dovesse intraprendere la riqualificazione della pittura toscana, un dibattito che coinvolgeva dei pittori pressoché coetanei di Manet e che si giovava della conoscenza delle opere di alcuni tra i maggiori pittori francesi contemporanei presenti nella collezione del principe Demidoff, ma anche della presenza di giovani artisti provenienti da altre esperienze regionali, come Domenico Morelli o Bernardo Celentano e altri ancora che avevano avuto la possibilità di conoscere le novità straniere, come Saverio Altamura o Serafino De Tivoli. Sembra difficile credere che Manet sia rimasto estraneo ai dibattiti del Caffè Michelangelo di questo gruppo di giovani che darà vita all’esperienza macchiaiola, dal momento che li accomunava sia la ricerca della novità che consentisse di superare l’insegnamento accademico, sia anche, almeno in parte, la passione politica.
Grazie al confronto con opere contemporanee di, tra gli altri, Cabianca, Puccinelli, Fattori e Signorini, è possibile sostenere che le esperienze tecniche che porteranno alla definizione della “macchia”, all’abbandono del chiaroscuro e delle velature, possono essere state un campo di comune confronto per Manet, ben più determinante di quello, prevalentemente iconografico e compositivo, con la pittura italiana antica.
Leandro Ventura, 14/08/2013
“Manet. Ritorno a Venezia”
Fino al 1 settembre
Palazzo Ducale
Piazza San Marco, 1 30124 Venezia Telefono: 041 271 5911
Orario di apertura
9.00 – 19.00 da domenica a giovedì
9.00 – 20.00 venerdì e sabato
Didascalie immagini
1. Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538ca, olio su tela, 119 x 165cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
2. Edouard Manet, Ritratto di M.e Mme Manet, Parigi, Musee d'Orsay
3. Edouard Manet, Donna che versa l'acqua (Studio di Suzanne Leenhoff), 1858-1860ca,olio su tela, 56 x 47.2 cm, Copenhagen, Ordrupgaardsamlingen
4. Edouard Manet, Bevitore di assenzio, 1860ca, olio su tela, 181 x 106, Copenhaghen, Ny Carlsberg Glyptothek