Chiunque acquisti opere d’arte, sia egli od ella un collezionista seriale, un semplice appassionato od una persona che per la prima volta si affacci nel campo di questo investimento in denaro ed in cultura, finisce per porsi il problema della corrispondenza tra l’oggetto materiale del suo acquisto, ossia l’opera, ed il soggetto che si assume esserne autore.
È infatti noto che l’oggetto d’arte non ha un valore meramente intrinseco ed oggettivo, ossia derivante dalla sua essenza materiale, dalla sua corporeità, in quanto a questo si somma un valore derivante dalla fama dell’artista e/o dalla rarità delle sue opere. Nell’arte, insomma, le leggi del mercato (e tra queste, in primis, quelle della domanda e dell’offerta e dell’utilità marginale) trovano piena esplicazione. Questo ha fatto si che fin dall’antichità l’industria del falso artistico si sia affermata: si pensi alla falsificazione delle sculture greche in epoca romana, o del mercato di falsi pezzi di scavo che comincia ad affermarsi sin dalla fine del medioevo.
Per certi versi analogo al fenomeno della falsificazione, in quanto induca un’errata rappresentazione della citata corrispondenza tra autore ed opera, è quello dell’errata attribuzione: l’opera è di per se autentica, nel senso che non è frutto di una deliberata imitazione di un’altra opera, ma per una serie di cause viene ritenuta compiuta da un artista diverso dall’effettivo.
Sul piano storico, peraltro, la falsificazione è, come si è visto, diffusa in tutte le epoche, anche se indubbiamente si è andata accentuando negli ultimi secoli e decenni. Tra le cause dell’incremento del fenomeno, posso senz’altro citare due elementi essenziali: anzitutto, l’espansione del mercato dell’arte, che oggi ha profondamente mutato la sua essenza per raccogliere anche l’apporto di soggetti che vedono l’oggetto artistico come un investimento, anche al di là del suo valore culturale; secondariamente, la maggior facilità di imitazione delle opere, che va di pari passo con la perdita di contatto con la raffigurazione fedele della realtà (fig. 1).

Viceversa, l’errata attribuzione è fenomeno pressoché esclusivo dell’arte antica; tocca marginalmente quella moderna, ed è quasi sconosciuto nell’arte contemporanea. Il motivo è facilmente intuibile: in quest’ultima, l’artista, marginalizzata l’esigenza di raffigurazione veritiera della realtà, identifica la propria idea in un segno più o meno astratto, ma comunque peculiare e non confondibile. Sulle famose false teste di Modigliani (fig. 2) la critica si divise quanto all’autenticità, ma nessuno pose in discussione che l’alternativa fosse tra un’opera di Modigliani, o una falsa opera di Modigliani.
Dal punto di vista della storia dell’arte, si tratta dunque di due fenomeni assolutamente distinti; dal punto di vista giuridico, come vedremo, essi sono viceversa considerati sostanzialmente analoghi. E analoghi, come vedremo ora, sono i rimedi esperibili dall’acquirente.
Sulla fattispecie, per la verità, non sono numerosissimi i precedenti giurisprudenziali, mentre la dottrina (tra cui chi scrive) si era interrogata su una situazione che, effettivamente, appare meritevole di una tutela attenta delle esigenze di chi, spesso dopo un notevole impegno economico, si ritrovi a dover constatare di aver acquistato un’opera priva di valore, o comunque di valore notevolmente inferiore a quanto sperato.

Diciamo subito, allora, che i pochi precedenti in materia hanno ricondotto la fattispecie a due ipotesi alternative: annullamento del contratto per errore, e risoluzione per inadempimento del venditore. Si tratta di due fattispecie che apparentemente conducono allo stesso risultato (cessazione del vincolo contrattuale e restituzione del prezzo) ma con sfumature ed implicazioni del tutto diverse. Esaminiamo dunque l’ipotesi dell’annullamento per errore.
Le norme di riferimento, in questo caso, sono quelle degli artt. 1427 segg. c.c., che considerano annullabile il contratto quando il consenso fu dato per errore, purché questo sia essenziale (nel senso, in questo caso, che esso riguarda l’identità dell’oggetto della prestazione o una qualità dello stesso, che sia stata determinante per il consenso) e riconoscibile all’altro contraente.
Ora, sull’essenzialità ci sembra che non possano esservi dubbi: comprare un’opera attribuita ad un artista, e scoprire poi che si tratta di un falso o di opera di altro artista, incide in maniera determinante sull’identità dell’oggetto e sulla sua qualità. Per la verità, potrebbe porsi qualche problema nel caso dell’opera erroneamente attribuita, in quanto la attribuzione corretta potrebbe riferirla ad un artista altrettanto importante, o quantomeno di importanza comparabile a quello originariamente ipotizzato. A ben vedere, tuttavia, anche in questo caso l’errore potrebbe essere considerato essenziale: si pensi al caso del collezionista “monotematico” di un particolare pittore, per il quale l’opera di altro artista, anche importante, non si inserisce nella sua collezione.
Risolto dunque il problema dell’essenzialità, rimane quello della riconoscibilità; ma qui, come è intuibile, la situazione è ben più complessa. L’acquirente dovrebbe infatti dimostrare che il venditore era a conoscenza dell’errore sulla identità dell’oggetto, il che, nella maggior parte se non nella totalità dei casi, è pressoché impossibile. È vero che la norma (art. 1431 c.c.) equipara alla conoscenza la conoscibilità, ma è oggettivamente improbabile, salvi ovviamente i casi di dolo, che chi venda un’opera falsa ne conosca la falsità, o anche che chi venda un’opera di un determinato artista si renda conto che essa è in realtà stata eseguita da un altro, e che tale erronea attribuzione sia stata la causa determinante del consenso dell’acquirente.
Queste difficoltà nella configurazione della fattispecie dell’errore hanno fatto si che la giurisprudenza prevalente (ivi inclusa la più recente sentenza della Corte di Cassazione sul punto, datata 1.7.08) abbia piuttosto fatto riferimento alla risoluzione per inadempimento, per consegna di cosa radicalmente diversa da quella compravenduta (c.d. aliud pro alio). In pratica, hanno osservato i Giudici, chi acquista un’opera attribuita ad un artista, e ne riceva una di altro artista o addirittura falsa, si vede consegnare un oggetto radicalmente inidoneo a svolgere la funzione economico-sociale per la quale era stato stipulato il contratto. Anche se il paragone può suonare molto poco aulico, l’acquirente si trova in questo caso nella stessa situazione di chi, concluso un contratto per la vendita di piante di ulivo, si veda consegnare faggi o castagni.
In questo caso, a ben vedere, la costruzione giuridica della fattispecie è molto più immediata: non bisogna infatti indagare, in linea di massima, che sul contenuto dell’accordo, e sull’elemento della concreta attribuzione dell’opera ad un artista. Semmai, dovrà verificarsi se effettivamente il venditore si sia impegnato a garantire tale attribuzione: ad esempio, se egli abbia usato espressioni ambigue quali “attribuito a”, o formule più nette come “opera di”.
Se dunque la soluzione della vendita di aliud pro alio è così più agevole per chi, come l’acquirente, debba conseguire il risultato di recuperare il prezzo pagato per l’opera, perché la diversa e più gravosa soluzione dell’annullamento per errore viene spesso invocata? Il motivo risiede in un fattore spesso decisivo: quello temporale. L’azione di risoluzione per vendita di aliud pro alio, infatti, si prescrive in dieci anni, che decorrono dalla conclusione del contratto. Viceversa, quella per annullamento per errore si prescrive in cinque anni, che decorrono però dalla scoperta dell’errore (art. 1442 c.c.).
Poniamoci dunque nella prospettiva dell’acquirente: se, nel momento in cui egli scopre che l’opera non è dell’artista per il quale si era determinato all’acquisto, non sono ancora decorsi dieci anni dalla conclusione del contratto, ricorrerà senz’altro al più agevole rimedio della risoluzione; se, viceversa, i dieci anni sono già trascorsi, non avrà a quel punto altra strada che quella di tentare di chiedere l’annullamento.
Il problema è che, se l’azione di annullamento fosse quella privilegiata dalle Corti, si potrebbe arrivare a paradossi insanabili. Poniamo infatti che un mio avo, cent’anni fa, abbia acquistato un dipinto attribuito con certezza, ad esempio, al Guercino, e che io, avendolo ereditato, lo sottoponga a perizia dalla quale risulti (anche alla luce delle nuove tecniche scientifiche) che si tratta di un’opera di bottega, dal valore notevolmente inferiore. Ebbene, nei cinque anni dalla scoperta potrei allora evocare in giudizio gli eredi di colui che ha venduto l’opera al mio avo, chiedendo la restituzione del prezzo, ovviamente rivalutato.
Uno dei principi che guidano (o dovrebbero guidare) il mondo del diritto è che le soluzioni paradossali, per quanto apparentemente suffragate dalla lettera di una norma, non hanno diritto di cittadinanza. Ecco perché mi sembra di poter senz’altro affermare che, anche per tutelare un principio di stabilità delle situazioni giuridiche consolidate, il decorso del termine decennale dalla conclusione del contratto segni il limite invalicabile oltre il quale la falsità o l’erronea attribuzione non potranno più essere fatte valere.
14/02/2013
Prof. avv. Giuliano Lemme
Straordinario di Diritto dell’Economia
Università di Modena e Reggio Emilia
Lemme Avvocati associati
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