Rosella Carloni,
PALAZZO BERNINI AL CORSO. Dai Manfroni ai Bernini, storia del palazzo dal XVI al XX secolo e della raccolta di Gian Lorenzo Bernini; Campisano Editore, Roma
Quello di
Rosella Carloni non è solo un libro sulla storia di un palazzo nel centro di Roma, in realtà è molto di più; è come una sorta di specchio che riflette momenti fondamentali di storia dell’arte non solo romana e che s’inserisce in quell’indirizzo di studi a carattere interdisciplinare, incentrato nel nostro caso in particolare sul rapporto tra arte e società, con una ricerca che abbraccia interi periodi storici, dal momento che si distende dalla vigilia delle grandi iniziative urbanistiche varate nel corso del XVI secolo, fin dentro la grande stagione barocca e ben oltre, fino ai nostri giorni. Nel particolare, un notevole interesse – e lo ha colto subito
Silvia Danesi Squarzina nella sua esauriente Introduzione – ha costituito “il ritrovamento di un inedito inventario settecentesco che indica per la prima volta gli autori dei dipinti”, in forza del quale è stato possibile “grazie alla comparazione con gli inventari precedenti … comprendere il carattere della collezione Bernini”.
Ma è solo un esempio delle novità di un volume che è insieme di storia dell’arte –con un considerevole apporto di novità documentarie e di fonti iconografiche ed architettoniche- ma che s’intreccia anche con la storia della società e della cultura
latu sensu oltre che della religione e della politica, con spunti di assoluta originalità nella analisi e nella riflessione circa le ragioni che determinarono certe scelte ancorché sugli snodi cruciali da cui ebbero origine .
Va però sottolineato che il frutto di questo grande impegno non si sarebbe potuto cogliere se ad indirizzare la studiosa e poi quasi ad affiancarla, in un contatto pressoché quotidiano fatto di suggerimenti, stimoli ed incitamenti non ci fosse stato quello che possiamo considerare l’erede della grande tradizione familiare che la Carloni ha così brillantemente ricostruito, cioè il dott.
Fabiano Forti Bernini connoisseur, collezionista e grande appassionato d’arte, che ha fortemente voluto la realizzazione di quest’opera concepita proprio per tramandare l’orgoglio di una così prestigiosa appartenenza nonché della residenza dei suoi avi .
Un rimarchevole lavoro di archivio ha consentito all’autrice di ripercorrere il progressivo sviluppo del palazzo Bernini in senso artistico e architettonico, tenendo sempre ben presente in quale ambito contestuale ci si poneva, a cominciare dal ruolo giocato dai vari committenti, oltre che dalle maestranze di vario livello alternatesi nei lavori nel corso di oltre due secoli, laddove i pareri ed i diversi criteri compositivi, per così dire, andavano a porsi obbligatoriamente entro coordinate politico religiose spesso imprescindibili che, sia pure senza approfondirle -ma non era questo il suo compito- la Carloni tuttavia non ha taciuto, non tralasciando le questioni con cui dovettero confrontarsi non solo i proprietari ma anche i blasonati inquilini, quali fossero le ambizioni comuni e le aspirazioni che nascevano da determinati presupposti ideali, nonché le eredità che lasciavano: contesti ed immagini insomma i cui nessi vengono ricostruiti con molto acume, presentando alla fine un risultato davvero unico oltre che molto significativo.
.jpg)
Possiamo affermare che l’autrice ha affrontato questo argomento secondo una prospettiva che
Giovanni Previtali avrebbe definito di “storia totale”, cioè interna all’ampio ambito della interdipendenza tra fattori storici, religiosi, economico-sociali, culturali e fenomeni artistici, che non sempre trova il favore degli studiosi di storia dell’arte, mentre a nostro parere non se ne dovrebbe prescindere, specie quando è necessario valutare il ruolo delle varie personalità che intervengono all’interno di una complessa vicenda. Non è questa ovviamente la sede per approfondire il tema, e tuttavia a leggere il volume della Carloni di figure di questo tipo – uomini di chiesa, artisti, collezionisti, intellettuali, uomini d’affari- ne compaiono davvero molte.
Per quel che concerne l’ambiente curiale, ad esempio –che, come appare bene dalla ricostruzione della studiosa, i proprietari che si alternarono all’interno del palazzo frequentavano e conoscevano assai bene- nonostante si siano fatti molti passi avanti con le aperture di determinati archivi, dopo decenni ed anzi secoli di silenzio, restano tuttavia ancora molte questioni aperte, come quella relativa alle influenze ed alle mediazioni che possono essere scaturite nel caso di certe scelte compositive tanto in pittura che in scultura che in architettura.
Per fare un esempio molto concreto, risalente proprio al periodo in cui il palazzo poi passato ai Bernini si veniva configurando nelle sue iniziali strutture, nessuno è ancora riuscito a chiarire in via risolutiva i motivi di certe scelte figurative operate da
Michelangelo nella Cappella Paolina dove, com’è noto, venne chiamato ad affrescare le due pareti laterali con le storie di Pietro e Paolo, i principi degli apostoli. Ma anche per quanto concerne un’opera più interna al tema che stiamo affrontando, cioè la famosissima Fontana dei Fiumi del
Bernini (della quale avremo modo di riparlare) l’enigma di alcuni dettagli compositivi presenti nel modello ma non nel lavoro finito, aspetta ancora spiegazioni soddisfacenti. Il modello, oggi in collezione Fabiano Forti Bernini, "originale fatto dal Cavalier Gio Lorenzo Bernini -come recita il documento pubblicato dalla Carloni nell'
Appendice documentaria, nel paragrafo dedicato a
I Bernini e le loro collezioni dal XVIII al XIX secolo- il quale è servito per fare la fontana grande di Piazza Navona che rappresenta li quattro fiumi con l'Obelisco tutta opera tratta di stucco dorata con piedi e fogliami dorati", presenta splendide decorazioni che connotano ciascun fiume ma che poi nell'opera marmorea non vennero ripetute. Non sono questi certamente gli unici quesiti che la storia ci propone; ed è più che probabile che certe scelte iconografiche fuori dagli schemi usuali, in realtà siano la spia di quanto dovessero essere state impegnative le discussioni tra committenza e artisti tanto straordinari.
.jpg)
Questa considerazione solo apparentemente deraglia dal tema che ci siamo assegnati recensendo questo volume, dal momento che ci conduce alla controversa questione del significato e del ruolo delle immagini e che affiora anche nella ricerca effettuata dalla Carloni, né poteva essere altrimenti considerando che qui si prende in esame un palazzo romano di grande prestigio. La studiosa ripercorre davvero esaurientemente tutte le tappe della sua complessa costruzione, chi ne fu partecipe, chi protagonista. Come scrive nella Premessa “furono
Annibale e Claudio Lippi con la consulenza di
Jacopino del Conte a completare la costruzione della loro casa trasformandola in un vero e proprio palazzo nobiliare”, ed in effetti, alla fine degli anni ottanta del Cinquecento “il complesso edilizio comprendeva due corpi funzionali: un vero e proprio palazzo dotato di tutti i
comforts dell’epoca, che svolgeva la funzione di residenza, ed un altro insediamento edilizio formato da casette e botteghe, da utilizzare come fonti di rendita”. Sappiamo che i due Lippi erano figli di
Giovanni,
alias Nanni di Baccio Bigio, a suo tempo architetto di gran prestigio, il quale, insieme al collega
Giovanni Boccalini, aveva avuto in concessione un terreno di proprietà del convento di san Lorenzo in Lucina. Ma prima di entrare in tema e procedere con gli ulteriori cambi di proprietà e le successive trasformazioni operate dai proprietari neoentranti, occorre dar conto di come queste opere si collegassero al resto delle trasformazioni e dei cambiamenti che si venivano realizzando in campo edilizio nella capitale pontificia, che sotto questo aspetto scontava ancora le terribili distruzioni subite con il Sacco del ’27 e con gli altri cataclismi successivamente intervenuti.
Si sa che la città passata la metà del secolo presentava un volto urbanistico ancora assai frammentato, come dimostrano i molti ed approfonditi studi che ne hanno dato conto. Da questi sappiamo infatti che entro le mura aureliane, ancora agli inizi degli anni settanta del XVI secolo, perfino meno della metà delle aree abitabili erano effettivamente inurbate con abitazioni o attività economiche di qualche tipo, il resto era a pascolo o peggio ancora incolto e fangoso, quasi come l’area dei sette colli, che presentava una situazione di semiabbandono. La popolazione romana, ridotta a poche decine di migliaia di residenti, si era andata stabilizzando a ridosso della riva sinistra del Tevere, dove si ammucchiavano casette, botteghe artigiane, portici, scalinate. Le poche strade in cui resisteva una specie di pavimentazione erano quelle a ridosso del Tevere, soprattutto nella zona del porto di Ripetta, il cuore commerciale della città, dove attraccavano imbarcazioni di piccolo cabotaggio e, non distante, sulle banchine di Ripa Grande altre di grande tonnellaggio con merci di ogni tipo. Qui si svolgeva il grosso del traffico mercantile, con navi che arrivavano da Civitavecchia dopo aver attraversato il Mediterraneo, o dalla Francia, o dalla Sardegna e dalla Sicilia, oltre che dall’ Oceano Atlantico. Poi al calar della notte, la zona diveniva un autentico ricettacolo di criminali e prostitute, una vera zona franca dove si scatenavano molto spesso risse mortali con i corpi dei soccombenti che scomparivano inghiottiti dalle acque del Tevere e dalle tenebre e che quasi mai qualcuno veniva a denunciare.
E’ proprio qui che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 1497 venne ripescato il corpo di
Juan Borgia, duca di Gandia, uno dei figli –si dice fosse il prediletto- del
papa Alessandro VI, ritrovato, secondo un dispaccio dell’ambasciatore veneziano
Giovan Carlo Scalona: ”involto in un saco cum la gola tagliata et li brasi et cosse ferite in li pessetti mortalmente. E’ gitato in lo loco dove se gitano li letami a Roma, da quello canto”. Il crimine secondo
Guicciardini era opera di
Cesare Borgia che aveva fatto “scannare il fratello” convinto che “avesse più parte di lui nell’amore di madonna Lucrezia … cui concorreva eziandio il padre”, ma il dilemma in verità non è mai stato adeguatamente sciolto; ciò che è certo è che la realtà malavitosa rendeva quella zona impraticabile.
E tuttavia il tempo delle grandi trasformazioni era alle porte, ed anzi un forte insediamento edilizio si venne realizzando giusto tra il Tevere e via del Corso, con costruzioni –tra cui il palazzo poi passato ai Bernini- che crescevano entro il Mausoleo di Augusto e la piazza del Popolo. Ricorda la Carloni che proprio da quelle parti tra il 1535 e il 1551 “la configurazione del Tridente (costituito dalle odierne via Ripetta, del Corso e del Babuino) contribuì infine a dare un assetto regolare a tutta l’area”; grazie a
Leone X, Clemente VII e
Paolo III si determinò il radicale mutamento di questa parte dell’Urbe, ma fu poi sotto
Pio IV –come hanno scritto
M. Fagiolo e
M.L. Madonna- che si iniziò in modo sistematico a modificare lo spazio urbano secondo le esigenze di una capitale fin lì sviluppatasi disorganicamente. (cfr
La Roma di Pio IV: il sistema dei centri direzionali e la riformulazione della città, in “Arte Illustrata”, VI, 1973).
Con il Medici di Marignano, salito al soglio pontificio nel 1559, in effetti presero il via numerosi progetti edilizi, tra cui l’intervento sul prospetto esterno della Porta del Popolo che –come ricorda ancora Rosella Carloni- venne affidato proprio a Nanni di Baccio Bigio.
.jpg)
Si dice che il Medici amasse molto camminare, forse per recuperare il tempo che la gotta di cui soffriva gli sottraeva obbligandolo al riposo forzato, ma fors’anche per gettare direttamente lo sguardo ai numerosi cantieri che su sua diretta iniziativa stavano trasformando la città, correndo a volte molti rischi, come quando si era “arrampicato sopra certi ponti che non sono anco molto sicuri, et dove tuttavia cascano pietre et altre cose da muri”.
Tra le altre cose occorre sottolineare che le iniziative di Pio IV non solo investivano la cantieristica e le costruzioni, ma erano anche tese a favorire il ripopolamento di queste ed altre aree urbane, tramite la concessione di grossi sconti fiscali, diritti di esproprio, obbligo di alienare le costruzioni fatiscenti, ecc. Quello fu anche un periodo d’oro per antiquari, collezionisti, restauratori, oltre che per rigattieri, speculatori e ciarlatani vari dato che le numerose licenze edilizie consentivano operazioni di scavo anche molto spregiudicate i cui esiti erano seguiti da vicino da collezionisti di alto lignaggio, tra cui molti cardinali:
Alessandro Farnese,
Cristoforo Madruzzo,
Rodolfo Pio ed altri ancora. Le pagine che
Elena Bonora ha dedicato a questo periodo non lasciano dubbi “… emerge l’immagine di una città che si sviluppa e si rinnova utilizzando i resti del passato trovati nel sottosuolo”. E, per inciso, va detto che fu proprio una polizza con licenza di scavo trovata in tasca ad
Antonio Canossa (un discendente decaduto della nobile casata della
contessa Matilde) a costituire la prova provata della sua appartenenza alla congiura per assassinare Pio IV che portò in quegli stessi anni lui e
Benedetto Accolti, l’ ideatore della trama, sotto la scure del boia nonostante questi fosse il figlio illegittimo del
cardinale d’Ancona (per tutti questi aspetti, cfr E. Bonora,
Roma 1564. La congiura contro il Papa. Roma-Bari, 2011).
Non risulta, o quanto meno ancora non sappiamo se i proprietari del palazzo al Corso amassero i reperti archeologici, ma è un fatto che un protetto del cardinale Rodolfo Pio, noto collezionista, fosse proprio
Giovanni Boccalini, l’altro architetto che abbiamo visto proprietario del terreno del convento insieme al Lippi. E la circostanza che il terreno fosse nelle mani di due architetti “ci fa capire – sottolinea la Carloni- il valore economico e la previsione di un ulteriore accrescimento del capitale in vista della progressiva urbanizzazione dell’area”. In un contesto del genere si svilupparono le vicende edilizie di “due distinte costruzioni”;
Lippi e Boccalini avevano scelto un terreno che fosse idoneo ad edificare “residenze adeguate alle loro esigenze … è probabile che gli stessi proprietari ne progettassero le strutture …”. E il ritrovamento di un documento inedito allegato all’atto notarile del censo ha consentito all’autrice di ricostruire in modo esemplare “la successione degli interventi architettonici sul palazzo” un tempo attribuiti solo a Claudio Lippi. Il lettore avrà agio di seguirne le varie trasformazioni, collegate ai trasferimenti di proprietà, nonché l’avvicendarsi tra gli inquilini del palazzo di personalità di alto rilievo nella Roma del tempo, dal giurista
Prospero Farinacci, a
Pietro Cussida, rappresentante del re di Spagna, grande collezionista e committente di dipinti caravaggeschi, come quelli che fece realizzare agli olandesi
Dirk van Baburen e
David de Haen, per la cappella
.jpg)
detta della Pietà e ancora in situ a san Pietro in Montorio. Alla morte del diplomatico, cui seguì quasi dappresso quella del figlio ed erede Giovan Francesco, i beni passarono alla moglie di questi,
Maria Gavotti e poi toccò al fratello di quest’ultima gestire il notevole patrimonio, tra cui spiccava proprio il palazzo al Corso che era stato alienato dai figli di
Laura Lippi, unica erede della casata fiorentina dopo la scomparsa del fratello Claudio.
Pochi anni più tardi, nel 1627, sarà
Antonio Manfroni ad acquisire la residenza, ma qui, come scrive la Carloni “ si apre una nuova stagione. … La famiglia Manfroni infatti rivestirà un ruolo determinante per la configurazione dell’edificio nel corso di ben due secoli. I suoi esponenti lo ampliarono accorpando le due costruzioni confinanti … trasformandolo in un imponente palazzo degno del loro nome”. Vale dunque soffermarsi su questa casata e precisare bene il ruolo che ricoprì come proprietaria dell’immobile.
Chi erano i Manfroni ? E come ebbero agio di farsi strada presso la Curia e nella Roma del tempo? Certamente un ruolo determinante nell’ascesa e nella fortuna del capo famiglia Antonio ebbero in primo luogo “l’appoggio che ricevette dal cardinal
Anton Maria Sauli” nonché “i due matrimoni che contrasse con donne appartenenti alle famiglie di facoltosi banchieri, quali erano i
Ceuli e i
Dal Palagio”, che non mancavano a loro volta di appoggi e protezioni ecclesiastiche in ragione delle larghissime potenzialità economiche su cui potevano far conto.
Curzio Ceuli ad esempio rivestì la carica di “operaio” (oggi diremmo Presidente) dell’Opera del Duomo di Pisa e fu committente di importanti pale ancora ben visibili nella Primaziale della città toscana.
Ma proprio considerando quanto fossero decisive le entrature e le amicizie che si contraevano e che chiunque –non solo i Lippi, o i Ceuli, o i Manfroni, o i Gavotti- aspirasse a scalare i gradini sociali ambiva esibire tra le mura vaticane, è necessario soffermarsi -per quanto possibile in questa sede- su questo aspetto, richiamando un paio di episodi già fatti oggetto di indagine storiografica ed avvenuti in questo periodo più o meno in contemporanea, ma il cui esito, del tutto contrastante, ci dà piena testimonianza di cosa significasse allora godere o meno di favori e protezioni all’interno della curia.
Siamo negli anni del pontificato di
Urbano VIII Barberini salito sulla cattedra di san Pietro nel 1623 e restatovi per più di un ventennio (1644). E’ cosa nota come il pontefice fosse sospettoso per natura e diffidasse di molti dei cardinali residenti nella curia, specie di quelli provenienti da casate di grande nobiltà, soprattutto perché proprio da questi ambienti con tutta probabilità si convinse fossero state diramate a bella posta appena dopo la sua nomina certe fosche previsioni relative ad una sua prossima scomparsa. Per questo e per il fatto di essere superstizioso quanto altri mai, egli aveva emanato la bolla
Inscrutabili judiciorum con la quale veniva ratificata la possibile condanna di ‘lesa maestà divina e umana’ verso chi “in qualsiasi forma” avesse attentato “anche indirettamente” alla persona del papa :”Fu proibita anche la profezia, nella forma diffusissima della predizione della durata del pontificato”, cosicché –ha scritto
Adriano Prosperi- “fare previsioni sulla vita e sulla morte del papa e dei suoi consanguinei fino al terzo grado di parentela fu considerato degno della pena di morte” (cfr. A. Prosperi ,
L’Arsenale degli inquisitori, in A. A. Cavarra (a cura di),
Inquisizione e Indice nei secoli XVI – XVIII. Controversie teologiche dalle raccolte casanatensi, Vigevano (Pv), 1998 (?)
Ma ciò nonostante, sempre in ragione di queste preoccupazioni, il Pontefice non si era mostrato alieno –e la cosa è altrettanto nota- dalle frequentazioni astrologiche, arrivando in qualche modo a considerare con molto favore certi maneggi alchemici di
Tommaso Campanella :”Il papa … tutto il giorno domanda d’un Padre Campanella valorosissimo e singolare nell’Astrologia et in molt ’altre scienze -scriveva l’Ambasciatore toscano a Roma nell’estate del 1628- ma perché viene ritenuto dal S. Offitio per imbarazzi di cose simili, non trova modo con reputazione di farselo venire attorno”; ciò nonostante, concludeva la nota del diplomatico: “La voglia d’haverlo è estrema, e si crede che s’andrà cercando qualche temperamento per farselo venire in camera” (le citazioni in F. Rangoni Gal,
Fra’ Desiderio Scaglia Cardinale di Cremona. Un collezionista inquisitore nella Roma del Seicento, Como, 2008).
Il domenicano calabrese dal canto suo, che più di una volta era incappato nei rigori della Inquisizione a causa dei suoi libri, reduce peraltro da più di due decenni di prigione e sempre dovendo sottostare a censure e torture seguite da scarcerazioni e mezze riabilitazioni, aveva tutto l’interesse a mostrarsi pronto a ridimensionare le ansie del pontefice, a favore del quale infatti si sa che compì vere e proprie pratiche astrologiche; inoltre, nel pieno montare di quella che è stata definita la “campagna astrologica contro Urbano VIII”, diede alle stampe nel 1626 in forma anonima un libro sull’argomento (cfr. M. Slawisnki,
Marino, le streghe e il cardinale, in “Italian Studies”, vol. LIV, 1999).
Il frate di Stilo insomma riuscì in vario modo ad accattivarsi i favori del Barberini al punto che, ancora chiamato dal Sant’Uffizio a rispondere di opere ritenute in odore di eresia, venne infine prosciolto e nel 1629 nominato maestro di teologia del Capitolo generale dell’ordine dei domenicani, e infine, sempre grazie alla malleveria dei Barberini, poté emigrare a Parigi dove morì nel 1639.
Anche
Marcantonio De Dominis venne più volte indagato dall’Inquisizione nonostante fosse arcivescovo di Spalato; le sue idee sulla riforma della chiesa infatti lo avevano portato prima verso le posizioni di
Paolo Sarpi e successivamente nel 1617 addirittura a rifugiarsi a Londra, dove pubblicò violenti libelli antipapali e anticattolici e dove infine decise di aderire all’anglicanesimo, da cui però si staccò ben presto, tanto che, approfittando nel 1622 della elezione al pontificato di
Gregorio XV Ludovisi, con la famiglia del quale, in particolare con il
cardinal nepote Ludovico Ludovisi, era stato in stretta amicizia, nonostante l’ira di Giacomo I e le reazioni scandalizzate che provocò oltremanica il suo capovolgimento di fronte (per il quale verrà ridicolizzato fin dopo la morte), decise di ripresentarsi a Roma.
Narrano le cronache, che comparve affranto in San Pietro prostrandosi in ginocchio davanti al Papa con una corda stretta intorno al collo. Ma il favore accordatogli dai Ludovisi, le prebende garantitagli dal pontefice e le pubblicazioni con cui ritrattava tutte le precedenti invettive contro la chiesa romana scagliandole stavolta verso gli anglicani, non gli valsero a scansare i rigori inquisitoriali. Alla morte di papa Ludovisi infatti la salita al soglio pontificio di
Urbano VIII, al contrario di quanto era accaduto a Campanella, segnò la sua rovina. Mentre il pontefice lo privava di ogni beneficio, il sant’Uffizio istituì una nuova pratica sul suo conto additandolo come ‘relapso’, un’accusa che portava dritti sul patibolo. Rinchiuso in Castel Sant’Angelo vi trovò la morte per cause naturali nel settembre del 1624, ma la istruttoria non si arrestò e due mesi dopo, allocata la bara nella chiesa di santa Maria sopra Minerva, fu pronunciata la sentenza di condanna al rogo. Come si usava in queste sinistre circostanze, il cadavere putrescente venne trascinato per le strade della città fino a Campo de’ Fiori e qui dato alle fiamme con i suoi libri, alla presenza dell’inquisitore; e nonostante che, a quanto pare, il De Dominis avesse “abiurato sul letto di morte” (Slawinski, cit) , Urbano VIII decise comunque che occorreva farne un esempio, ordinando che le ceneri venissero gettate nel Tevere nel lugubre rito della
damnatio memoriae .
Nulla di tutto ciò per loro fortuna capitò ai Manfroni: nessuno dei componenti della famiglia infatti – almeno a quanto se ne sa- appare neppure lontanamente sfiorato da quanto accadeva in ambito strettamente politico-religioso, nessuno pare essersi compromesso in qualche modo nei molti e per tanti versi straordinari episodi, scaturiti
in primis dal conflitto tra
Francia, Spagna e Impero, le grandi potenze di fede cattolica che si disputavano il primato, che caratterizzarono l’intero Seicento ridisegnando in grande misura l’assetto politico-sociale dell’intera Europa e che videro spesso la curia al centro quanto meno diplomaticamente,. Il motivo è che Antonio evidentemente aveva capito alla perfezione come andavano le cose in quel mondo e seppe sempre mostrarsi particolarmente scaltro ed accorto nell’allargare la cerchia delle sue conoscenze ed amicizie fra i potenti, sfruttando molto acutamente la particolare protezione del cardinale Sauli, di cui divenne ben presto l’uomo di fiducia, e dal quale fu spesso fatto segno di beneficenze e donazioni. La Carloni cita tra le altre cose “una vigna fuori Porta Pinciana” dove venne edificato “un delizioso fabbricato oggi conosciuto come Casina delle rose”, con “decorazioni di
Tarquinio Ligustri e stemmi Sauli e Manfroni” , e poi ancora vigne, terreni, rendite fondiarie ecc.
Sempre grazie ad altrettanto determinanti ‘appoggi’, quali quelli del
cardinale Peretti Montalto e del
marchese Riario Sforza, Antonio Manfroni riuscì anche a superare indenne alcune operazioni non andate a buon fine, nonché le critiche per una relazione sentimentale con la ricca vedova
Ginevra Del Palagio mentre ancora era in vita, ancorché malata, la moglie
Costanza Ceuli, ragion per cui venne considerato bigamo. Ne esce insomma il ritratto di un personaggio che non si muove a caso, anzi piuttosto spregiudicatamente nel raggiungere i suoi scopi. Secondo alcune voci furono proprio certe sue leggerezze che costituirono un handicap determinante per il suo protettore Anton Maria Sauli, arrivato dopo la scomparsa di
Gregorio XV come papabile nel conclave che vide l’affermazione di
Maffeo Barberini. Ma per il Manfroni questo evento non segnò affatto l’inizio della fine come invece accadde al malcapitato De Dominis, al contrario; nonostante egli “gravitasse nell’orbita dei Peretti-Ludovisi”, casate non proprio allineate ai Barberini, la sua condizione di privilegiato non mutò, ed anzi venne a rafforzarsi ancor più con la morte del cardinale Sauli che lo aveva designato erede come “antiquum fidelissimi familiari”.
Per avere un’idea della sua ricchezza basta la nota del Governatore di Roma del settembre del 1623 in cui si elencavano gli oggetti preziosi rubati nella sua casa per un valore di quindicimila scudi, “un cifra da capogiro per quei tempi” commenta la Carloni.
L’autrice non ha indagato i motivi di questa così particolare predilezione o simpatia di cui Manfroni poté godere da parte del Sauli, se non, come dicevamo, in ragione della sua particolare acutezza ed abilità nel crearsi appoggi ed amicizie altisonanti, sfruttando ogni circostanza, ad esempio i battesimi della sua prole: padrini della figlia Anna Maria furono infatti il
cardinale Lorenzo Magalotti e la
principessa Camilla Orsini, mentre quando nacque il figlio Giovanni Battista “scelse con lucido tempismo uno degli uomini più potenti di Roma, il
cardinale Francesco Barberini, fratello di Maffeo … madrina invece fu
Gesualda Ludovisi che è da identificare con la giovane e ricchissima Isabella Gesualdo … che nel 1622 aveva sposato
Niccolò Ludovisi, nipote di Gregorio XV e fratello del cardinal nepote Ludovico”.
Era ovvio a questo punto, che il possesso di una residenza di assoluto prestigio sarebbe stata per il Manfroni la testimonianza decisiva dell’avvenuta ascesa sociale. Possedere ed anche poter esibire i frutti della propria ricchezza, assumeva infatti in quei contesti un valore più che simbolico, era un segno di distinzione che indicava il raggiunto carisma della famiglia di fronte alle altre casate patrizie. La logica insomma, e non solo dei Manfroni, era precisamente quella di trovare legittimazione al peso che si voleva acquisire o rivendicare ora, nella capitale del Cattolicesimo; così nel novembre 1627 Manfroni acquistò per 20.500 scudi, il “palazzo situato al Corso”. L’esborso era altissimo ma a ben vedere rientrava in un’operazione accorta ed oculata di gestione di un patrimonio tanto ingente, dal momento che consentiva da un lato di esibire il proprio status sociale, dall’altro di tutelare e valorizzare il capitale in una congiuntura economica per nulla promettente.
Ed osservando come andavano le cose sotto questo versante, infatti, si ha la conferma dell’acume con cui il Manfroni andava imponendosi. Nel trentennio che precedette il 1590 il mercato edilizio romano si era configurato come autentico volano delle finanze dello Stato della Chiesa grazie al notevole volume di affari che si veniva registrando, ma a partire da quella data le cose presero un'altra strada e la compravendita di immobili andò via via scemando fino a segnare un’autentica caduta nel decennio 1620 -30, cioè a dire proprio nel periodo dell’ascesa della famiglia Manfroni.
.jpg)
I motivi erano numerosi; non va dimenticato per cominciare quale fosse la situazione internazionale, e cioè che in tutti quegli anni la
Francia e i Paesi Bassi furono sconvolti dalle guerre di religione seguite all’insorgere del protestantesimo e che queste attanagliarono anche le terre tedesche devastate dalla
Guerra dei Trent’anni, la quale, pur non coinvolgendo direttamente il territorio pontificio, impegnava comunque le ristrette finanze vaticane. Inoltre, sempre incombenti rimasero epidemie e pestilenze, come quella che sul finire del ‘500 aveva ridotto in modo consistente la popolazione romana e dell’intero stato ecclesiastico, spopolando le campagne e provocando una terribile carestia. Basti pensare che nel corso del suo pur brevissimo pontificato durato poco più di un mese (luglio –dicembre 1591),
Innocenzo IX Medici dovette abolire le tasse istituite dal predecessore
Sisto V, decidere l’abbassamento dei costi di tutte le derrate alimentari ed ordinare di radunare a Roma l’intero ammontare di grano esistente nello stato.
Questa misura, insieme al costante calo di manodopera occupata nel lavoro dei campi, ulteriormente falcidiata dalla peste, comportò un netto aumento del prezzo del grano, mettendo letteralmente in ginocchio l’unico settore –insieme a quello dell’edilizia- attivo a livello d’imprenditoria. In altre parole, a partire dagli ultimi anni del Cinquecento –che registrano statisticamente il maggior numero di contrattazioni immobiliari- e fino al 1620 si inizia a percepire il segnale di come i beni immobili venissero considerati una sorta di ancora di salvezza a fronte della crisi del sistema creditizio. Come è stato scritto: ”Nella generale crisi dell’attività creditizia e nell’acuta svalutazione della moneta la terra appare come l’unico investimento e la garanzia più sicura … Né può certo dirsi che (il fenomeno) in se stesso fosse nuovo, anzi era vecchio di quasi due secoli. Ciò che era profondamente diverso era l’ambiente generale nel quale adesso il fenomeno avveniva”, (Cfr. G. Carocci,
Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del secolo XVI, Mi, 1971). Un ambiente, va aggiunto, che scontava ora la completa defaillance delle attività mobiliari; in buona sostanza, a partire dal 1590 a Roma “decade più che la struttura produttiva che non esisteva, il sistema di accumulazione dei capitali fondato da un lato sul monopolio produzione agricola-rifornimento annonario, dall’altro sulle rendite degli appalti dei pubblici uffici dai quali imprenditori, mercanti, banchieri un po’ tutti ricavavano la maggior parte dei loro proventi”.
Il passaggio da un’economia di tipo mobiliare ad una immobiliare, se non diede luogo a cambiamenti sostanziali all’interno dell’organizzazione economica dello stato, visto che una vera struttura produttiva qui era praticamente inesistente, tuttavia determinerà effetti assai negativi sulla realtà sociale e soprattutto sulle condizioni di vita delle masse popolari, riverberandosi poi sulla gestione delle finanze vaticane, passata dalle mani dei banchieri fiorentini, a quelle non meno interessate dei banchieri genovesi.
Uno dei più ricchi ed importanti fra questi,
Giuseppe Giustiniani, era giunto a Roma nel 1563 dall’isola di Chio, e nel corso di un ventennio riuscì ad accaparrarsi con investimenti strabordanti i “monti” più importanti del tempo, fin quando nel 1592 Clemente VIII gli assegnerà la Depositeria Generale della Camera Apostolica, addirittura preferendolo ai suoi stessi famigli :”Sulla piazza di Roma non v’è banchiere più sicuro –riportava un ‘avviso’ dell’epoca- Nessuno in caso di bisogno potrebbe mettere d’improvviso a disposizione di Sua Santità tanto denaro quanto lui ed attendere più a lungo di essere rimborsato”.
Alle esigenze congiunturali che abbiamo visto, si aggiungeva poi il gigantesco aumento del debito pubblico (è stato calcolato che tra gli inizi del pontificato di
Paolo V e la fine di quello di
Urbano VIII – cioè a dire in poco meno di 40 anni, dal 1605 al 1644 - il debito pubblico dello stato pontificio sia passato da 1,5 a 40 milioni di scudi !) che aveva ulteriormente creato condizioni favorevoli alla speculazione internazionale, dando agio ai finanzieri genovesi di approfittarne, anche aumentando, conseguentemente, il loro peso politico all’interno della Curia.
In un contesto del genere era pressoché scontato che entrassero complessivamente in crisi le già deboli strutture economiche dello stato pontificio, ma non solo. Infatti, a partire dal terzo decennio il problema non sarà più costituito dallo spostamento della massa di capitali da un settore all’altro, e si registrerà una “depressione così vasta da investire quasi tutte le attività urbane, compresa l’edilizia che era fra quelle più rilevanti” al punto di scontare non solo “la caduta delle vendite di immobili già costruiti” ma addirittura “l’arresto del settore edilizio”. Non fu estranea ovviamente a tutto ciò la continua perdita di liquidità dovuta alla rovinosa
“guerra di Castro”, che aveva visto impegnato il papa e i suoi nipoti contro i Farnese dal 1641 al ‘44, e terminata rovinosamente per i Barberini al punto che “ciò dicesi addolorasse tanto il pontefice da morirne fra breve” (Pastor).
Se abbiamo insistito su questi aspetti che solo apparentemente sembrano deviare dal tema che ci riguarda, è perchè in realtà, sono proprio questi elementi che ci consentono di capire come e perché abbiano messo radice quei motivi che avrebbero segnato in un futuro molto prossimo ed ancor più a venire, l’arretramento e la decadenza economica dello stato pontificio e in genere dell’Italia. Infatti, anche gli appartenenti alle casate in ascesa, i nuovi ricchi, quelli alla Manfroni, per capirci, che sembrano uscire vittoriosi o quanto meno poter attraversare indenni le trasformazioni in atto, basavano sempre più la propria fortuna su attività incentrate sul prelievo delle rendite di carattere parassitario e non sulla incentivazione produttiva o mercantile.
Questo spiega in buona misura molte delle mosse economiche -oltre all’acquisto a un prezzo esorbitante del palazzo al Corso- fatte da Alberto Manfroni e che Rosella Carloni ha puntualmente riportato come appaiono dal testamento che descrive in tutta la sua ampiezza la consistenza del patrimonio, sia immobiliare che fondiario; basti pensare che gli investimenti in questi campi erano durati fino al 1631, l’anno della sua scomparsa; a ciò si deve sommare l’ampliamento del palazzo stesso con l’aggiunta di un secondo appartamento, più le cinque altre abitazioni in via del Corso, nonché le quattordici botteghe sottostanti: quanto insomma avrebbe consentito di poter abbondantemente lucrare con le locazioni e tenere al riparo i capitali. E mentre la biblioteca mostrava – forse non a caso- una “modesta consistenza con i suoi settantadue libri … soprattutto se confrontata con quella di altri aristocratici” colpiva il grande numero di quadri di vario soggetto, oltre agli argenti, agli arredi, alle porcellane, ai tessuti, al mobilio, ai gioielli, ma anche alle armi e agli strumenti musicali descritti nell’atto notarile.
.jpg)
Ma muovere capitali verso questi settori, cui va aggiunto il ricorso costante alla pratica del fidecommesso, vero e proprio impedimento alla circolazione di liquidità, significa –oggi come ieri- sterilizzarli (o “pietrificarli” come è stato scritto) con conseguenze economico-sociali assai gravi in un momento che peraltro appariva di transizione, come si è visto, e nel quale la inevitabile decadenza di una determinata struttura lasciava il posto ad un’altra che però presentava già al suo esordio forti motivi di crisi e di corrosione. Così, se è vero, come concordano tutti gli storici dell’economia, che la fine del primo quarto del XVII secolo segna per Roma e per l’Italia “l’inizio della crisi più generale che colpirà la società urbana” coincidendo peraltro “con l’altra che investe altri paesi d’Europa”, è vero altrettanto che in Inghilterra, in Francia, in Olanda “nascono grosse compagnie di commercio internazionali che riusciranno ad imporre condizioni monopolistiche sui mercati” mentre invece “in Italia si continuava coi vecchi sistemi … “ (Carocci, cit.).
La conferma di ciò la vediamo continuando a riflettere su quanto la Carloni ha meticolosamente ricostruito con la sua ricerca, spiegando come dopo la morte di Antonio e dopo una serie di passaggi patrimoniali che provocarono anche forti attriti (ma che lasciamo al lettore ripercorrere), alla fine del Seicento la famiglia attraversò una grossa crisi e dovette affittare il palazzo al Corso e trasferirsi in un’abitazione comprata qualche anno prima.
Ma quello che impressiona non sono tanto le liti per questioni ereditarie, davvero non inusuali e non solo allora in molte famiglie specie se altolocate, quanto vedere come i “vecchi sistemi” di cui si diceva fossero in buona misura allo stesso tempo causa ed effetto di abitudini ed attitudini dure a scomparire e dalle conseguenze devastanti. Colpisce infatti notare come non si debbano registrare altro che ecclesiastici, camerieri di cappa e spada, conservatori, protonotari, referendari, giudici camerali tra i rampolli delle varie casate, né stupisce la collocazione conventuale della gran parte della prole femminile, in ottemperanza al principio del maggiorascato. Non a caso siamo nel periodo in cui la popolazione ecclesiastica, tanto maschile che femminile diventa sovrabbondante: ”La depressione economica e le crisi demografiche degli anni 1630–‘57 anziché diminuire o spezzare il fenomeno ebbero la conseguenza opposta”, determinando –ed è un dato comune un po’ a tutta l Italia - una crescita disordinata del numero di ecclesiastici che “né la gerarchia ecclesiastica né i poteri pubblici regionali riuscivano a contenere e regolare”. (cfr, P. Stella,
Il clero in Italia nella crisi del Seicento, in “Ricerche per la Storia religiosa di Roma”, 7, 1988)
Appariva fin troppo chiaro del resto come queste scelte solo molto parzialmente fossero frutto di reali motivazioni spirituali o vocazioni religiose. Lo aveva deprecato già nel 1617
Roberto Bellarmino in uno scritto in cui amaramente annotava come molti che si adoperavano per ottenere l’episcopato l’avessero ottenuto non per essere degni ed alla Chiesa, ma per ragioni meno nobili “ …
non vocantur a Deo, sed a carne et sanguine; nec Iesus Christi , sed hominum servi fiunt” (Cfr, R. Bellarmino,
De Gemitu Columba, 1617, lib. II, cap. V, pag. 204, in Stella, cit ).
Gli studi ormai numerosi su questa materia ci consentono di affermare che il fenomeno interessò strettamente l’intera Italia, non solo lo Stato della Chiesa. Accadeva a Napoli, ad esempio, che moltissimi rampolli dell’aristocrazia ma anche della buona borghesia mercantile chiedessero di essere ammessi al primo grado di sacerdozio solo per essere esentati dal pagamento delle imposte, tant’ è vero che una nota del reggente Tapia arrivata a Madrid e risalente al 1625 denunciava come nell’insieme del Viceregno fossero “ più li clerici che li laici” con grave nocumento per le tasse da riscuotere, invocando la corte affinchè “supplicasse sua Santità (perché) frenasse detto numero di clerici”. Inoltre “ … a Milano, nella prima metà del Seicento, il fenomeno riguardava il 30 % dei cadetti e il 50 % delle figlie … e solo nel Settecento si attenua sensibilmente” (cfr. X. Toscani, I
l dibattito sul clero e i tentativi di riforma nel Settecento, in “Ricerche per la Storia religiosa … “, cit)
Era un evidente effetto del degrado della situazione economica, se consideriamo ancora che “la crisi del Seicento, con una fiscalità in aumento macroscopico, con frequenti svalutazioni della moneta” faceva sì che solo la struttura ecclesiastica potesse fornire rifugio contro l’insicurezza se non contro lo spettro della miseria. Di qui, dunque, le strategie famigliari denunciate da molti osservatori e uomini di chiesa: ”Attorniati nelle proprie case da numerosa prole di figlioli maschi e femmine –annotava il vescovo di Nocera Umbra- ne fanno di loro volontà la scielta come si capano i pesci o si distinguono i pomi, decretando inappellabilmente che uno sia prete, e l’altra sia monaca, che uno sia frate, l’altra la serva perpetua di casa … perché rimanga più grosso il mucchio di denaro per l’altro maschio che deve con l’ammogliarsi mantenere memoria del nome e reputazione della famiglia”. (Toscani, cit.)
Non desta peraltro meraviglia che i rampolli delle famiglie altolocate oltre all’abito talare ad altro non fossero educati che “allo studio delle lettere e della musica”, così da vederli “impegnati nell’elegante traduzione in latino di un sonetto di
Giovanni Battista Felice Zappi”, oppure intenti a “cimentarsi in dotte orazioni” magari come “membri dell’Arcadia”, o ad aspettare l’occasione giusta –nel caso delle ragazze- per convolare a nozze con personaggi di famiglie illustri sicuramente immersi nelle stesse attività. Attività certo nient’affatto riprovevoli ma ben lontane da quanto la trasformazione dell’economia e le nuove esigenze della società richiedessero.
In tutto questo però i Manfroni non rinunciavano certo ad ampliare le loro proprietà con l’acquisto di una villa a Frascati (la ex villa Lancellotti, già Piccolomini) e con una cappella di famiglia di grande prestigio nella chiesa di Santa Maria del Popolo i cui lavori erano terminati nel 1627 quando venne ultimata la realizzazione del nuovo altare iniziato dal cardinale Sauli che ne aveva lasciato per testamento l’incarico al suo protetto;
.jpg)
approfittando infatti di una “concessione” di
Urbano VIII, Antonio Manfroni era riuscito ad ottenere “due sepolture di fronte all’altare”. Ma gli agostiniani titolari della chiesa non erano rimasti soddisfatti, soprattutto perché era stato pattuito che ai lati dell’altare venissero poste due statue non di stucco come accadde, bensì in marmo e che l’artefice ne fosse
Gian Lorenzo Bernini.
L’artista infatti, nonostante avesse poco più di vent’anni già, si era segnalato come autore di alcune opere straordinarie, tanto che già
Gregorio XV Ludovisi “volle honorarlo col titolo di Cavaliere e colla Nobile insegna della Croce di Christo”, cosa che –come poi avrebbe scritto il figlio Domenico- “recò al cavalier Bernino riputatione appresso le genti” (cfr,
Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernino . Descritta da Domenico Bernino Suo Figlio, Roma, 1713; Edizione del 1999, ristampa anastatica) . La salita al soglio pontificio nel 1623 di
Urbano VIII Barberini, amante delle arti e suo grande ammiratore, gli avrebbe consentito la piena affermazione come scultore, architetto e urbanista.
Era proprio Gian Lorenzo infatti l’uomo ritenuto dal pontefice in grado di mettere davvero in pratica la sua idea di una
“Ecclesia Triumphant”, che doveva tornare a primeggiare dopo le traversie dei decenni precedenti e il cui ribadito primato dovesse rappresentarsi attraverso una serie di imprese spettacolari che in effetti avrebbero trovato in San Pietro la completa realizzazione facendone il luogo simbolo della sua completa rinascita.
L’arrivo al papato di
Innocenzo X Pamphili non arrestò la fama e la carriera dell’artista che tuttavia com’è noto ebbe a scontare qualche iniziale messa da parte del pontefice, cosa che la conosciutissima vicenda della realizzazione della Fontana dei Quattro Fiumi fece dimenticare. Ideata e messa in funzione tra il 1645 e il 1651 l’opera cadeva in un periodo non certo felice per il papato. Uscite sconfitte le potenze cattoliche dalla guerra dei trent’anni, con il
trattato di Westfalia la chiesa di Roma si trovava messa sullo stesso piano delle altre confessioni perdendo altresì i proventi e i benefici che arrivavano dalle regioni e dalle popolazioni che si allontanavano dal cattolicesimo. Non a caso il papa diede l’annuncio del
Giubileo del 1650 con una bolla “
Appropinquit” letta in un’atmosfera di inquietudine, ma non certo di resa, sul sagrato delle quattro basiliche e in cui all’invito alla partecipazione fatto ai fedeli si univano insieme accenti di preoccupazione ma anche di risolutezza.
E tra le tante considerazioni che sono state fatte, è possibile che sia la più giusta quella secondo la quale l’opera berniniana fosse funzionale anche a
.jpg)
significare il ribadimento della preminenza della chiesa romana e della sua autorità sui quattro continenti. Non è un caso che la ricorrenza dell’Anno santo assunse in quel 1650 un rilievo particolare; nelle scenografie si cimentarono i più importanti artisti del tempo, nelle chiese vennero allestiti teatri dove la devozione tridentina si traduceva in particolare in una liturgia tra le più ostiche per i protestanti, cioè l’esposizione e l’adorazione dell’Eucarestia, come appare in un progetto veramente grandioso per la chiesa del Gesù ad opera di
Carlo Rainaldi. Senza contare naturalmente, le funzioni tradizionali che ribadivano pur nella loro ordinaria ritualità il sentimento spirituale e l’attaccamento alla religione e alla chiesa cattolica, a cominciare dalle processioni tra le quali ancora un grande seguito aveva quella delle ‘sette chiese’, istituita a suo tempo da san Filippo Neri quale ineludibile “pellegrinaggio dell’anima”.
Per l’occasione, il grande drammaturgo madrileno
Calderon de la Barca, appena divenuto terziario francescano e reduce dalla guerra dei trent’anni, compose un manoscritto apologetico, intitolato El Ano santo en Roma, certamente in linea con l’atteggiamento filo spagnolo del pontefice, fortemente irritato dal comportamento francese nel corso del conflitto, imputato in particolare alle scelte del Richelieu, poi fatte proprie dal cardinale Mazarino, per vendicarsi del quale nel febbraio del 1652 concesse il cappello cardinalizio ad un suo implacabile avversario, Jean Paul Francois de Gond, divenuto Cardinale de Retz.
La famosa Fontana dei Fiumi era stata inaugurata l’anno prima. E’ noto come il pontefice, a fronte delle varie proposte presentate da numerosi architetti, si fosse convinto ad affidare i lavori al Bernini -che peraltro gli garantiva l’anticipo della somma necessaria alla realizzazione della conduttura per l’acqua- perché restò colpito dalla originalità del progetto. Qualche giorno prima dello scoprimento dei lavori, secondo la cronaca di
Domenico Bernini, il Pontefice volle “andarvi a vederla, e dentro gli Steccati, e Tende, che la tenevano ancora occulta agli occhj del pubblico, entrò Innocenzo col Cardinal Panzirolo suo Secretario di Stato e con cinquanta della sua Corte i più confidenti. La vista di lei superò nel pontefice l’aspettativa … La girò attorno notandone con ammirazione ogni parte … Sopra tutto recò stupore come quella vasta mole della Guglia … potesse reggersi sopra un Masso da tutte le parti forato”. La meraviglia però non era ancora finita, perché Bernini gli aveva apparecchiato una clamorosa sorpresa “ … finalmente chiese,
Quando l’acqua si saria potuta veder cadere?, Rispose il Bernino a bella posta
Che non così presto, richiedendosi maggior tempo per prepararle la strada … Allora Innocenzo datagli la benedizione partissi. Ma non fu giunto alla porta del vicino Steccato, che avendo il Cavaliere con ogni secretezza concertato il modo con cui l’acqua dovesse sboccar per la fonte … al papa che rivoltossi indietro, comparve uno spettacolo che lo fece del tutto rimanere estatico per la maraviglia”. Il commento fu immediato :”
Bernino sempre la fate da quel che siete, e voi con darci questa improvvisa allegrezza ci avete accresciuto dieci anni di vita” (D. Bernini, cit)
E’ stranoto come
Olimpia Maidalchini, cognata del pontefice, avesse fatto si che questi vedesse il modello realizzato dall’artista in argento. La donna era
madre di Costanza, andata in
sposa a Nicolò Ludovisi, amico e protettore dello stesso Bernini negli anni precedenti, nonché fratello di Ludovico, il cardinal nepote di Gregorio XV, che come si è visto era stato padrino di un figlio di Ginevra dal Palagio ed Antonio Manfroni. Si trattava del primo incrocio tra le famiglie Bernini e Manfroni, che si ritroveranno strettamente imparentate nel 1719 quando la giovane
Ortensia Manfroni sarebbe convolata a giuste nozze con
Prospero Bernini, nipote di Gian Lorenzo.
Descritta come “donna bellissima ma un poco freddarella” da
Pier Leone Ghezzi, che la ritrasse in un disegno, animata da grande religiosità, amante delle arti e della cultura arcadica, oltre che delle cineserie, com’era di moda in quel tempo, Ortensia fu un’ottima amministratrice delle proprietà familiari, tanto che lasciò in eredità al figlio
Mariano Bernini un patrimonio di oltre 120 mila scudi, ricevendone in cambio –se si può dire- un’iscrizione funeraria nel sepolcro di san Pietro in Montorio che rimarcava “quanto fosse stata degna della Bernina gente”; era questa la prima rivendicazione di appartenenza, come sottolinea la Carloni, segnale del forte orgoglio per esser parte di quel casato.
La scomparsa della donna risale al 1778 mentre nel palazzo al Corso si erano via via alternati inquilini eccellenti, soprattutto il
barone Stefano Gavotti che s’insediò nell’ala nobile del palazzo che affacciava tra via Frattina e via del Gambero, mentre invece Ortensia e il marito risiedevano nella palazzina di via della Mercede di proprietà Bernini, dove era sistemata tutta la grande collezione che Prospero aveva ereditato e che solo più tardi i discendenti avrebbero trasferito nel palazzo al Corso.
.jpg)
Ma a questo punto il definitivo passaggio di mano, dai Manfroni ai Bernini, era già avvenuto; ed in effetti, a un secolo dalla morte del grande artista, commenta la Carloni, i suoi eredi incameravano, oltre al titolo nobiliare, anche il palazzo che ne testimoniava “l’avvenuta ascesa sociale”, e che tuttavia restava proprietà indivisa perché vi partecipavano oltre a
Francesco e Prospero, eredi di Mariano Bernini, anche i loro cugini. Solo agli inizi dell’Ottocento, dopo che i Gavotti nel 1810 avevano lasciato l’affitto, i due fratelli con lo scioglimento del fidecommesso (1816) convennero di arrivare alla spartizione della proprietà, ed il palazzo passò nelle mani di
Prospero Bernini, per giungere
poi dai Bernini, ai Galletti ai Giocondi ed infine ai Forti.
Il lettore avrà l’opportunità di seguire questi spostamenti ricostruiti con vera acribia dall’autrice e che mettono in luce tragitto che ci ha fatto partecipi di eventi ed intrecci sì familiari ma di rilievo generale, come quando il palazzo corse il rischio di essere inghiottito dalla voragine di debiti accumulati da
Vincenzo Galletti, genero di Prospero. Ed è curioso notare come proprio costui, uno dei rarissimi personaggi incontrati in questo percorso plurisecolare che non sopravviveva esclusivamente grazie alla rendita o ad incarichi di ambito curiale, trattandosi di un vero imprenditore attivo in quel tempo, riuscisse però a perdere tutte le sostanze; per fortuna, prima dello sfascio totale fu in grado di registrare l’immobile al genero Augusto Giocondi, dal quale poi la proprietà si trasferì ai figli tra i quali
Caterina Giocondi andata in
sposa a Francesco Forti.
E’ un nome questo che gli amanti delle belle arti dovrebbero ricordare bene perché a lui fu dato l’incarico nel 1921, quando l’immobile passò nelle mani della Società Generale Immobiliare, di provvedere alla sistemazione di un capolavoro dell’arte scultorea barocca, cioè la statua della Verità, realizzata da Gian Lorenzo Bernini negli stessi anni della fontana di piazza Navona, che era collocata in una nicchia nel cortile del palazzo, ed oggi motivo di attrazione tra i più apprezzati tra i tanti della
Galleria Borghese .
Sulle vicende relative agli altri straordinari pezzi messi insieme da Gian Lorenzo Bernini, la Carloni ha fatto luce nell’ultimo capitolo del suo libro, intitolato “
La collezione della famiglia Bernini, dal Settecento alla fine del XIX secolo”, che certamente attirerà in particolare l’attenzione degli addetti ai lavori ma non solo, per la notevole messe di precisazioni e chiarificazioni che presenta. In effetti, pur “con tutti i dubbi che l’identificazione delle opere può oggi comportare”, la studiosa ha presentato “un tentativo di sistemazione organica dei dati”.
Si tratta di una parte che effettivamente merita particolare attenzione perché vengono passate in rassegna opere di grande impatto e di notevole caratura artistica, con la ricostruzione di ciò che c’era (da quando Gian Lorenzo costituì la raccolta) a ciò che c’è ora, o che è stato magari solo in

parte ricostituito, tenendo presente che a volte le dispersioni rispondevano a criteri per così dire ‘promozionali’, come accadde agli inizi del Settecento quando Domenico e Paolo Valentino Bernini vi ricorsero allo scopo di procurarsi “proficue relazioni con i personaggi più importanti del mondo ecclesiastico e diplomatico presenti a Roma”.
In qualche caso, nonostante la mole documentaria riemersa l’autrice non si esime dal sottolineare la complessità dei riconoscimenti inventariali; come per il
San Sebastiano “una scultura a grandezza naturale” copia del capolavoro oggi alla Thyssen Borneemisza, che a suo tempo diede adito a controversie nell’ambito della stessa famiglia circa la sua attribuzione o meno alla mano del Bernini.
Ma non possiamo chiudere questa recensione senza far almeno cenno al fatto che coloro che avessero visitato a suo tempo la residenza di via della Mercede “presso lo studio del celebre scultore, dove spiccavano le opere di grandi dimensioni” non avrebbero potuto non rimanere meravigliati di fronte “ad un crescendo scenografico culminante nella visione del modello di presentazione della Fontana dei Fiumi e della statua della Verità”.
E’ in effetti la sensazione che grazie alla passione di Fabiano Forti Bernini, nonché alla sua generosa disponibilità, è possibile rivivere anche oggi ammirando il modello-capolavoro della Fontana dei Fiumi.
(pietro di loreto) Roma 25.12.2015