in mostra al Museo Ribezzo di Brindisi 
 Giovanni Cardone Maggio 2024

Fino 31 Luglio 2024 si potrà ammirare al Museo Ribezzo di Brindisi la mostra Graffi su Carta. Segno è Continuità di Paolo Gubinelli Ideazione e Coordinamento Emilia Mannozzi. Nella sua attività artistica, Paolo Gubinelli ha maturato molto presto un vivo interesse per la carta, quale mezzo congeniale per esprimere il suo linguaggio interiore attraverso il segno in rilievo e i colori sfumati, come poesie che lasciano nuovi messaggi comunicativi. Il dialogo tra antico e contemporaneo prende forma nel progetto espositivo, attraverso la continuità del segno come elemento senza tempo. Come afferma nel suo scritto critico Emilia Mannozzi dicendo: Quotidianamente si compiono gesti volontari o involontari che vengono immortalati su oggetti o nello spazio intellegibile della nostra mente. Su un foglio, la nostra mano può tracciare una linea, un cerchio, un quadrato o qualsiasi figura geometrica dai contorni ben definiti o non definiti,  in un susseguirsi di immagini irrazionali che riempiono un foglio oppure i nostri pensieri. Il segno affonda le sue radici nei meandri più profondi del tempo, in epoche lontane, che risalgono ai primordi dell’umanità. La dimensione arcaica del “fare segno” pervade già l’Homo di Neanderthal, il quale inizia a tracciare figure geometriche e casuali sulle pareti delle grotte, ponte di unione tra il sensibile e l’intellegibile, tra il terreno e l’ultraterreno. Ma al sopraggiungere dell’Homo Sapiens, durante l’Aurignaziano (30.000 anni fa), il mondo dei segni si fa più complesso. I segni tracciati con ocra, carboncino e alle volte graffiti sulla roccia calcarea, che li assorbe e li restituisce all’eternità, si combinano con figure rappresentative, con pittogrammi e ideogrammi, intrecciati in un apparente caos, che cela un inestricabile linguaggio. Il segno continua a fare la sua comparsa nella cultura umana, di epoca in epoca, sfidando l’inesauribile trascorrere del tempo, restituendo all’umanità memorie di antiche civiltà. L’umanità si è evoluta e nella nostra quotidianità, abbiamo accolto il razionale, il logico, abbandonando il senso del magico dei nostri avi. Eppure, nonostante la perdita del magico, l’arte contemporanea ci permette di cogliere il significato di quel mondo perduto. Attraverso le opere su carta del maestro Paolo Gubinelli, si è cercato di coniugare antico (Cellino San Marco, Torre Guaceto, Punta Le Terrare, Masseria Guidone) e contemporaneo, dando forma al progetto espositivo del Museo Ribezzo. Un confronto tra due linguaggi separati da millenni, ma uniti da un’unica lettura che unisce l’archeologia e l’arte con il segno e la pittura, un’arte fatta di linee e segni, scaturiti dall’estemporaneità di gesti e pensieri che portano alla creazione dei “paesaggi dell’anima”. Un trait d’union tra memoria e presente, tra razionale e irrazionale, che porta alla riflessione sull’esistenza umana e ad una esplorazione più profonda del sè, tracciato ed immortalato su carta. Una forma di comunicazione, che riprende il senso magico e spirituale dei nostri avi, attraverso un’analisi intima che non implode, ma esplode graffiando la materia tra luci, colori ed ombre. L’antico e il contemporaneo che si uniscono per raggiungere l’irraggiungibile. Sia gli stridenti graffiti sulla roccia, sia quelli sulla carta, sono destinati a comunicare, travalicando il breve ciclo della vita umana. Nel testo a Catalogo di Antonio Paolucci del 2006 il quale affermava che : Entrare nell’arte di Paolo Gubinelli è operazione ardua e rischiosa; come una scalata di sesto grado superiore. Occorrono cuore fermo, mente serena, saldo allenamento, sperimentata consuetudine dentro i labirinti della contemporaneità. Ed occorrono agganci sicuri sui quali costruire, con metodo, il percorso. Al termine dell’ascesa, arrivati in vetta, gli sforzi saranno compensati (se la metafora alpinistica mi è ancora consentita) dalla argomentata e gratificante conoscenza di un artista che è da considerare fra i più geniali e originali dei nostri giorni. Ma intanto occorre partire e bisogna farlo scegliendo fin dall’inizio punti d’appoggio solidi e affidabili. Comincerei – l’aveva già fatto l’amico Bruno Corà – da una affermazione del giovane Gubinelli, all’epoca agli inizi della carriera. “Il concetto di struttura-spazio-luce si muove nell’ambito di una ricerca razionale, analitica in cui tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione” (Autopresentazione, ed. Galleria Indiano Grafica, Firenze 1977). Una trentina di anni or sono l’artista aveva già chiaro il progetto e il percorso. Nelle poche righe che ho citato si parla di “ricerca razionale”, di “meditazione” rigorosa ed esigente, di sforzo analitico. E si parla anche di minimalismo, di “pauperismo” nella scelta dei mezzi espressivi. Lo storico dell’arte contemporanea dirà che il Gubinelli del ’77 si colloca nella linea analitica di Balla, di Fontana, di Dorazio; quella linea analitico-speculativa (i suoi precedenti storici stanno nei prospettici e nei teorici del Quattrocento) che puntava alla combustione, alla dissoluzione degli alfabeti per arrivare (nella riduzione all’essenziale dei materiali dei modi e dei mezzi) alla comprensione per via meditativa, razionale, del vero visibile. La pittura come discorso mentale quindi, la relazione struttura-spazio-luce (questo e non altro è il vero visibile, l’universo che ci circonda e che abita fuori e dentro di noi) indagata e rappresentata sub specie intellettiva, razionale. Attenzione però, perché questo è un passaggio davvero insidioso. Parlare dell’arte di Gubinelli in termini di astrattismo razionalista è fuorviante. Rischiamo di andare fuoristrada e di non capire più niente. Lo aveva inteso benissimo, quasi al termine della vita, il grande Giulio Carlo Argan. Quella del nostro autore – scriveva Argan nel ’91 – è una razionalità non deduttiva e logica, ma induttiva. L’osservazione è preziosa ed è fondamentale. A mio giudizio è la chiave d’accesso decisiva per entrare nelle opere di Gubinelli; nelle sue ermetiche carte trasparenti, nelle sue criptiche incisioni, nelle piegature esatte, melodiose e misteriose, simili ai segni che le onde lasciano sulla sabbia.

Esiste una razionalità deduttiva che si snoda sul filo della consequenzialità e poi c’è una razionalità induttiva che potremmo definire “metalogica” perché sta al di sopra dei processi mentali, governati dal rapporto causa-effetto, che conosciamo e abitualmente pratichiamo. Si può arrivare a una “spazialità senza volume”, a una “luce senza raggio” e agli altri squisiti ossimori, taglienti come lame, che Argan elenca nell’opera di Gubinelli? Così da toccare, attraverso di loro, quella “tensione lirica garbatamente severa” di cui parla Enrico Crispolti (1989)? Naturalemente si può – l’opera dell’artista sta lì a dimostrarlo – ma per riuscirci bisogna saper utilizzare quella “logica intuitiva” che consente fulminei colpi di mano sull’universo figurabile e assemblaggi vertiginosi e rischiosi di categorie antinomiche. L’obiettivo di Paolo Gubinelli è “una spazialità sensibile, percepibile all’occhio attento e al tatto desideroso, quello suo e dei suoi estimatori” (B. Corà, 2004). Ma il suo obiettivo è anche quello – almeno così a me è sembrato e ne ho scritto in una pubblicazione edita da Vallecchi nel 2004 – del superamento o almeno del confronto con il mistero ontologico che sovrasta tutte le cose. Le sue opere sono “icone del disordine” (Venturoli) o piuttosto presagi di un ordine sepolto che un giorno ci sarà dato comprendere? Sono i crittogrammi di un alfabeto incognito ai più, ma perfettamente praticabile da chi conosce e domina i tortuosi algoritmi della arganiana “razionalità induttiva”? Oppure sono, le carte di Gubinelli, i segni di “un poeta nel tempo della povertà”, come ha detto con una bella immagine Carmine Benincasa?  Io non saprei rispondere. So però che non esiste nel panorama dell’arte italiana contemporanea, un pittore che abbia saputo, come Gubinelli, accettare per azzardo e chiudere con successo, il confronto con la poesia. Intendo il confronto nel senso tecnico del termine. In lui il mezzo espressivo, diciamo così, “professionale”e cioè la pittura, si affina, si disincarna, si consuma, diventa trasparente e leggero come una foglia. L’opera di Gubinelli porta all’estremo confine del possibile il rispecchiamento pittura-poesia fino a sfiorare l’equivalenza. Il suo “ut pictura poesis” è così rarefatto da dare le vertigini ma è anche l’esperienza intellettuale ed estetica più affascinante che ai nostri giorni ci sia dato conoscere. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Paolo Gubinelli:  Penso che il Novecento si è confrontato con questa dimensione proponendo non solo nuovi oggetti interartistici, ma anche nuovi possibili criteri interpretativi, che alimentano quella che James Heffernan ha definito un’enorme “industria intellettuale”. Anche le sperimentazioni pratiche di oggetti intermediali sono oggi quanto mai attuali. Basti pensare alla produzione e alla riproduzione di forme composte pittorico-verbali, come film, immagini televisive, poster, fumetti, testi illustrati, riviste e giornali, che sebbene tradiscano una svolta, dagli addetti ai lavori definita pictorial turn, rimangono a testimonianza di un sodalizio artistico ancora molto stimolante che si adatta camaleonticamente alle esigenze dell’epoca. La ripresa oggi del dibattito sull’interscambio fra letteratura e arti del visuale è da attribuire anche e soprattutto all’importanza che le immagini occupano non solo al livello più “basso” della comunicazione di massa – che non riesce ormai a fare a meno di strumentazioni del visuale – ma anche a quello più “alto” del sistema letterario tout court. E se i linguisti, i filosofi del linguaggio e gli stessi critici della letteratura della prima metà del secolo scorso sono stati responsabili del predominio della lingua in un panorama culturale votato alla distinzione tra le discipline, oggi la comparatistica internazionale e le stesse filologie nazionali fanno della dimensione interartistica e intermediale precipuo oggetto di studio. Gli studi di visual culture contemporanei – eredi per molti versi della storia dell’arte e allo stesso tempo attenti alle altre dimensioni disciplinari, tra cui la letteratura – rifiutano, ad esempio, la tendenza logocentrica e rivolgono l’attenzione allo studio contestuale delle immagini e della loro ricezione. Alla luce di questa nuova tendenza vanno anche letti tutti i più recenti contributi teorici votati allo studio non semplicemente dell’immagine e delle arti del visuale, ma anche della loro ricaduta nel sistema altrettanto complesso della letteratura. Si pensi ai recenti lavori dedicati all’analisi di una particolare forma interartistica, l’ékphrasis – centrale in questo studio – come quelli di James Heffernan e Thomas Mitchell, e nel panorama italiano allo studio di Michele Cometa, il quale, nella sua opera Parole che dipingono, invita ancora una volta a riflettere sulla questione sempre aperta dell’appropriazione delle immagini da parte della scrittura, di cui, come lui stesso osserva, è difficile riassumerne le complesse modalità: Più di recente Cometa ha proposto il termine “catalogo” per contenere alcune di questi modi di interazione fra letteratura ed arti figurative. Nel catalogo Cometa fa rientrare le tipologie della Doppelbegabung, dell’ékphrasis, delle forme miste e di quelle che definisce omolgie, precisando comunque di non volere esaurire e semplificare con questo sistema tassonomico la ricchezza di un campo di indagine così vasto. Per questa ragione definisce il suo catalogo «una strategia comunque parziale e precaria, un colligere che si dispiega secondo un ordine sempre revocabile e che ha la funzione  di collocare nello spazio i vari oggetti di cui si occupa». William John Thomas Mitchell, uno dei “padri” e dei maggiori teorici contemporanei della cultura visuale, fa alcune considerazioni sulle modalità d’analisi che il nostro secolo ha più spesso adottato di fronte al problema della relazione fra le due arti.

Mitchell parla del metodo comparativo come di quello più tradizionale pur tuttavia lo studioso americano rintraccia, più avanti, i limiti di questo stesso approccio, caratterizzato da presupposti di uniformità e omogenità e da strategie di sistematiche differenziazioni e comparazioni che talvolta ignorano altre forme di relazione più subdole e meno negoziabili. Per Mitchell si tratta di un approccio, quello comparativo, che spesso rimane incastrato in uno “storicismo ritualistico” che si limita a ripercorrere canoniche linee narrative ereditate dal passato, quasi fosse incapace di registrare pratiche e storie alternative. Non per questo egli trova più esatto l’approccio semiotico europeo che finisce per sostituire, in modo talvolta brutale, lo scientism all’artiness nell’analisi del confronto interartistico. Lo studioso parte piuttosto dall’assunto che il problema dell’immagine/testo (sia che lo si intenda come forma sintetica, composta, o come differenza di rappresentazione) è proprio il sintomo dell’impossibilità di giungere ad una “teoria di immagini” o ad una “scienza della rappresentazione”. Penso al testo Estetica relazionale Nicolas Bourriaud che sottolinea la necessità di un nuovo approccio all’arte contemporanea proponendo di vedere in essa un’attivatrice di interazioni sociali. Secondo il critico francese non si tratta tanto di preoccuparsi della partecipazione del pubblico, o dell’interattività dell’opera, quanto piuttosto di proporsi come orizzonte teorico dell’arte la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale. L’arte relazionale deve pertanto essere intesa come “un attivatore di rapporti sociali; essa è una spina nel fianco del sistema di produzione, che trova in quest’arte uno specchio deformante, una mimesi che persegue fini opposti e allo stesso tempo un sabotaggio radicale. Un’arte comunitaria per definizione, anche se non per forza comunitaristica o interattiva; una pratica immune dal regime dello Spettacolo che abbatta almeno per un tempo limitato i confini tra arte e mondo, portando al massimo grado alcune istanze dell’arte dalle Avanguardie storiche in poi”. L’autore sottolinea ripetutamente la necessità della revisionabilità di ogni pratica teorica e artistica al fine di essere sempre un passo avanti rispetto al sistema che tenta di appropriarsi di ogni nuova proposta neutralizzandone il portato critico autentico. E quello che fa Paolo Gubinelli con la sua arte da sempre dando al suo linguaggio una dimensione umana. Nel contempo posso dire che Paolo Gubinelli è un artista dal linguaggio dove si incontrano e si scontrano gesto, forma e sentesi dove ricerca e sperimentazione sono alla base dei suoi lavori, dove viene fuori nel contempo una rinnovata mitologia dell’opera fatta da pulsioni e di sentimenti.

Egli tende a un dialogo interno della propria arte o con cui rapportare la personale e individuale emozione, l’opera sembra voler raccogliere una molteciplità di eredità anche colte, alte che tutto il fine secolo scorso ha disseminato e forse dissipato nel suo tumultuoso processo di affrancamento dell’oggetto artistico, nei confronti della letteratura, della sociologia, di quella propensione al racconto. Paolo Gubinelli vuole valorizzazione l’emozione che viene direttamente dalla materia e dalla pittura, tuttavia e necessario distinguere le diverse prospettive. Gubinelli parte dalla pittura nella quale spesso i termini espressivi del pigmento si coniugano con la scelta del supporto, con il sedimentarsi di differenti tracce, come se, da subito, la sola pittura risultasse povera, poco significativa, incapace di dare conto della complessità del reale. In quelle grandi stesure iconiche, che segnano la pittura di Paolo Gubinelli  è caratterizzata fortemente dalla sperimentazione e dalla ricerca posso affermare che il suo è universo linguistico ampio è attraversato dalla sperimentazione ed legato alla ricerca, che riemerge attraverso la materia e la valorizzazione linguistica dei suoi supporti. L’opera di Paolo Gubinelli non è dunque un evento isolato, ma ha matrici specifiche nella sua terra di riferimento, l’uso dei materiali che presto compaiono come supporto ineliminabile diventano un sostrato espressivo della sua immagine esse sono soluzioni linguistiche specifiche grazie al suo percorso interiore che da anni egli porta avanti. L’uso dei materiali come oggetto della narrazione, e della duplice scansione  appare come il segnale di una ricerca che vuole scardinare l’ordine della narrazione e della pittura. L’attività artistica di Paolo Gubinelli pare dunque compendiarsi in due differenti momenti espressivi, complementari e autonomi, con quel modello duplice che abbiamo visto, dall’inizio, essere carattere specifico dell’opera dell’artista da una parte le opere fortemente di ricerca attraverso: il gesto e il segno . Le opere dell’artista traducono la tensione, la misura, intese come valore etico che sembrano trascrivere nello spazio un equilibrio, da valorizzare e scardinare ad un tempo. Paolo Gubinelli  attraverso le sue opere ci narra infine della metafora della vita, con le sue pulsioni e i suoi sogni, le sue tensioni e i suoi approdi dell’animo. Che si rinnova di continuo in quella diversa, più lineare, ma non meno eloquente, costituita dall’insieme di numerose opere che trovano la loro verità espressiva attraverso l’accostamento che costituisce la trascrizione emotiva di una geografia dello spazio, una geometria della mente, una scansione lirica dei movimenti del cuore. Paolo Gubinelli cerca nelle sue opere la giusta dimensione dove l’umano pensiero possa trascrivere se stessa e la nostra presenza nella mente degli uomini, l’opera come vicenda umana si concretizza attraverso il segno il gesto la forma la sperimentazione che divengono il senso più alto del nostro esistere. I richiami all’ ars poetica con il ricorso costante all’emozione della materia, costituiscono l’essenza stessa della dimensione espressiva dell’artista. La tensione che nelle opere realizzate da Paolo Gubinelli attraverso il contrasto tra le forme e tra le cromie si definiscono in termini essenziali, dove il linguaggio permette al fruitore di carpire l’animo dell’artista . Paolo Gubinelli è all’eterna ricerca della tensione espressiva nel contempo recupera l’immediatezza del gesto, del segno che gli permettono di dialogare . Posso affermare infine che Paolo Gubinelli ci offre opere ricche di autentiche sfumature emotive,  che prendono forma attraverso il lieto contrasto tra le immagini e i vissuti interiori, a tratti ambigue e sfumate, e le cromie. Tutto diviene, in tale pittura essenziale, apertura al nuovo, “vita vissuta”. Dietro (dentro) le opere l’eterna ricerca, i dubbi e le domande della tensione espressiva (l’artista tenta di “andare incontro alle cose stesse” direbbe Husserl), l’immediatezza del gesto e del segno intenzionale che gli permette di dialogare con il tempo vissuto: l’equilibrio esprime la domanda sull’essere autentico, l’apparente forma della fragilità e, al tempo stesso, il valore della vita reale.
Museo Ribezzo di Brindisi
Graffi su Carta. Segno è Continuità
dal 18 Maggio 2024 al 31 Luglio 2024
Lunedì dalle ore 16.30 alle ore 19.30
dal Martedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.15