di
Francesco PETRUCCI
È merito di
Francesca Baldassarri, Judith Mann e
Nicola Spinosa, curatori della bella mostra
Artemisia Gentileschi e il suo tempo (Roma,
Palazzo Braschi, 30 novembre 2016 – 7 maggio 2017), di aver portato nuovamente all’attenzione del pubblico un dipinto noto da tempo - paradossalmente visibile a tutti i colti frequentatori della casa romana di
Fabrizio Lemme, ma evidentemente mai osservato con la dovuta attenzione -, per metterlo a confronto con le opere giovanili di
Artemisia e con quelle degli artisti contemporanei. Tra l’altro, finalmente, il quadro è pubblicato con un’ottima riproduzione a colori (catalogo Skira, Milano 2016, n. 15, pp. 108-109, scheda di
M. C. Terzaghi, con attribuzione dubitativa ad Artemisia).
È merito di
Vittorio Sgarbi - meglio noto al grande pubblico come personaggio televisivo e grande divulgatore, ma di cui chi lo conosce non superficialmente ha potuto apprezzare, oltre all’intelligenza viva, alla sottile sensibilità artistica e alla profonda capacità di lettura dell’opera d’arte, anche una spontaneità di giudizio e una libertà intellettuale scevra da pregiudizi e prese di posizione preconcette, dote oggi più unica che rara -, di aver sollevato il problema attributivo evocando provocatoriamente il nome di
Caravaggio.
Sgarbi effettivamente ha saputo intuire, come ben dimostra la sua fine apertura critica pubblicata in una pagina dell’inserto “
Sette” del
Corriere della Sera (n. 52 del 30 dicembre 2016, p. 92), quello che gli altri, compreso il sottoscritto, non hanno saputo vedere. Sembra che il solo
Claudio Strinati avesse “sollevato in passato sospetti di aura caravaggesca giovanile”, a memoria di
Lemme.
Una cosa è certa, la
Giuditta Lemme non può essere riconducibile a nessuno dei pittori caravaggeschi che conosciamo, nemmeno quelli di prima
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generazione. Le varie attribuzioni avanzate per l’opera, da
Giovanni Baglione ad
Antiveduto Grammatica, Angelo Caroselli, Artemisia ed
Orazio Gentileschi, la sola
Artemisia giovane e persino
Francesco Ragusa, come proposi io stesso scorgendo caratteri baglioneschi e arcaicizzanti nel dipinto (in
“Paragone”, n. 57 [655], settembre 2004), non hanno adeguati riscontri stilistici.
La sensualità e la violenza di
Artemisia, che attingono ad un’indole passionale ed emotiva, sono estranee al dipinto, che peraltro non ha nulla dell’influsso di
Orazio Gentileschi, motivo costante nella prima produzione della giovane e talentuosa figlia. Se la
Susanna di Pommersfelden, così diversa dal dipinto in esame, è datata 1610, per essere di
Artemisia quando dovrebbe essere stata realizzata la
Giuditta Lemme (in catalogo viene proposta la medesima datazione)? La pittrice romana, forse ancor più giovane e totalmente controcorrente, avrebbe dovuto imitare in anteprima e isolatamente il primo
Caravaggio?
Judith Mann, attenta studiosa dell’artista, sostiene a riguardo che “l’influenza che Michelangelo
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Merisi da Carvaggio esercitò su Artemisia Gentileschi è molto meno rilevante di quanto ritenuto finora” (
Artemisia Gentileschi, caravaggesca?, in
I Caravaggeschi. Percorsi e protagonisti, a cura di A. Zuccari, II, 2010, p. 407). Come si collocherebbe quindi quest’opera nel suo
curriculum?
Il caravaggismo, come noto, è un fenomeno successivo alla morte del suo animatore (1610) ed i suoi esponenti si ispirarono più al tenebrismo, ai temi da pittura di genere e alle opere pubbliche che lo resero famoso, che alla sua primissima attività. Il presente dipinto invece, come ha notato
Sgarbi, richiama le opere di un
Caravaggio esordiente. È un dipinto di spirito ancora cinquecentesco. Lo rivelano il cromatismo acceso e luminoso, la staticità delle figure, la cura estrema dei dettagli, con le figure in posa ferme come manichini.
Sgarbi ha giustamente posto l’attenzione su un particolare che rivela un realismo innovativo: “il sacco per accogliere la testa di Oloferne, con le macchie di sangue di uno straccio già usato”. Nessuno aveva mai fatto nulla di simile!
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Come aveva notato
Gianni Papi, che ripropose molto dubitativamente l’attribuzione ad
Artemisia (
Artemisia, catalogo della mostra, a cura di
R. Contini, G. Papi, Roma, Complesso Monumentale di S. Michele a Ripa, Roma 1992), la
Giuditta Lemme richiama modelli ritrattistici caravaggeschi, quali la perduta
Cortigiana Fillide ex
Giustiniani, la
Donna con pesca e caraffa di gelsomini, che
Marini aveva attribuito al pittore lombardo, e il
Ragazzo con vaso di rose di Atlanta. Un valido confronto mi sembra essere il
Ritratto di dama con collana d’oro del
San Diego Museum of Art (USA, California), che lo stesso Marini aveva pubblicato, a mio avviso a ragione, come opera giovanile del
Merisi (Caravaggio “pictor praestantissimus”, ediz. 2001, n. 8). Il volto di
Giuditta, che sembra una contadina ben vestita, è un vero e proprio ritratto, in conformità con la prima attività del
Merisi dedita a tale genere nelle botteghe di
Lorenzo Carli e
Antiveduto Grammatica.
L’ovale del volto di
Giuditta, ben disegnato e con un tratto netto scuro sul profilo, il modo di fare le orecchie, con una pittura morbida su toni rossicci, le mani dalle dita allungate e tornite, gli occhi e le sopracciglia ben nette e disegnate, sono affini alle opere giovanili di
Caravaggio (le due versioni
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della
Buona ventura, il
Ragazzo con cesto di frutta, il
Suonatore di liuto, i
Musici). Suo è lo sfondo di nuda parete color ocra avana, attraversata da un taglio di luce che segna un’ombra obliqua, come in molte opere del
Merisi. La pietra squadrata, ove il dado è raccordato da un cavetto al plinto, appare simile al tavolo del
Bacchino malato della
Borghese. La tonalità violacea della veste dell’eroina biblica è la stessa dei
Musici del Metropolitan Museum. Anche il cretto della materia pittorica è affine a quello presente nelle citate opere del
Merisi.
Mancano riscontri documentari, ma se, come sembra plausibile, la tela è databile attorno al 1590-92, anteriore alla presenza di
Caravaggio a Roma, tali riscontri non possono esistere. Tutte le opere ricordate dalle fonti e dai documenti sono infatti quelle realizzate dopo l’arrivo a Roma, che, come hanno dimostrato ricerche recenti, non è certo sia avvenuto nel 1592, come riteneva la critica, dato che il primo documento romano che lo riguardi è negli atti di un processo del 1597 (
Caravaggio a Roma, Una vita dal vero, catalogo della mostra, ideazione di
E. Lo Sardo, a cura di
M. Di Sivo, O. Verdi, Roma, Archivio di Stato, Sant’Ivo alla Sapienza, Roma 2011, pp. 54-59, 235-240). Anche ammesso che
Caravaggio fosse giunto a Roma nel 1593, quando aveva circa 22 anni, sicuramente in precedenza doveva aver dipinto altri quadri, tutti spariti nel nulla e allo stato attuale privi di riferimenti.
Insomma l’idea coraggiosamente avanzata da Sgarbi merita approfondimenti e un dibattito, alla luce di quanto perspicacemente rilevato dal critico e delle considerazioni qui espresse.
Francesco PETRUCCI Roma 3 / 1 / 2017