(1848) PAUL GAUGUIN (1903)
Nella storia personale di Gauguin v'è un elemento che l'attraversa in diagonale come l'albero nel suo dipinto La visione dopo il sermone. In quest'opera, al pari della sua vita, c'è lo spazio della realtà contrapposto a quello del sogno, della visione immaginaria. È questa la cifra della sua vita e, insieme, della sua pittura. E prima ancora di divenire navigante nel grande mare del sogno e dell'utopia, naviga da vero marinaio e, poi, da esploratore di civiltà primitive nei grandi oceani, attraversandoli in pratica tutti.
È il caso, allora, di percorrere questa diagonale per sporgersi, ora di qua ora di là, e cercare di restituire a Gauguin (impresa quanto mai ardua) un identikit almeno plausibile della sua personalità di uomo (la realtà ) e di artista (il sogno, la visione, l'utopia).
Già l'ascendenza materna in terra di Perù comincia a disegnare quella che sarà la costante dell'uomo Gauguin. Il poco tempo trascorso, da bambino, a Lima non può lasciare tracce evidenti nella sua formazione e nella sua sensibilità; e forse la dicono più lunga i cromosomi delle sue cellule. Il suo interesse o, per meglio dire, la sua attrazione verso le civiltà primitive nasce probabilmente da qui. Machu Picchu, Cuzco, Nazca, Uros, Titicaca non sono esistite invano: la cosiddetta filogenesi dirà pure qualche verità1). Ed è, allora, forse vero che ciascuno di noi conserva (e trasmette) a suo modo nel suo intimo più nascosto i resti (come tante Machu Picchu) del suo passato più remoto.
Di fronte, però, a questa innata attrattiva verso le più antiche civiltà si leva un ostacolo naturale che più sconfinato non si può: il mare, anzi, l'oceano. Da Parigi, sua patria nonostante tutto, tutta presa dalla frenesia dell'industrialismo ormai dominante (che vedrà il suo coronamento, da lì a poco, nell'innalzamento della Tour di ferro), Gauguin, affronta l'avventura marinaresca; ma non ce la fa ad essere ammesso alla scuola navale. Il guerriero inca che è in lui non si arrende e s'imbarca come allievo pilota in un mercantile. Risultato: viaggio di andata e ritorno da Le Havre a Rio de Janeiro con la bella attraversata (naturalmente) dell'Atlantico. Non basta, vi saranno altri viaggi e, alcuni, di tipo militare a bordo di una corvetta partecipante alla guerra franco-prussiana.
Allo scadere del suo ventitreesimo compleanno, Gauguin avverte i primi sintomi di un'altra passione, che, da quasi subito, sarà il manifesto della rappresentazione del suo mondo ideale: la pittura. Non c'è nessun maestro che lo suggestioni con la forza dei suoi dipinti, nessuna illuminazione, come per esempio per Bacon, sulla strada che saprà percorrere da autodidatta, contro tutte le mode, con estremo coraggio e suprema originalità. Si accosterà a quest'arte, del tutto nuova per lui, con scrupolosa ma attenta modestia. L'impressionismo allora imperversante lo abbaglia con le sue luci spezzate alla Monet, con il puntinismo e le lunghe ombre portate sui prati dei lungosenna alla Seurat, con i dipinti tourbillion di Van Gogh, e con le prime ribellioni di Cézanne. Tutto questo mondo pittorico lo impressiona ma non lo cattura; tant'è che vi si cimenta con grande facilità e con esiti felicissimi, come si può constatare ammirando una delle sue tele realizzate sotto la suggestione della moda pittorica allora più popolare e soprattutto per fare grazia al suo amico e promotore Pissarro, Nudo di donna che cuce (Fig. 1, 1880). L'atmosfera del quadro non possiede l'intimità dei nudi di Degas, né, tanto meno, la fluidità tonale dei ritratti di Renoir; ma tradisce di già, sintomaticamente, l'imminente evoluzione della sua arte con la prevalente rappresentazione della figura femminile.
Il conflitto, se così si può dire, uomo-artista si riacutizza con la sua decisione di riprendere la rotta verso l'America. Gauguin e il suo amico Charles Laval approdano a Panama, dove danno una mano (come sterratori) ad aprire il canale e, quindi, volgono le vele verso l'isola della Martinica. Benché provato e malato, l'esotismo e il primitivismo della popolazione locale lasciano senza respiro Gauguin: nell'isola delle Piccole Antille, realismo e sogno di un'umanità più autentica e schietta si confondono in immagini di vita che lo suggestionano fortemente.
Tornerà in Francia segnato dalle stimmate della Martinica, e, a quarant'anni, Gauguin avrà modo di confrontarsi con l'esotismo del paesaggio e dei costumi della gente quasi simile a quello della Martinica: a Pont-Aven, in Bretagna. Qui si costituisce una sorta di cenacolo di pittori ammirati del primitivismo e della tecnica pittorica di Gauguin. Presi insieme dall'ansia di opporsi al cosiddetto naturalismo paesaggistico (chimico secondo Gauguin) degli impressionisti, studiano come defilarsene. Ne vien fuori una pittura nuova che vedrà signoreggiare soprattutto Gauguin. La pittura non deve essere descrittiva o variamente rappresentativa, ma deve avere la forza di esprimere moti interiori, di suscitare emozioni, allusioni, rimandi: si radicano in questa scelta i prodromi del fauvismo, del simbolismo e, addirittura, dell'espressionismo. Si faranno promotori di questa nuova corrente i pittori Nabis (profeti in ebraico), corrente che, anche in Italia, avrà illustri rappresentanti, per esempio in Gino Rossi, Arturo Martini e, poi, in Felice Casorati.
Nel pieno del soggiorno bretone, Gauguin, con un fervore pressoché euforico scopre una nuova tecnica, scaturita dall'interesse sul Medioevo - che si va diffondendo in questo tempo - e dall'osservazione delle vetrate delle cattedrali gotiche: tali vetrate, campeggiate a tinta unita e bordate di metallo, come si sa, senza sfumature cromatiche e ombre proprie, semplificano al massimo l'espressività delle raffigurazioni. È quanto cercano i Nabis, impegnati a dissodare la stessa pittura impressionista, così colorata, così frammentata. Alla stregua delle vetrate medievali, allora, le tele, per esprimere sinteticamente, e perciò fortemente, il significato delle proprie immagini, debbono ridurre fino ad annullare il loro tradizionale apparato di accorgimenti e dettagli. Possono, quindi, bastare campiture piatte, colori vivaci, profili marcati.
Gauguin, grazie anche all'input fornitogli dal giovane pittore Paul Sérusier, intuisce la portata dell'innovazione e la fa propria: il suo sogno può mettere le ali. L'utopia di un'umanità schietta, semplice, incorrotta e incorruttibile dispone finalmente del mezzo per essere rappresentata: la rinascita della luce gotica, che penetra a fasci l'interno delle cattedrali, illuminando il buio delle navate, torna a compiere il miracolo dello svelamento di un bisogno ancestrale: la ricerca, in una società smarrita, di ideali rigeneratori. A Gauguin non basta più neppure la pittura, che pure lo aveva colpito, di Van Gogh, con il quale, anzi, per completa incompatibilità, interrompe - e si sa con quale esito - qualsiasi rapporto.
Avverte che la realtà gli sta sempre più stretta, torna in Bretagna e qui, per riprendere a respirare l'aria che gli è più congeniale, dipinge, tra altre opere, La belle Angèle (fig. 2, 1889). Trattasi di un dipinto alieno. Non s'era mai visto un ritratto con cotali sembianze - se non forse in Van Gogh e Millet - né tanto meno una figura di contadina assurgere alla gloria della tipica rappresentazione nobiliare. La donna è compresa in un cerchio che la isola dal resto del quadro, dove campeggia un idolo (orientale?). Paiono due mondi contrapposti o forse solo accostati per un tentativo simbiotico, apparentemente impossibile, di due mondi primitivi, non selvaggi ma rivelatori della vera natura umana: un candore specchiato di intenti e di costumi a confronto con una deità, estranea sì, ma, proprio per questo, capace di ricondurre a sentimenti ancestrali, porte schiuse ad un inaudito e insospettabile misticismo.
Non lo rinfranca neppure una delle poche aste di sue opere andate a buon fine e, inaspettatamente, saluta con un pranzo parenti e amici e decide di sparire, dopo qualche esitazione sulla scelta della meta, agli antipodi, nella Polinesia Francese, destinazione Tahiti. Qui ritrova la luce, il paesaggio, la gente, i costumi, i miti intravvisti a Pont-Aven: la patria vera del primitivismo e dell'esotismo. Anche in quest'isola dovrà scontrarsi con la realtà. Le autorità locali, civili e soprattutto quelle religiose, lo accusano, le prime, di comportamenti ribelli, le seconde di condotte scandalose e travianti.
Gauguin aveva sempre abbassato le armi di fronte alle grazie femminili: nella doppia permanenza in quest'isola (1891-1893 e 1895-1901) e, finalmente(1901-1903), nell'isola Hiva-Hoa (Dominica), si accompagna via via con Titti, Tehura (13 anni), Pahura, Marie Rose Vascho (14 anni), che gli elargiscono , in aggiunta ai cinque di Francia, altri figli.
Malato e assolutamente demoralizzato per la considerazione in cui è tenuta la sua arte in Europa, non abbandona tuttavia il suo sogno, che, anzi, vive personalmente nelle suggestioni dei miti maori, del paesaggio e delle figure femminili locali.
Tra i tanti capolavori ispirati da queste suggestioni, alcuni sono i più indicativi. In particolare con Lo spirito dei morti veglia (fig. 3, 1892) si è fortunati potendo leggere quanto, a proposito di questa tela, Gauguin scrive alla moglie di quali contenuti avesse voluto riempire la sua opera. Intanto un'annotazione tecnica, metaforicamente musicale: "Ritmo di linee orizzontali; accordi di arancione e blu, con passaggi di gialli e viola, loro derivati, accesi da scintille verdastre". L'artista, come si vede, dà l'addio ai colori complementari cari agli impressionisti preferendo ad essi quelli binari. E poi una spiegazione con la quale vuole esprimere la paura che i maori hanno della morte: "Non vedo che paura. Che tipo di paura? Non certo quella di una Susanna sorpresa dai vecchioni: in Oceania tutto ciò non esiste. Quel che ci vuole è il Tupapau (Spirito dei morti). Per i maori è un incubo costante..."2). E, infatti, quello che si vede è una ragazza nuda, coricata bocconi su un letto coperto da un pareo blu e da un lenzuolo giallo. Una ragazza evidentemente terrorizzata dai fantasmi che sa presenti nel buio. Lo sfondo è di un viola da paura (altro colore binario) e, seduto come su un trono, si intravvede, orribile, Tupapau, vestito d'un saio nero come la peste, e con spaventevoli occhi bianchi che luccicano nell'oscurità della notte.
In Giocosità (fig. 4, 1892) entra invece in gioco il paesaggio tahitiano, animato come in un'immagine folkloristica, da bellezze locali in pose e atteggiamenti diversi. In secondo piano due ragazze, l'una che suona il flauto e l'altra in ascolto. Sullo sfondo tre ragazze sospese nell'atto di danzare il tamuré. E in primo piano, a confidare nella concordia primigenia e primitiva uomo-animali-natura, un cane inverosimilmente arancione. Il paesaggio è tutto assorbito in quest'atmosfera di giocosità, vibrante di echi musicali accompagnati in sodalizio dalle movenze armoniose delle danzatrici.
Ma è in Donne di Tahiti (fig. 5, 1891) che Gauguin restituisce quella che deve essere, almeno in certi momenti e in certi luoghi, una delle caratteristiche della natura del'isola: il silenzio. Le due donne raffigurate nei loro festosi pareo, pur così vicine e comprese, non comunicano, gli sguardi sono distanti, forse esse stesse ascoltano il silenzio.
Gauguin, discepolo del sogno, promotore dell'utopia, viene però sconfitto dalla realtà quanto mai crudele e inesorabile. Malato grave, termina la sua vita un po' come l' amico d'antan Van Gogh: entrambi non avranno un funerale che dicasi tale. A quello di Gauguin sono presenti solo uno stregone maori e un prete protestante. Così soccombe il sogno di un artista, infranto da una dura e cruda realtà.
di
Luigi Musacchio
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1)«La filogenesi è un processo evolutivo degli organismi viventi dalla loro comparsa sulla Terr
a oggi» (Rita Levi Montalcini, La Galassia Mente, Baldini & Castoldi, Milano, 2001).
2) Gauguin,I classici dell'arte (Rizzoli-Skira, Corrire della Sera)