Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino all’8 Ottobre 2023 si potrà ammirare al Castello Aragonese di Conversano Bari la mostra dedicata ad Antonio Ligabue a cura di Francesco Negri e Francesca Villanti. L’esposizione  prodotta e organizzata da Arthemisia e nel contempo promossa e sostenuta dal Comune di Conversano Città d’Arte e Museco – Musei in Conversano, con il contributo della Regione Puglia, con il patrocinio del Ministero della cultura, della Città Metropolitana di Bari, di Pugliapromozione e del Teatro Pubblico Pugliese, in collaborazione con Comune di Gualtieri e Fondazione Museo Antonio Ligabue.  Per la prima volta grande mostra di Antonio Ligabue in Puglia, certamente non si può parlare dell’arte di Ligabue senza conoscerne la vita, né si possono capire le sue opere se non si entra nel mondo di quel piccolo uomo sfortunato e folle, pieno di talento e poesia. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Antonio Ligabue che è divenuta modulo monografico e seminario universitario apro il saggio dicendo : L'atto di creare arte è un percorso che è conosciuto e interessa solo l'essere umano e gli permette di osservare e ricreare il mondo che percepisce tanto all’esterno quanto dentro di sé. L'arte è un veicolo per l'espressione di emozioni intense, ricordi profondi, un modo per riflettere su paura, dolore, memoria in un luogo sicuro, un mezzo catartico di salvezza interiore e un viaggio nelle profondità dell'animo umano. Paul Cèzanne  credeva fortemente nella dimensione salvifica della sua arte, tanto da aver detto “Non essere un critico d’arte, ma dipingi, lì si trova la vera salvezza”. Il pittore francese post-impressionista era convinto della correlazione tra arte e individuo e ne provò il potere in prima persona. Non fu il solo. Paul Gauguin   ha descritto l'importanza e il potenziale della creazione e della visualizzazione di opere d'arte come veicolo di guarigione, mentre la pittura di Edvard Munch impregnata dei suoi drammi esistenziali e di sofferenza, è stata l'espressione più radicale del suo tumulto interiore: le sue opere d'arte in qualche modo lo hanno aiutato a spiegare a se stesso la vita e il suo significato. L'arte è un processo terapeutico attraverso cui un individuo esplora le proprie emozioni, si riconcilia con i propri conflitti emotivi, forma la propria consapevolezza. L'arte ha anche permesso che la malattia mentale venisse considerata parte della condizione umana e non una circostanza aliena, lontana dalla sfera quotidiana e ordinaria. Antonio Ligabue , pittore e scultore italiano, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento e tutta la sua vita è stata caratterizzata da gravi disagi psico-fisici, a partire dal rachitismo, crisi nervose con picchi di stato maniaco-depressivo, malesseri continui e intensi che riuscì a mitigare con il suo mestiere di artista. L'espressione artistica riuscì a donargli sollievo dalle sue inquietudini, dalle ossessioni e dalla solitudine. Gli animali Ligabue li osservava e li studiava nelle campagne, nei boschi, nelle paludi: predatori, prede, vittime e carnefici sono tutti soggetti delle sue opere. Imparò a fidarsi di loro e a rispettarli, perché da loro non veniva giudicato, offeso, rigettato o internato, come spesso accadeva con gli altri esseri umani. Il suo girovagare, le sue escursioni, lo studio nomade nutrivano l'ardore che riversava nelle sue tele: Ligabue dipingeva con frenesia, con disordine, e mai in silenzio. Con la tela e con se stesso intratteneva un rapporto impetuoso: si rimproverava, si elogiava, spesso a ogni pennellata abbaiava o miagolava se il soggetto della sua opera erano un cane o un gatto. Era talmente immerso nel suo lavoro da ricreare e imitare i versi, le pose, le posture degli animali e bestie selvatiche ritratte, immaginandone le azioni e i comportamenti. Per questo veniva giudicato, schernito, accusato di essere abitato dal demonio, posseduto, bollato come un uomo strano, “Toni al mat”, che entrava e usciva dai manicomi e ululava alla luna. Quella possessione creativa coincideva alla perfezione con il pensiero di Schopenhauer , secondo cui questa è privilegio esclusivo del genio, “colui che fa penetrare un raggio di luce nell'oscurità dell’esistenza”. L’arte come terapia, la pittura e la scultura come antidoti all’ossessione e al disagio. Tela, pennello e colori come strumenti per l’affermazione di un uomo perseguitato dal destino e irrimediabilmente solo. Antonio Ligabue è stato considerato l’apripista italiano della pittura naïf, la corrente che raggruppava gli autodidatti dell’arte. Ma la definizione può apparire riduttiva, visto che il genio di “Toni el matt” così lo chiamavano nella Bassa Reggiana, dove Ligabue visse gran parte della sua vita adulta non era facilmente inquadrabile. Proprio per questo ebbero scarsa fortuna i molti pittori che, dopo la sua morte, cercarono d’imitarlo, ma che erano privi di quell’autentica follia, libera da vincoli e non piegata al lucro, che animava soltanto lui, il “matto del Po”. Ripercorrere la sua biografia è la sola strada che consenta di comprendere davvero l’arte disperata e senza compromessi di cui Ligabue fu artefice. A partire da un’infanzia e un’adolescenza contraddistinte da abbandoni e privazioni che lo segnarono in profondità, nel corpo e nella mente. Antonio Ligabue nacque a Zurigo il 18 dicembre 1899, figlio di Maria Elisabetta Costa, originaria del Bellunese, e di padre ignoto. Venne registrato all’anagrafe con il cognome della madre, salvo poi acquisire quello del padre adottivo, Bonfiglio Laccabue, nato a Gualtieri (Reggio Emilia), quando due anni più tardi costui sposò Maria Elisabetta e lo riconobbe. In età adulta, Antonio avrebbe però mutato il cognome in Ligabue, come a segnare una distanza da quel padre acquisito che riteneva responsabile della morte della madre, deceduta nel 1913 per intossicazione alimentare insieme a tre dei suoi fratelli. Con la famiglia naturale, il piccolo Antonio non visse mai. Già a un anno d’età venne affidato a Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann, una coppia di svizzeri tedeschi non più giovani e senza figli, con cui il bimbo instaurò un rapporto profondo (in particolare con la donna) benché conflittuale. Le ristrettezze economiche della famiglia affidataria, costretta a spostarsi continuamente da un luogo all’altro in cerca di lavoro, e la conseguente impossibilità di garantire al bambino un’adeguata alimentazione aggravarono le malattie da cui era affetto e che lo rendevano d’infelice aspetto: gozzo e rachitismo. Ciò ne compromise lo sviluppo psicofisico e contribuì al suo isolamento, alla costruzione di un muro interiore che lo separava e difendeva da una realtà esterna vissuta come ostile. Una barriera che solo l’arte, anni dopo, seppe in parte infrangere. La difficoltà di apprendimento e i comportamenti scontrosi e bizzarri di Antonio indussero la famiglia a iscriverlo in istituti per ragazzi minorati, dove si cercava di avviare i giovani all’apprendimento di un mestiere. Ligabue ne cambiò tre in pochi anni e dall’ultimo, nel 1925, fu espulso per cattiva condotta. Due anni dopo, in conseguenza di una violenta crisi nervosa, arrivò il primo ricovero in una struttura per malati psichici. Dimesso, Antonio tornò dalla famiglia adottiva, ma solo per brevi periodi, alternati a lunghi vagabondaggi, duranti i quali si manteneva offrendosi come lavorante nelle fattorie. Nel 1919, a seguito di una denuncia della madre affidataria, fu espulso dalla Svizzera e accompagnato a Gualtieri, la città natale del padre adottivo Bonfiglio. Qui l’isolamento del giovane divenne ancora più drammatico, anche perché parlava solo il tedesco. La sua esistenza riprese errabonda sulle rive del Po, dove Ligabue si offriva a giornata come bracciante o manovale ospitato nelle fattorie o trovando riparo in capanne lungo il fiume. Più spesso sopravviveva grazie all’aiuto dell’Ospizio di mendicità Carri. Soltanto il disegno, e in seguito la pittura e la scultura, sembravano offrire sollievo alle sue ansie, dando corpo ai fantasmi che non riusciva a far emergere a parole, penalizzato da un vocabolario limitato, un misto quasi incomprensibile di italiano, tedesco e qualche parola di dialetto. Le prime prove furono caratterizzate da un’assoluta istintività: quadri a tinte sbiadite e contorni sfumati, ma che già recavano in embrione il segno di un talento autentico e originalissimo, oltre alla predilezione per le tematiche naturali. Campi, boschi, scene di vita contadina sarebbero stati i soggetti preferiti della sua intera vita artistica. Disegnava soprattutto animali, selvatici o domestici, gli unici esseri con i quali Ligabue sentiva di avere una relazione stretta. “Io so come sono fatti anche dentro” spiegava. Erano i soli in grado di accettare la sua diversità di uomo e di artista. Negli anni Venti, l’incontro con il pittore e scultore Renato Marino Mazzacurati, che seppe scorgere il genio in quel giovane nomade e scorbutico che viveva ai confini della società, gli aprì nuove frontiere. Mazzacurati lo introdusse alla tecnica della pittura a olio e, contemporaneamente, corresse la patina di dilettantismo delle prime opere. Più consapevole della propria arte, Ligabue vi si concesse anima e corpo, pur continuando a vivere la sua vita nomade nelle campagne intorno al Po. Non aveva bisogno di modelli: dipingeva attingendo alla sua straordinaria fantasia e alla memoria visiva. Una memoria che tutto registrava, dai libri ai film, e tutto era in grado di riprodurre, filtrato attraverso una sensibilità speciale, per fissarlo in scene potenti ed evocative. Erano opere realizzate di getto, senza disegni preparatori: Ligabue partiva da un particolare ma sembrava già avere in mente tutto il dipinto. Spesso incominciava dalla testa del soggetto principale, poi procedeva a tratteggiarne il corpo, quindi toccava agli altri elementi e infine al paesaggio sullo sfondo, evitando ritocchi e ripensamenti. Tra gli anni Venti e Trenta, Ligabue diede vita a una produzione forsennata: dipingeva per sopravvivere, in cambio di vitto e alloggio, senza mai datare i dipinti, pratica che avrebbe reso arduo ogni tentativo di catalogazione coerente della sua opera. Ma se l’arte gli offriva i suoi soli momenti di serenità, non poteva bastare a placare le angosce che, nel 1937, lo portarono di nuovo in manicomio, dopo aver compiuto alcuni atti di grave autolesionismo. A farlo uscire dall’istituto psichiatrico fu un altro artista, lo scultore Andrea Mozzali, che lo ospitò nella sua casa di Guastalla. Ligabue riprese a battere il Po e le sue terre, aggirandosi per le campagne, ripetendo ossessivamente “Dam un bès!” (dammi un bacio): un disperato tentativo di carpire un gesto d’amore che gli era stato sempre negato. Durante la Seconda guerra mondiale fu impiegato come interprete delle truppe tedesche, anche se sul finire del conflitto proprio l’aggressione con una bottiglia a un soldato del Reich gli valse un nuovo ricovero, stavolta per tre anni. Tornato libero, alla fine degli anni Quaranta sviluppò una pittura più matura, dai tratti decisamente espressionisti. Gli animali, dapprima statici, presero improvvisamente vita per farsi dinamici: galli sgargianti, leoni mostruosi, aquile e serpenti venivano ritratti in crude scene di lotta, con le fauci spalancate, quando avevano già ghermito la preda. Il cromatismo si fece acceso, la pennellata convulsa e spessa. L’artista chiamava a raccolta il suo bestiario esotico, trasferendolo in riva al Po, per mettere in scena il conflitto e la violenza che avevano segnato la sua vita. Un destino mai scelto ma sempre subìto, che faceva di lui un ostaggio, più che un protagonista, della sua stessa esistenza. In questo periodo cominciarono a comparire i primi autoritratti (ne avrebbe dipinti oltre trecento): l’inizio di un convulso tentativo di dare forma al proprio “io” inespresso. Di tali prove non si sarebbe mai detto completamente soddisfatto, tanto da arrivare al gesto estremo di martoriarsi il volto solo per renderlo simile al dipinto. Poco prima degli anni Cinquanta la critica cominciò a interessarsi al “matto del Po”, il pittore autodidatta. Oltre che l’artista, era il personaggio a catturare l’attenzione di giornalisti e mercanti d’arte. La prima mostra personale fu allestita nel 1955 a Gonzaga, e l’anno successivo Ligabue partecipò al “Premio Suzzara”. Nel 1957, il “Resto del Carlino”, quotidiano di Bologna, inviò a Gualtieri, per intervistarlo, un celebre giornalista, Severo Boschi, insieme al fotoreporter Aldo Ferrari. Ne nacque un servizio che diede al pittore ulteriore visibilità. Così, nel 1961, venne allestita la sua prima mostra personale alla galleria La Barcaccia di Roma. I tempi delle ristrettezze economiche erano  finalmente alle spalle e Ligabue, artista ormai riconosciuto dalla critica ufficiale, poté dedicarsi ad alcune sue passioni, tra cui la motocicletta. Le due ruote, però, lo tradirono: Antonio subì un incidente, e l’anno dopo una paresi ne rallentò ulteriormente l’attività. Menomato nel fisico e nella mente, dopo aver chiesto di essere battezzato e cresimato, morì il 27 maggio 1965 e fu sepolto nel cimitero di Gualtieri, dove sulla lapide venne posta una maschera funebre in bronzo realizzata da Mozzali. Poco dopo la morte, gli fu dedicata una retrospettiva nell’ambito della IX Quadriennale di Roma: il “matto del Po” era diventato un genio dell’arte. L’esposizione si snoda attraverso i due poli principali lungo i quali si è sviluppato il suo percorso artistico: gli animali, selvaggi e domestici, e i ritratti di sé, senza dimenticare altri soggetti come le scene di vita agreste o i paesaggi padani, nei quali irrompono, come un flusso di coscienza, le raffigurazioni dei castelli, delle chiese, delle guglie e delle case con le bandiere al vento sui tetti ripidi della natia Svizzera, dov’era nato e dove aveva vissuto fino all’espulsione nel 1919 la memoria della patria perduta. Ligabue rappresenta sia animali domestici, colti in un’atmosfera rurale, sia gli animali selvatici - tigri, leoni, leopardi, gorilla, volpi, aquile - di cui conosceva molto bene l’anatomia, spesso raffigurati nel momento in cui stanno per piombare sulla preda, con un’esasperazione di carattere espressionista, sia nella forma sia nel colore, e con un’attenzione quasi spasmodica per la reiterazione di elementi decorativi. Gli autoritratti costituiscono un filone di altissima e amarissima poesia nell’arte di Ligabue. In essi, il pittore si colloca in primo piano, quasi a occupare tutto lo spazio della scena, sullo sfondo di un paesaggio che pare quasi sempre, salvo rare eccezioni, un dettaglio del tutto ininfluente. I suoi ritratti di sé compendiano una perenne e costante condizione umana di angoscia, di desolazione e di smarrimento, un lento cammino verso l’esito finale; il suo volto esprime dolore, fatica, sgomento, male di vivere; ogni relazione con il mondo pare essere stata per sempre recisa, quasi che l’artista potesse ormai solo raccontare, per un’ultima volta, la tragedia di un volto e di uno sguardo, che non si cura di vedere le cose intorno a sé, ma che chiede, almeno per una volta, di essere guardato.
La mostra è suddivisa in tre periodi: 
Primo periodo: 1927-1939
Le opere di questi anni sono ancora sgrammaticate, risentono di qualche incertezza tecnica e coloristica che però Ligabue riesce mirabilmente a superare grazie all’istintiva capacità narrativa. L’impianto formale è semplice e l’impaginazione è equilibrata: spesso si concentra su un’unica immagine centrale, con pochi elementi sullo sfondo. Il colore è steso in maniera così leggera da sembrare soffuso. È evidente l’eccesivo uso di acquaragia per far scorrere il pennello più facilmente sulla tela. I contorni delle figure non sono ancora definiti dal segno nero, come farà nelle opere a partire dalla metà degli anni ’30; l’insieme è reso con poche pennellate essenziali. La tavolozza è povera, i colori utilizzati sono prevalentemente il verde, il marrone, il giallo, il blu cobalto e si accosta alle terre naturali. Inizia a raffigurare i temi prediletti: gli aspetti della vita agreste, le scene con animali feroci in atteggiamenti non eccessivamente aggressivi; pochissimi gli autoritratti. Molte opere di questo periodo non sono firmate; la firma, quando compare, è in corsivo gotico. Sul finire di questi anni, dopo la conoscenza di Mazzacurati, la mano di Ligabue diventa più sicura, il dipinto assume una maggiore corposità e intensità tonale, un sempre miglior equilibrio compositivo.
Secondo periodo: 1939-1952
Nel secondo periodo, che va dal 1939 al 1952, la pittura di Ligabue si impadronisce dei segreti del colore e della linea. Egli inizia a strutturare forme sempre più complesse arrivando a riprodurre il movimento e l’azione, rendendo la narrazione più reale. I toni cromatici diventano più caldi e la materia pittorica acquisisce spessore. Il colore diventa lo strumento linguistico determinato anche dall’abitudine di Ligabue di non iniziare la composizione da un disegno preparatorio, preferendo dipingere senza esitazioni e senza seguire una traccia. Andrea Mozzali ricorda: “Ligabue quando doveva dipingere un quadro se lo figurava già tutto finito nella testa. Non faceva nessun disegno ma il quadro dipinto a olio lo cominciava da un particolare”. Riusciva così ad ottenere delle figure caratterizzate da una scabra potenza grafica in contrapposizione alla ricchezza lirica del colore, come i grandi illustratori primitivi. Egli comprende, attraverso un'attenta osservazione dei campi di grano, le splendide e numerose tonalità del giallo, di cui fa un uso ripetuto assieme alla terra di Kassel, il blu di Prussia e il rosso carminio. In questo secondo periodo Ligabue firma sempre in corsivo gotico preferibilmente con il colore rosso e ponendo a volte solo la a minuscola, iniziale del nome. In altre occasioni, principalmente nei quadri di piccole dimensioni, al posto della firma pone solo le due iniziali.
Terzo periodo: 1952-1962
Nel terzo periodo anche le fiere, già stilisticamente avanzate, acquisiscono una cura per il dettaglio che psi potrebbe paragonare a quella dei dipinti fiamminghi. La minuzia con cui si sofferma sui dettagli per catturare l’essenza del soggetto è confermata dagli splendidi manti delle tigri, dei leopardi, dal piumaggio dei volatili, che prendono vita nelle tele. Le angosce che percorrono la sua mente esplodono nell’aggressività degli animali e la loro impietosa lotta per la sopravvivenza. Punte quasi ossessive sono evidenti nella rielaborazione continua dello stesso esasperato tema iconografico. È il periodo più prolifico. L'artista, che ha ormai assimilato ogni segreto riguardo al "mestiere", è portato a volte, sia per eccesso di sicurezza, sia per le richieste dei committenti, a una notevole discontinuità di livello. Il segno nero intorno alle figure si fa vigoroso e continuo. Nella firma, quasi sempre rossa, la A iniziale del nome è ora maiuscola a bastoncino, il cognome sempre in corsivo gotico; ma spesso vi sono solo le iniziali. I colori maggiormente usati sono il giallo limone, il blu di Prussia, le terre di Siena, il giallo cadmio, il bruno Van Dyck e abbonda il bianco di zinco. È densa, in quest'ultimo periodo la produzione di autoritratti, diversificati a seconda degli stati d'animo vissuti al momento dell'esecuzione ma tuttavia sempre pervasi da una incontenibile tristezza.
Focus
Autoritratto
Nell’arco di quasi quarant’anni Ligabue dipinge oltre 123 autoritratti. Questa serie testimonia il forte desiderio di rivelare attraverso l’immagine i tratti essenziali della propria personalità. A partire dal 1940, anno in cui dipinge il primo autoritratto, l’artista indaga la propria figura in maniera ossessiva: gli occhi penetranti, le labbra carnose, le grandi orecchie a sventola, il naso adunco, il gozzo diventano le stigmate di una icona ormai famosa. In mostra ne sono proposti numerosi esempi a partire da una straordinaria e rara tela riconducibile al secondo periodo, fino ad arrivare a quelli degli ultimi anni in cui si ritrae con dei copricapi, segno di dignità, di autostima e anche semplicemente gusto del travestimento, come se fosse un gioco.
Paesaggio agreste
“Attraversava il nostro paesaggio quasi ignorato nella sua pittura perché venuto dall’estero con ogni cosa dentro” questa acuta riflessione di Cesare Zavattini riassume in maniera emblematica il ciclo pittorico legato al mondo contadino. La pittura di Ligabue è condizionata dal fortissimo legame con la Svizzera, sua terra d’origine, il microcosmo privilegiato dove si sente a suo agio come in nessun altro luogo. Da questa dimensione di pacato incanto nascono tanti piccoli capolavori, che descrivono la vita nei campi attinta nella verità di un mondo spiato da lontano, filtrata attraverso il ricordo della sua terra natale e alle immagini delle opere osservate da bambino, frammenti di un mondo che si porterà dietro mischiando ricordi e fantasia.
Animali
“Pittore di animali” è la definizione che dà di sé Ligabue già nel 1928. La stagione iniziale del suo lavoro è dedicata quasi esclusivamente agli animali, ne analizza i vari aspetti con una creatività a tutto campo, animato dalla volontà di cogliere, con eguale intensità, le espressioni deformate, la bellezza di un movimento o lo splendore di un colore. Egli si immedesima negli animali che vuole ritrarre, ne riproduce le movenze, sbatte le ali, ulula, pigola, ruggisce per poter diventare lui stesso una delle sue straordinarie fiere.
La sua fantasia lo porta in terre lontane, sognate e immaginate sfogliando qualsiasi libro trovasse a portata di mano o studiando con curiosità maniacale le famose figurine Liebig che riproducevano tutte le specie animali, anche le più remote.
Nudo di donna
 “A proposito di quei quadri, di Ligabue, che certamente sono andati perduti mi hanno detto che una volta dipinse una donna ignuda: una donna ignuda talmente sirena, o Circe o Calipso, o figlia del re dei Feaci, che tutti i barcaioli del Po se ne erano orgiasticamente innamorati: e da tanto che i più giovani (giacché la tavoletta della donna nuda era stata, intanto, posta in una specie di esposizione in un baracchino fluviale) pagavano trenta centesimi allo scopo itifallico di lustrarsi gli occhi, schiarirsi la vista e altre cose più amene”, tratto da L. Bartolini, Ligabue fantastico.
Sculture
Ligabue ha modellato pochissime sculture, circa un centinaio, molte delle quali non son arrivate a noi. Quelle plasmate prima del 1935 non venivano nemmeno cotte e molte sono state distrutte per incuria o scaraventate con rabbia contro una parete. Grazie ai calchi e alle fusioni in bronzo si è riusciti a conservarne pochi esemplari preziosi. Probabilmente la sua produzione delle sculture inizia molto presto, servendosi dell’argilla che si depositava nella golena dopo le piene del Po, una fanghiglia rossastra, solida, ben amalgamata, che i contadini della zona chiamavano “tivèr”. Concentrato al massimo nella sua ispirazione creativa, spesso impastava la creta con la bocca, quasi si trattasse della consacrazione di un rito arcaico, misto alla volontà di misurarsi in un rapporto fetale con la "divina materia".
Il postiglione
Le diligenze con castello e le carrozze con cavalli sono esempi di uno dei temi prediletti e reiterati di Ligabue. La serie è tratta dalle stampe popolari tedesche del secolo scorso e rimanda a una dimensione intensamente poetica e fiabesca, legata al ricordo che rimanda alla terra dalla quale non avrebbe mai voluto allontanarsi. Questa icona consente inoltre a Ligabue di mettere al centro del racconto ancora una volta un animale. I cavalli che trainano la carrozza diventano i protagonisti del quadro con le loro movenze. La potenza del movimento rappresenta un richiamo accattivante per l’occhio e l’episodio storico narrativo si trasforma in una evocazione fantastica.
Ritratto di Elba
Si tratta di uno dei rarissimi ritratti di questo periodo. La leggenda narrava che la piccola Elba fosse morta cadendo in un paiolo di acqua bollente. In realtà è Alda Bianchi, figlia di un mezzadro della Villa Malaspina a Gualtieri. Nel 1935 muore tragicamente ed i genitori desiderano poterne conservare un’immagine che li aiuti a mantenerne viva la memoria Antonio aveva stranamente legato con quella bambina, che rimaneva affascinata quando lo vedeva dipingere ed era gentile con gli animali. Il ritratto risulta essere, secondo numerose testimonianze, estremamente somigliante. La figura è rappresentata di tre quarti, lo sguardo straordinariamente intenso è perso nel vuoto; indossa l’abito della festa arricchito da una piccola collana d’oro. Lo sfondo è la sua Gualtieri, il paese dove è cresciuta, i prati disseminati di quei fiori che amava raccogliere. La bidimensionalità della figura è in netto contrasto con il paesaggio.
 
 
 
Castello Aragonese di Conversano – Bari
Antonio Ligabue
dal 25 Marzo 2023 all’8 Ottobre 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 13.30 e
dalle ore 15.30 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso