Prima ancora di affrontare – con la cautela che il caso impone – la lettura iconografica dei due “
Sposalizi” (
fig. 1 e fig. 2), urge una domanda: “Ma che cosa spinge lo studioso, l’appassionato, il semplice amante dell’arte ad interrogarsi sui contenuti nascosti nelle opere degli artisti più celebri? Trattasi di un impeto segreto, inspiegabile, che costringe a incamminarsi sulla
Via Francigena del bello, col desiderio non del perdono da invocare o della salvezza da implorare, ma con l’ansia di scoprire tesori, il vello d’oro della bellezza incontaminata, l’immagine pura e incorruttibile di una figurazione immateriale lasciata cadere nel tempo passato sulla tela, sulla tavola o sulla parete, capace – però – di custodire il tesoro di un puro incantamento, risultato di una mente geniale e di una mano divina. E tutto ciò a dispetto del tumulto dei tempi correnti, così distraenti, tempestosi, alieni dal concedere pause allo spirito, attimi di puro godimento interiore.
Eppure la “ricerca dell’arca perduta” non conosce tregua: avviene l’inverosimile. Dalle opere dei grandi si sprigiona una sorta di invocazione rivolta all’umanità, un appello senza fine, un richiamo a “riguardare” le meraviglie disegnate, dipinte e scolpite nel tempo non tanto per “stupire” quanto, alla
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stregua di una residuale, inaudita, ultima Parola, per “rimembrare” la dignità e la grandezza dello spirito umano. Non è il grido di dolore che pure si è sprigionato dalle distruzioni rovinose di
Palmira o di
Sabrata, ma la tacita testimonianza del bello custodita nei musei e nei siti archeologici del mondo, capaci di indurre sentimenti di orgoglio per l’appartenenza ad una schiatta comune e, come tali, da porre a sentinelle del bene tra i più preziosi: la bellezza, chiamata (forse per ultima) a salvare il mondo.
Perugino –
Raffaello, 56 anni e 21, sono le due “età” nelle quali, praticamente
in contemporanea il maestro e il non più allievo
gareggiano (si fa solo per dire) nella rappresentazione dello stesso soggetto ispirato alle “nozze” di
Maria.
La visione dell’insieme viene da lontano, germinando dall’idea mentale della
città ideale che, per esempio, era stata già di
Jan Van Eyck (1390-1441). La si può intravvedere, infatti, nel suo monumentale
Polittico dell’Agnello mistico (1426-1432)
(fig. 3): al colmo dell’altura che sovrasta un disteso

paesaggio – ove, tra una moltitudine di figure, presumibilmente si celebra il tema della Redenzione – fa capolino il panorama parziale di una città dalle alte torri, a loro volta sormontate da una cattedrale architettonicamente ispirata al gotico, dalle cupole a piramidi svettanti, è, senza alcun dubbio, una rappresentazione ideale dipinta nel sentore di un mondo nuovo di là prossimo a venire.
Altra verosimile rappresentazione di
città ideale è pure ravvisabile nelle
Porte a tarsie lignee (1476-1477) (
fig. 4) di
Francesco di Giorgio Martini: una via a prospettiva centrale, specchiata a scacchiera e fiancheggiata da edifici a due piani perimetrati da colonne ed aperture ad archi, cattura lo sguardo spingendolo verso il punto di fuga, ove in lontananza è visibile la
città, ormai divenuta luogo ricorrente e utopia nella sensibilità artistica del tempo.
Ma è nella
Città ideale (ca. 1490), conservata nella
Galleria nazionale delle Marche di Urbino (
fig. 5), opera classificata di
Anonimo, che si riscontrano tutti gli elementi di una futuribile organizzazione urbanistica: scenario quanto mai utopico, visione prospettica centralizzata ad

altezza d’uomo, rigorosa simmetria a scenario e, nel mezzo, immancabile tempio circolare, icona di perfezione e bellezza.
Perugino e
Raffaello – nella consapevolezza più prossima allo spirito rinascimentale – colmano di umanità il
deserto della pregressa
città ideale con le piazze sgomente, ove s’aggiravano solo fantasmi di figure umane e si scorgevano edifici disabitati, nudi nella loro fredda e metafisica architettura. Il “paesaggio” non è più quello solo naturale di
Van Eyck. Ritorna la “piazza” della
Città ideale di
Anonimo, ugualmente tirata a scacchiera, ma popolata e animata da una leggiadro, piccolo stuolo di persone, convenute per assistere, quali testimoni privilegiate, alle mistiche nozze di Maria.
Della tanto vagheggiata
città ideale sopravvive soprattutto, nella sua metafisica magnificenza, il tempio. Nelle due pale d’altare esso sovrasta la piazza, il crocchio dei personaggi e il lontano paesaggio. È il tempio che celebra il connubio tra terra e cielo, imprescindibile anello di armonia onnicomprensiva, monumento e pantheon di perfetta e definitiva comunione di ispirazione ideale e compimento estetico. Il tempio non è precluso agli accessi; anzi – sia in Perugino che in Raffaello – presenta aperture, a mo’ di sintomatici inviti alla sua visitazione, resa possibile da un interno illuminato da lanterna (in Raffaello) e pareti finestrate.
In entrambi gli artisti, maestri di prospettiva (e Raffaello anche di ottica), oltre quello celebrato nel dipinto, v’è un altro “sposalizio”: nelle due pale centinate, le linee rette
si coniugano a meraviglia con quelle curve, creando sottili e pressoché inavvertibili corrispondenze, nonché (specialmente in Raffaello) un significativo coinvolgimento dello stesso osservatore all’evento rappresentato.
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I personaggi dell’urbinate appaiono tutti come sospesi in un’aria di mistica compunzione(
fig. 6). Si direbbe che nei loro volti non vi sia traccia di emozione, neppure in Maria, né in Giuseppe, né – tanto meno – nei testimoni che presenziano al rito: come se tutto fosse ineluttabilmente già scritto e destinato a perpetuarsi in eterno. Il giovane pretendente, in primo piano, che piega e spezza il suo bastone non fiorito, al di fuori dell’amorevole consesso, non rompe l’armonioso dispiegamento degli astanti, che paiono fare da corona di base al superiore arco centinato. Tali personaggi non tradiscono emozioni di sorta perché “sanno” che le emozioni durano lo spazio di un attimo e invece essi sono destinati a durare nel tempo, compresi solo dell’orgoglio di appartenere ad una bellezza senza durata.
Non altrettanto verrebbe da dire sul conto dei personaggi che compaiono sulla tavola del Perugino. Essi non sembrano neppure partecipare alla cerimonia nuziale: alcune tra le figure femminili discorrono tra loro (
fig. 7). Colpiscono, tra l’altro, i loro bizzarri copricapo non
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propriamente consoni alla circostanza. Sono disposti, quasi allineati, su un unico, compatto primo piano, dove anche il giovane deluso, quasi inosservabile, piega il suo bastone confuso nel gruppo dei convenuti. Le loro pose, alquanto rigide, la postura dritta e solo apparentemente sacrale del sacerdote, non presentano la spontanea naturalezza che si apprezza nella tavola di Raffaello.
Vi sono ben altri motivi d’interesse iconografico che qui non pare il caso di rilevare, tanto sono detti e ripetuti in tutti i manuali di storia dell’arte.
Ma un aspetto particolare torna d’uopo forse sottolineare: ogni grande opera d’arte cela una specie di misterioso codice segreto, quasi un sortilegio: sia lo
Sposalizio di Perugino che quello di Raffaello non sono muti testimoni di una sia pur luminosa stagione artistica. Esse
interrogano l’osservatore , ancora oggi, quasi reclamandone la condivisione di un patto, affinché, da questo incredibile e immancabile dialogo, sortisca un impegno a immaginare una realtà sempre nuova, non simulacro di crisi perenne ma desiderio e ardimento, sul piano non solo estetico, di continue conquiste.
Negli anni in cui Perugino e Raffaello completavano gli Sposalizi , un altro genio poneva mano alla Gioconda, altra formidabile icona di insuperata, sublime arte pittorica;
e un altro, ancora, senza porre in pausa le sue fatiche scultoree, dipingeva il Tondo Doni. Si può verosimilmente pensare che queste opere, così sovranamente impastate di sovrumana bellezza, non diventino artefici di insopprimibili impulsi a bene pensare ed operare? In esse opera il codice segreto dell’avvenenza fatale, che si aggira per pinacoteche e musei e che presidia, fantasmagorica cariatide – c’è da scommetterci – lo spirito del mondo.