Giovanni Cardone Marzo 2022
Fino al 16 Ottobre 2022 si potrà ammirare presso Sottopasso di Piazza Re Enzo Bologna la mostra Pier Paolo Pasolini . Folgorazioni figurative a cura di Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli. Promossa dalla Cineteca di Bologna, nell’ambito delle celebrazioni del Comune di Bologna e di quelle del Comitato nazionale per il Centenario della nascita di Pasolini, con il patrocinio di Alma Mater Studiorum Università di Bologna, il sostegno del Ministero della cultura e della Regione Emilia-Romagna, la partnership con Tper con cui è realizzata la galleria di vetrofanie che ritraggono Pasolini esposte nelle pensiline della città e Trenitalia Tper. Con visite guidate a cura di Bologna Welcome, mentre quelle per le scuole saranno a cura del progetto Schermi e Lavagne della Cineteca di Bologna, inaugurando così i nuovi spazi espositivi del Sottopasso di Piazza Re Enzo nel cuore di Bologna, la città dove Pasolini nacque il 5 marzo 1922. Non si tratta di rammentare un semplice dettaglio anagrafico, ma di seguire una traccia,importante. Dalla pittura, che imparò ad amare tra i banchi dell’Università di Bologna agli inizi degli anni Quaranta, al cinema, che lo vide protagonista di una meravigliosa stagione negli anni Sessanta e Settanta. I capolavori dell’arte medievale e rinascimentale rivivono nel cinema di Pier Paolo Pasolini, sono riferimento visivo costante delle sue inquadrature, fonti d’ispirazioni o financo tableaux vivant. Le Folgorazioni figurative furono quelle che illuminarono lo sguardo del giovane Pasolini, quelle che la mostra realizzata dalla Cineteca di Bologna ricostruisce mettendo a confronto le immagini della grande tradizione pittorica e quelle dei film di PPP, lungo un percorso cronologico che va dall’esordio di Accattone nel 1961 all’ultimo, postumo, Salò del 1975. Nella vita di Pasolini Bologna ha lasciato una traccia fondamentale nella sua formazione di una delle anime più sensibili del nostro Novecento, dalla nascita, appunto, agli anni del liceo e dell’università, con un maestro come Roberto Longhi che ne plasmò lo sguardo e lo instradò verso una passione, quella per l’arte figurativa, che lo accompagnerà lungo tutto il suo poliedrico percorso creativo. Una vera e propria folgorazione.

Come afferma Marco Antonio Bazzocchi nel saggio introduttivo al catalogo della mostra, pubblicato dalle Edizioni Cineteca di Bologna, “Pasolini ha imparato a leggere i dipinti negli anni Quaranta, grazie all’insegnamento di Roberto Longhi, che nell’autunno del 1941, a Bologna, in via Zamboni 33, ha spiegato a un ristrettissimo gruppo di studenti le differenze tra la pittura di Masaccio e quella di Masolino. Per farlo ha usato una tecnica critica assolutamente nuova, proiettando sullo schermo dell’aula i vetrini che riproducono le immagini di alcuni particolari delle opere d’arte analizzate. Lì, dai particolari, dai frammenti di un’opera, Longhi ricostruisce lo stile dell’artista, sa distinguere le fasi del suo percorso, le sa mettere in rapporto con quello che viene prima ma anche con quello che verrà poi. Particolari e frammenti di realtà, un viso, una mano, un lembo di veste. Corpi sezionati, esaminati a pezzi, osservati come oggetti d’amore. Per Pasolini in quei vetrini si consuma una folgorazione dove prende posto tutto il suo mondo futuro: la sua idea della Realtà come oggetto unico di attenzione, il bisogno di leggere sempre nei volti l’alterità, la diversità, la spinta a uscire fuori di sé per conoscere il mondo, e infine la carica erotica. Ogni film di Pasolini è progressivamente la costruzione di una bellezza che saccheggia ampie zone dell’arte italiana o europea per ridare dignità espressiva a ciò che non la avrebbe. I suoi film, complessivamente, disegnano una storia dell’arte in forma di cinema”. La mostra secondo i curatori Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli: “sarà un itinerario figurativo all’interno dell’immaginario di Pier Paolo Pasolini: ogni sezione corrisponderà a uno snodo fondamentale del suo percorso artistico e formativo, dall’insegnamento di Longhi alla pittura friulana, dalla scoperta di Roma e del cinema all’amore per le culture arcaiche, alla condanna della massificazione consumistica. Il filo conduttore del percorso sarà dato dai dipinti e dai disegni dell’arte della grande tradizione italiana e internazionale e di quella contemporanea che Pasolini ha assorbito nel proprio sguardo e ha rielaborato e reinventato nelle sue opere creando un immenso sistema visivo-scritto. Ogni sezione avrà un tema centrale che verrà illustrato dalle riproduzioni pittoriche e dai testi di Pasolini che le accompagnano, oltre che da audiovisivi comprendenti sequenze dei suoi film e dei suoi interventi. Così l’intera opera di Pasolini e il percorso del suo pensiero e del suo immaginario verranno raccontati attraverso un montaggio di immagini che corrisponderà a un racconto visivo”. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pier Paolo Pasolini che è divenuta seminario e convegno universitario apro il mio saggio dicendo : Penso che chiunque si approcci alla vicenda di quest’autore nato a Bologna, vissuto in Friuli e innamorato di Roma e dell’Africa, deve porsi questa domanda. Forse senza cercare a tutti i costi di darsi una risposta. Autore di romanzi, racconti, saggi, articoli, interventi critici, poesie, lettere, film, sceneggiature, opere teatrali, dipinti: Pasolini è stato il primo vero, autentico, consapevole autore multimediale e transmediale della storia italiana. Sappiamo tutto. Nel sarcofago artistico di Pasolini è rimasto qualcosa di ancora non mummificato, sfuggito miracolosamente (o quasi) alla retorica che lo ha inevitabilmente etichettato come un “intellettuale scomodo”. Pasolini è finito nel dizionario. È stato istituzionalizzato, parafrasando uno dei suoi snodi analitici in Empirismo eretico. Forse è qualcosa che non avrebbe voluto, perché il dizionario è borghese. E diventare un qualcosa, peggio che qualcuno, di borghese, indica la morte. La propria e quella delle proprie opere. La prima fisica e bestiale, la seconda tecnica e procedurale. Nel corso della sua multiforme carriera artistica, Pasolini ha lasciato dietro di sé un nutrito numero di opere incompiute, tra le quali l’esempio più celebre è senza dubbio rappresentato dal romanzo Petrolio. È in ambito cinematografico, però, che egli ha tramandato ai posteri il maggior numero di progetti non realizzati. Si tratta di un insieme variegato di soggetti, trattamenti e sceneggiature sparsi qua e là tra libri, riviste ed edizioni critiche che però non sono mai stati tradotti in film. E non solo perché il poeta-regista-scrittore-giornalista-saggista ci è stato strappato prematuramente. Se da un lato possiamo affermare che una persona muore quando smette di vivere, dall’altro come possiamo definire “la morte di un’opera artistica”? Nel caso di un romanzo, di un fumetto, di un disegno, di una scultura, di una chiesa è (ancora una volta) semplice: il suo mancato completamento, il non essere finito. Ma nel caso di un film il discorso si complica. E si complica perché il film si scrive, si disegna, si gira e si monta. Dunque in quale di queste fasi sopravviene la morte di un film? La tesi della “programmazione” della propria morte da parte di Pasolini anima il dibattito criticobiografico da svariati anni. Il primo a teorizzarla con la necessaria tenacia è stato Giuseppe Zigaina, intellettuale e pittore friulano amico intimo di Pasolini. Senza farla dunque troppo semplice – ma neanche troppo complicata possiamo dire che, secondo Zigaina, la morte dell’intellettuale più “scomodo” del Novecento deve essere considerata la «valorizzazione semantica di tutta la sua opera» . Lo si evince chiaramente dai saggi scritti a partire dal 1984 e raccolti in Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini . Zigaina è stato compagno di giovinezza di Pasolini, ha condiviso con lui gli entusiasmi della Liberazione e con lui ha militato nel Partito Comunista. La sua tesi scandalosa e provocatoria, dimostrata attraverso un’accurata esegesi e condivisa poi da (pochi) altri, parte dunque dal presupposto che Pasolini abbia concepito e programmato il proprio trapasso, “inscenando” una “morte secondo valore”, un “martirio per autodecisione”. Una morte, in altre parole, significante sul piano espressivo e intellettuale, fulcro dell’intera sua opera. E rappresentata, resa viva, anticipata dalle immagini dei suoi film e dalle pagine dei suoi scritti. Si pensi alla fine violenta dei protagonisti dei suoi racconti, cinematografici e non. Una ricerca o “scoperta”, come la definisce lo stesso Zigaina senza dubbio euristica, estrema, provocatoria. Tre parole che pensiamoci sono state tanto care al poeta. E allora provochiamo.

La notte del 2 novembre 1975 Pasolini moriva sul lungomare di Ostia, nell’orribile quadro di una violenza che sembrava nata direttamente dalla sua penna. Il becero accanimento sul suo corpo ricalca per certi versi l’ostracismo perpetrato nei confronti delle sue opere quand’egli era ancora in vita. E infatti Pasolini aveva scritto, pianificato e immaginato tutto. Il giallo poliziesco della sua morte «da oscuro fatto di cronaca si è trasformato, nella ricerca di Zigaina, in un rito di morterinascita celebrato non a caso il Giorno dei Morti nel recinto sacro di un campo da calcio di Ostia» . Una morte «secondo valore», come l’ha definita Francesca Nesler, prima profetizzata e, dopo un lunghissimo rituale, celebrata secondo una macabra liturgia di bastonate e cazzotti. Una tesi scandalosa, letteralmente, del tutto diversa da quella ufficiale, istituzionale o “sensata”. Del tutto lontana dall’opinione, in un’altra parola, borghese. C’è però lo abbiamo detto anche una morte delle opere. Anche qui la critica istituzionale, quella del dizionario per intenderci, ci impone di considerare “morti” quei film che non hanno mai visto la sala. Vale a dire, quelle pellicole che pellicole non sono diventate e che sono rimaste segni grafici su carta. E, a volte, neanche su quella. Il presente lavoro parte proprio dal presupposto che Pasolini abbia previsto l’incompiutezza di alcune delle proprie creature artistiche, lavorandone il contenuto in funzione di una fruizione “incompleta”, perché continuamente in divenire, e offrendoci una prospettiva critica separata dal circuito dei film fatti e finiti. Una sorta di elogio del non-finito, dove col termine “previsto” non va affatto inteso come sinonimo di “cercato”, ma semplicemente “messa in conto” nell’atto stesso di ideazione. Se si sfogliano i testi critici sulla filmografia di Pasolini, ci si trova di fronte a considerazioni e trattazioni tra le più svariate. Quasi tutte, però, hanno una cosa in comune: parlano di “film mai realizzati”. E in questo specifico elenco, propongono un dato numero di titoli. Alcuni tre o quattro, altri sei o sette, altri di più, altri ancora meno. La lista forse più completa e rigorosa ci è stata fornita da quel testo fondamentale che è Le regole di un’illusione, curato da Laura Betti e Mario Gulinucci . Un altro contributo imprescindibile è fornito anche dai due volumi in particolare il secondo di Per il cinema , curati da Walter Siti e Franco Zabagli, i quali dedicano due intere sezioni ai soggetti e ai trattamenti pasoliniani oltre alla parte relativa alle sceneggiature. Ai titoli citati in questi due tomi, chi scrive ne ha individuati altri, portando il computo totale a trentadue film non realizzati. Si tratta di sceneggiature, soggetti, trattamenti e progetti affidati da Pasolini a libri, raccolte, lettere, carteggi, riviste, giornali o soltanto alla testimonianza di chi ne è venuto a conoscenza. Da qui l'idea di un saggio antologico, che approfondisca alcuni testi “meno battuti” dalla critica e che al contempo riunisca un elenco più completo possibile delle opere cinematografiche incompiute, nell'intento di fornire un utile punto di partenza per chi vorrà spingersi più addentro questa selva analitica in larga parte inesplorata. Con la speranza e l'intenzione di riuscire nell'impresa, in futuro, di approfondire tutti i trentadue punti dell'elenco. Ferma restando l'ingombrante difficoltà di reperire, per alcuni testi, finanche una riga firmata dall'autore. Per meglio sostenere la “progressione” dei titoli pasoliniani, e nondimeno per la comodità organizzativa di chi scrive, si è scelto di catalogare i testi secondo la cronologia di “parto”: ogni opera riporta cioè l’anno di prima stesura o di primo abbozzo. In altre parole l’anno dell’ideazione. Ad alcuni progetti, come a quello sulla vita di San Paolo, Pasolini lavorò infatti per tutto l’arco della sua carriera artistica: dalla prima idea nata nei Sessanta dalla lettura delle missive paoline e degli Atti degli apostoli all’ultima revisione della sceneggiatura di dieci anni dopo, nel 1974. Data la sua trasversalità testimone più di altri delle fasi negli anni dell’evoluzione stilistica e contenutistica del cinema pasoliniano si è scelto di dedicare al San Paolo maggiore spazio, significativamente in chiusura del presente lavoro. L’intento è quello di restituire la cifra di film totale, il suo ruolo di summa del percorso di Pasolini all’interno del genere cinematografico e, su una retta sovrapposta e inscindibile, della sua riflessione di intellettuale del Novecento. Allo stesso tempo, per cercare di rendere più fluida la trattazione, le sei opere ivi considerate sono state raggruppate in tre macroinsiemi tematici: Pasolini e la borgata, Pasolini e il sacro e un terzo gruppo di testi per film definiti «incerti» perché non perfettamente definibili in relazione a una tematica. Si tratta di sceneggiature che, al limite, possono essere considerate un «ponte» tra una categoria e l’altra (o le altre): essi sono Il giovine della primavera, il primo “timido” tentativo di scrittura cinematografica di un diciottenne Pasolini, Il viaggio a Citera e Gilles de Rais. Si tratta, ovviamente, di una suddivisione che implica un’interpretazione, quella del sottoscritto, “relativa” nella misura in cui è consapevole della sostanziale impossibilità di separare in maniera netta “fasi” o “tappe” della cinematografia pasoliniana. L’obiettivo è, ancora una volta, quello di offrire un contributo finora inedito sulla filmografia incompiuta di Pasolini, che altri in futuro potranno confutare o arricchire: insomma si pone, in ogni caso, come spunto di studio e di riflessione. Ne consegue pertanto che tale interpretazione, essendo funzionale alla trattazione, non implica alcun confine rigido, ma anzi invoglia e aspira a mantenere una certa fluidità di riflessione. Alcuni di questi titoli incompiuti sono stati pubblicati (postumi) come sceneggiature fatte e finite, come nel caso de Il padre selvaggio o del film su San Paolo. Altri sono comparsi su periodici del calibro di Cinecritica come nel caso del trattamento sempre postumo di Porno-Teo-Kolossal. L'incompiutezza della maggior parte dei lavori per il cinema di Pasolini trentadue mai realizzati versus ventidue film fatti e finiti va intesa come «caratteristica di ogni scrittura non finalizzata in se stessa, ma finalizzata a una resa visiva che trascende la potenza della parola, diventa elemento di attesa, profezia di un’immagine a venire» . Nessun incidente di percorso, nessun imprevisto. Come per la morte del corpo, quella che il mondo definisce “morte”, anche la dipartita delle opere fa parte di un piano sistemico, obbedisce a una sorta di “Grande Idea”. L’intera operazione culturale portata avanti da Pasolini nel segno di un’ossessione della morte ha fatto discendere tutta la sua produzione artistica da questa “Grande Idea”, dalla pagina alla pellicola. Sottrarre Pasolini al dizionario vuol dire anche riconsiderare una sorta di primato del non finito sul finito. E la terminologia marxista non è affatto casuale. Per Pasolini tanto il cinema quanto l’esistenza sono decifrabili e intellegibili unicamente dopo il “montaggio” operato dalla morte. In questo senso potremmo sempre provocatoriamente dire che l’opera filmica è viva fino al momento del montaggio, un istante prima di essere data in pasto alla macchina della riproducibilità tecnica, al mezzo borghese del cinema, alla diffusione consumistica del prodotto finito. Volendo essere estremi, si potrebbe considerare “vivo” il film che è ancora sulla carta, potenziale, immaginato.

Nel contempo possiamo dire che Pier Paolo Pasolini è stata una delle personalità più complesse, emblematiche e piene di passione che ha segnato la seconda metà del ventesimo secolo. Si è coinvolto profondamente in tutti gli avvenimenti dell’intero periodo culturale noto come dopoguerra, avendo però iniziato la sua attività alcuni anni prima della seconda guerra mondiale e a cui non si è stata mai posta una fine, neppure dopo la sua morte precoce ed improvvisa il 2 novembre 1975. Nel frattempo non ha mai smesso di sperimentarsi nei contenuti e nelle forme più vari. Pasolini ha scritto dei libri, non solo avendo composto dei versi ma avendo anche narrato delle storie, le quali riflettevano la realtà che cambiava; una realtà, infatti, in trasformazione che lasciava alle spalle la vita agricola per immergersi, anche in modo brusco e violento, nell’industrializzazione e nell’urbanesimo. Il suo punto di vista era sempre diverso, non guardava mai dove guardavano gli altri e vedeva sempre qualcosa che gli altri non vedevano. Era un osservatore attento delle trasformazioni sociali, l’uomo vero e proprio della mutazione secondo la caratterizzazione di Massimiliano Capati . Raccontava tanto quello che non funzionava malgrado il suo piacere, quanto quello funzionante che per lui aveva un suo senso e una sua bellezza nonostante le reazioni degli altri, reazioni spesso ferocissime a causa delle quali ha dovuto affrontare trentatrè processi durante la sua vita. Questa alternazione di attività che lo caratterizzava ha fatto sì che l’adoperare delle tecniche diverse, le quali trasporta da un’arte all’altra, è diventato qualcosa di abituale per lui e ha contribuito alla loro attenuazione. Nelle sue poesie rivela il suo mondo interiore ed i suoi pensieri più profondi. Nei suoi romanzi narra la realtà delle borgate romane, degli emarginati, di tutto quello insomma che allora si chiamava sottoproletariato. Nei suoi film manifesta tutta la sua genialità, la sua stranezza e la sua particolarità, facendoli dei veri e propri capolavori nella storia del cinema italiano. Nei suoi articoli per giornali si occupava di temi di attualità calda provocando il disdegno e l’avversione di molti. Però Pier Paolo Pasolini ha avuto anche una dote in più, quella del pittore o per essere più preciso, del disegnatore. Pasolini disegnava. E disegnava parecchio. Un’abitudine che l’ha mantenuta per tutta la sua vita, salvo certi periodi di pausa, e ci ha ereditato una preziosissima collezione di quasi duecento disegni. Di questi disegni appunto me ne occuperò e specialmente del rapporto che viene notato tra alcuni di loro con delle sue poesie. Nell’ambito di questa tesi individualizzerò delle figure umane che Pasolini ha tracciato sulla carta e identificherò il modo in cui esse corrispondono a precise sue poesie; corrispondenze che, benchè a volte le separi una distanza temporale, queste esistono, come se Pasolini prendesse degli spunti da varie occasioni e ritornava a persone che per motivi diversi gli avevano attirato l’attenzione in un tempo passato. Ad un primo passo, tuttavia, presenterò delle testimonianze offerte da altri studiosi che tramite passi relativi rivelano questa sua attività per lo più sconosciuta, e d’altra parte la mancanza di registrazioni analoghe nelle pagine delle più importanti Antologie di letteratura italiana. Di seguito passerò ad una catalogazione dei disegni prodotti per epoca e per argomento, rendendomi conto dell’ambito sociale, politico o la cultura del tempo. La parte finale della tesi si occuperà di certi problemi e punti di riflessione che si sono emersi dal confronto tra disegni e poesie riguardanti le figure umane non solo quelle presentate ma anche quelle assenti e in conclusione verranno esposte delle considerazioni estetiche sui disegni presentati. Fra le tante attività di cui si è occupato Pasolini, e con grandissima fortuna come concorda la critica unanimamente, ce n’è una meno nota al vasto pubblico rispetto ai frutti degli altri settori della sua produzione intellettuale: un lato della sua personalità ha trovato sfogo all’attività pittorica. Sembra che questo suo lavoro nel campo grafico - visivo è rimasto da sempre offuscato ed è passato inosservato o almeno non gli è stata attribuita l’importanza dovuta da parte dei grandi studiosi che si occupano di Pasolini negli anni. Mi spiego subito dicendo che nessuna delle più importanti e note Antologie della letteratura italiana, utili strumenti peraltro per lo studio letterario siccome consistono il primo punto di riferimento per studenti e ricercatori, dedica qualche parola alla sua funzione da pittore. Tutte si limitano esclusivamente a parlare di Pasolini come poeta, romanziere, filologo, critico, autore di teatro, sceneggiatore e regista cinematografico, ignorando o omettendo il suo lato pittorico.

Solo il Filo Rosso si limita a menzionare che le lezioni di Roberto Longhi avevano assicurato a Pasolini ‘‘una notevole competenza pittorica messa a frutto in molti suoi film’’ e nella Storia letteraria del ’900 italiano un lettore attento può individuare la parola disegni nell’elenco delle attività pasoliniane menzionate. Il fatto che da nessuna delle antologie elencate sopra lo studioso verrà informato sull’attività pittorica di Pier Paolo Pasolini non significa che essa non c’è stata. Al contrario. Però dovrà far ricorso sia ad opere di persone che appartenevano al suo circolo sociale o letterario, come Nico Naldini, suo cugino e uno fra i maggiori studiosi pasoliniani e il pittore Giuseppe Zigaina , il curatore principale della sua eredità pittorica, solo per menzionare uno dei suoi impieghi che a studiosi che si sono occupati specialmente di questa sua attività, come Mario De Micheli e Marisa Vescovo oppure a certe biografie o opere monografiche dedicate al grande autore. Nico Naldini, nella Cronologia8 ci informa che Pasolini si è occupato del disegno da una piccolissima età, dicendo che ‘‘è stato preso dalla passione del disegno tra i quattro e i cinque anni’’, quindi la pittura aveva per diritto i primati nella manifestazione, con la poesia a seguire. Più in avanti, parla dell’estate del 1941 a Casarsa dove Pasolini ‘‘scrive e dipinge […] I quadri che dipinge a olio seguono con estro personale i canoni della pittura italiana del Novecento’’. E ad un altro punto dice che nella primavera del 1942 ‘‘riprende a scrivere e a dipingere nei luoghi che sempre più si identificano col suo sogno poetico’’ . Anche in un’intervista concessa alla R.A.I. lui dichiara che Pasolini ‘‘lavorava molto, leggeva e dipingeva’’.
Giuseppe Zigaina ha parlato della pittura di Pasolini e della sua tecnica espressiva facendo un resoconto dei mezzi usati per avere il risultato desiderato . E proprio questo non essere tradizionale di Pasolini sulla scelta e l’elaborazione di materiali, lo ha spinto ad affermare che Pasolini ‘‘ha sempre dipinto da poeta’’ e a riconoscere in certe sue opere il ‘‘suo alto manierismo’’. Per Zigaina, insomma, la pittura costituiva in Pasolini il punto stabile di esercitazione nei frattempi delle sue produzioni cinematografiche. Per lo più, merita un riferimento anche la testimonianza offerta da Andrea Zanzotto, con cui lo legava un rapporto di reciproco rispetto, il quale riferisce che Pasolini ‘‘aveva sempre disegnato e dipinto bene’’, parlando dei suoi metodi istruttivi durante gli anni della prima giovinezza in Friuli quando lavorava come professore. Passando agli studiosi specializzati, vorrei depositare inanzittutto il punto di vista di Maria Vescovo, che attribuisce a questa sua attività un ruolo complementare imposto dalle condizioni di vita, alla quale però ritornava sempre siccome copriva le sue esigenze e le sue ispirazioni qualora non volesse scriverle. Definisce l’attività pittorica di Pasolini come una ‘‘vera e propria vocazione’’ . Un altro studioso, Mario De Micheli riconosce all’attività pittorica di Pasolini una radice profonda, una spinta interiore, la quale però non ha potuto concludersi essendosi oppressa dalle altre attività della genialità pasoliniana. Considera questa sua inclinazione tutt’altro che marginale, individuando in certe sue opere cinematografiche la sua profonda conoscenza dell’argomento e in opere poetiche i riferimenti a grandi pittori come Picasso o Mantegna. Parecchi sono i riferimenti che si possono leggere in proposito nella biografia scritta su di lui da René de Ceccatty . Ci si informa che Pasolini colloca nel 1934 a Cremona il suo amore per la pittura nasce dopo la lettura dell’Iliade di Omero e specialmente di quel passo che descriveva lo scudo di Achille creato da Efesto e sono stati così forti l’impressione creata e il suo sforzo di riprodurlo sulla carta che gli era diventato una vera e propria ossessione. Si viene anche a sapere che aveva imparato a dipingere grazie a Federico De Rocco, un giovane pittore e che gli piaceva disegnare seduto al balcone della sua casa a Casarsa. In più, si impara che nell’anno accademico 1941-1942 una commissione presieduta da Giorgio Morandi aveva scelto alcuni dei suoi quadri per una mostra pittorica studentesca. In fine registra una testimonianza dello stesso Pasolini a parlare delle sue opere dipinte durante la sua adolescenza a Bologna le quali nel 1960 decoravano la parete della sala da pranzo della casa familiare e di lamentarsi per l’aggiunta dell’apparecchio televisivo. Un riferimento relativo si trova anche nell’opera di Marco Antonio Bazzochi, in cui il lettore che viene a conoscenza della vita di Pasolini legge, in modo troppo sintettico in effetti, dell’episodio riguardante la lettura dell’Iliade e lo scudo di Achille e della conoscenza con Federico de Rocco che gli insegnò a dipingere. In modo epigrammatico c’è il riferimento alla produzione di alcuni paesaggi e dei famosi autoritratti del 1946 e del 1947 . Infine, informazioni sulla sua passione per la storia dell’arte vengono apprese anche nell’opera di Giordano Meacci, il quale con l’occasione del suo incontro con Attilio Bertolucci e la sorpresa e rivelazione che quest’ultimo gli fa di cui ne parlerò più in avanti, coglie l’opportunità di parlare anche della passione per la pittura di Pasolini, della quale dice che ‘‘restò in lui un demone sotterraneo’. I disegni pasoliniani, appunto, corrispondono ai criteri soprastabiliti, visto che si tratta di disegni dai contenuti più vari, eseguiti anche con dei materiali differenti. Questi si distinguono in due gruppi, in disegni per contorni e in quelli per macchie. Nella prima categoria appertiene la maggioranza dei suoi disegni, i quali, appunto, sono opere dalle linee circoscriventi le forme esteriormente, mentre ne esistono anche alcuni per macchie, che sono quei a colori, i quali tramite le intense luminosità e le variazioni coloristiche fanno un effetto più forte e si avvicinano di più alla pittura. A questo punto dovrei notificare la presenza anche di certe sue opere però molto limitate che sono piuttosto degli schizzi siccome sono delle semplici linee tracciate sulla carta servite come studio preparatorio o con l’intenzione di una futura elaborazione, come per esempio lo è il ritratto di Andrea Zanzotto del 1974 dove con il pennarello traccia sole le linee necessarie ma sufficienti per rendere efficacemente il profilo sinistro del poeta.

Di notevole varietà sono anche i materiali che Pier Paolo Pasolini ha usato nei suoi disegni; per la maggioranza assoluta ha fatto uso dei classici materiali, come l’inchiostro, la penna, il pennarello, il pennello o il carboncino, il lapis, la tempera e l’immancabile olio, senza ommettere il biro e i gessi colorati usati per la serie di fumetti per La Terra vista dalla Luna nel 1966. In più, si è servito anche di certi materiali che però ha usato per una sola volta, come la mattita grassa per il disegno intitolato dalla sua mano Il mondo non mi vuole più e non lo sa , il quale è stato ritrovato all’ultimo momento nella sua casa e potrebbe datarsi nel 1962, oppure la china acquarellata con cui ha fatto il Ritratto di un ragazzo nel 1943 o la cera che ha usato insieme alla mattita grassa per la seconda e ultima volta per i Lumi del Safon. Il motivo per cui non ha continuato ad usarli non è chiaro, ma una spiegazione molto probabile sarebbe che si trattassero delle sperimentazioni che non l’hanno soddisfatto e perciò ha scelto di continuare con i materiali che poteva gestire in modo migliore. A proposito del disegno Il mondo non mi vuole più e non lo sa, Giuseppe Zigaina definisce una vera fortuna il suo ritrovamento e lo caratterizza come il disegno più intimo e sconcertante di Pasolini . Una parola in più andrebbe detta sulla sua tecnica mista con cui ha dipinto un notevole numero di opere degli ultimi anni della sua produzione pittorica e culmina con i Ritratti di Maria Callas. Si tratta di una tecnica di pura invenzione pasoliniana, frutto delle sue sperimentazioni con vari materiali; come ci informa Marisa Vescovo ‘‘schiacciava sulle tempie del suo viso della Callas dei succhi di frutti o fiori, faceva scivolare, sulla carta, da candele perle di cera, macchie di vino e altri ingredienti che aveva a portata di mano’’ . I disegni di Pier Paolo Pasolini coprono un’estesa area cronologica i primi i primi dei quali vengono datati nel 1941 e gli ultimi nel 1975 anno in cui è stata imposta violentemente la fine precoce in assoluta coincidenza con la sua produzione letteraria, visto che anche il suo esordio nella poesia è avvenuto nel 1941 con la raccolta Poesie a Casarsa. Infine ho cercato di trovare le affinità, e credo di averne trovate molte, fra un’attività molto elogiata e affermata di Pier Paolo Pasolini la poesia e un’altra piuttosto trascurata dagli studiosi ma altrettanto significativa la pittura. Affinità concentrate esclusivamente sulle figure umane che sfilano nella sua opera, le quali costituiscono piuttosto una pinacoteca umana per il loro numero e la loro varietà. Stando alla sua produzione pittorica andrebbero fatte alcune osservazioni e ci sarebbero da esporre alcuni pensieri: Un primo pensiero riguarda la sua ‘ossessione’ con tematiche precise durante i periodi in cui si mette a dipingere e soprattutto nella seconda fase, se potessi fare una tale distinzione, cioè dagli anni romani, e specificamente dal 1964 in poi. In ogni periodo sceglieva un tema a piacere e non si limitava a farne un disegno e proseguire a qualcos’altro, bensì ci elaborava tutte le variazioni che gli sembravano possibili. Basta vedere le opere del 1965, quando dipinge nove autoritratti o quelli del 1967 con sei disegni raffiguranti gente anonima seduta attorno a un tavolo oppure quelli del biennio 1969 - 1970 quando dedica a Maria Callas ben undici disegni. Un’abitudine che culmina nell’ultimo periodo che va 1974 al 1975, quando tutte le opere riguardano due persone, Andrea Zanzotto e Roberto Longhi. Il motivo per il quale ha scelto quelle persone credo che sia stato analizzato sufficientemente nelle pagine precedenti. Il perché c’è stata questa ‘fissazione’ potrebbe essere spiegato dal fatto che Pasolini dipingeva quando aveva tempo libero e durante quel tempo libero si occupava di una sola tematica cercando di renderne tutte le sue possibilità. Ogni volta, però, i risultati rispecchiavano il suo assioma centrale da cui sempre si ispirava, cioè la descrizione della realtà. Ha sempre voluto presentare delle cose vere escludendo totalmente quelle inventate o evocate, aggiungendo, come sostiene in un’intervista, che dalle sue opere ‘‘esce fuori la cosa vera; quando guardo le cose, ho quello sguardo razionale, critico. Ma il mio sguardo vero, quello più antico, quello che ho avuto nascendo, che mi si è formato nella prima infanzia, il mio sguardo originale, è uno sguardo sacrale sulle cose; vedo il mondo come lo vedono tutti coloro che hanno un’invocazione poetica’’ . Un’altra cosa che mi ha messo in pensiero è l’assenza della figura paterna dai suoi disegni e soprattutto da quelli del primo periodo, in cui esistono molte altre persone care, eponime quanto anonime, tra cui la madre e la nonna. Indubbiamente il rapporto con suo padre Carlo Alberto non è stato facile, tutto al contrario; lo stesso Pasolini parla del loro rapporto difficile, non esitando di caratterizzarlo anche drammatico, siccome appartenevano a mondi diversi ed erano anche di carattere diverso. In più, confessa di essere ‘‘incosciemente ma profondamente nemico a lui e lui incosciemente nemico a me’’, riconoscendo però che ‘‘in realtà è stato colui che mi ha spinto a scegliere la carierra che ho preso’’ sarà Enzo Siciliano ad illuminare questa affermazione espressa da Pasolini scrivendo che Carlo Alberto voleva che suo figlio diventasse un poeta, dato che aveva un fratello che scriveva poesie, morto, però, giovanissimo, a vent’anni, dal nome Pier Paolo! Di seguito riporta le parole di Pasolini il quale dice ‘‘io fino ai sedici anni volevo fare l’ufficiale di marina. Lui invece diceva che dovevo fare lettere. Poi naturalmente i suoi incoraggiamenti si sono ritorti contro di lui. Perchè lui attribuiva alla poesia un carattere ufficiale. Non pensava che potesse essere eversiva, scandalosa’’. In ogni casο, non ci si deve dimenticare il fatto che Pasolini disegnava solo quello che gli dava piacere e di sicuro suo padre non era uno di quelli. In più, c’è da notare un’‘incongruenza’, se potessi definirla così, rispetto alla caratteristica dell’opera di Pasolini, che riguarda lo spazio dedicato ai giovani. Lui stesso ha dichiarato in un filmato che nella sua opera trionfano i giovani e che ‘‘tutti i miei libri, tutte le mie opere narrative parlano di giovani; li amavo e li rappresentavo’’. Oserei dire che per quanto riguarda la sua attività pittorica, questo trionfo dei giovani si limita quasi esclusivamente nelle opere del primo periodo che dal 1941 al 1947 e in quelle due del 1950, quando, infatti, la maggioranza della sua produzione era dominata dalla rappresentazione di figure giovanili.

Dal trasferimento a Roma in poi tutto si presenta cambiato, come se volesse lasciare intatte le belle cose che appartenevano a quegli anni a Casarsa, parte dei quali erano anche i giovani. Per quanto riguarda i disegni dal punto di vista estetico e artistico c’è da sottolineare la grande differenza fra di loro, siccome ce ne sono alcuni di alto valore estetico, però ne esistono anche molti altri di un valore un po’ inferiore. Questo risulta dal fatto che dai suoi disegni manca proprio uno stile unico; mi spiego subito dicendo che fra le pagine di questa tesi ho parlato spesso dei diversissimi materiali usati, della diversità delle linee tracciate, dell’uso del colore o meno, del suo sforzo di usare la prospettiva non sempre raggiunto. Va sottolineato che Pasolini disegnava a seconda dell’umore del momento e questo si riflette sulla carta con le linee tracciate: quando il suo umore era leggero lo erano anche le linee tracciate; quando non lo era le linee si appesantivano e diventavano più forti. Ci sono dei disegni che possono essere caratterizzati accademici e altri molto moderni il che ci fa capire che Pasolini si stava sperimentando continuamente e non aveva ancora trovato una sua maniera, un suo stile personale e ben distinto; forse non l’ha mai voluto. I disegni di Pasolini hanno la loro autonomia nei confronti del cinema, nel senso che non viene notato nessun tipo di rapporto fra loro e i suoi film. Non ha mai usato i suoi disegni come sfondo illustrato o nelle sceneggiature che scriveva. I due settori della sua attività mantengono la loro integralità e ‘purezza’, salvo il caso della serie di fumetti per La Terra vista dalla Luna del 1966. Ma quello è stato un caso unico e mai ripetuto di nuovo. Se potessi trovare un’affinità fra disegni e cinema, la collocherei nelle sequenze di profili della Callas ripetuti sullo stesso foglio, che alludono volontariamente o no alle sequenze filmiche. L’attività pittorica e la vita di Pier Paolo Pasolini, comunque, sono andate di pari passo. Le cose e le persone che, in qualsiasi modo, lui ha amato nella sua vita, sono anche diventate l’oggetto figurativo della sua espressione pittorica. Aggiungerei inoltre che è stata la pittura ad avergli dato lo spunto iniziale costituendo la sua prima emozione affinché si dedicasse unanimemente agli altri generi posteriormente. La lezione di Pasolini e le sue opinioni espresse sulla carta, sulla tela, sulla pellicola o sulle pagine dei giornali hanno avuto una grandissima eco tanto quando era in vita quanto e magari soprattutto dopo la sua scomparsa non solo nella vita artistica e letteraria, ma anche in quella morale facendo sì che continuino ad avere un forte impatto anche oggi.

Non scordiamoci le parole di Moravia che sosteneva che Pasolini era indifendibile e soprattutto ‘‘non era tollerabile’’, attribuendo la sua intollerabilità al suo comunismo e alla sua omosessualità. E questo sarebbe il motivo per cui continuano ancora a scoppiare delle voci contrarie ma in sostanza, questo ha sempre desiderato lo stesso Pasolini trasmettendolo attraverso le sue opere. La mostra è divisa in dieci sezioni ognuna racconta il Pasolini pittore e l’incontro con Roberto Longhi :
A lezione da Roberto Longhi
Alla morte di Roberto Longhi, nel 1970, Pasolini scrive un bellissimo ricordo del professore di cui nell’inverno del 1941 aveva seguito il corso di storia dell’arte medievale e moderna. Pasolini commemora in lui colui che, nel mezzo dell’epoca fascista, aveva saputo eliminare qualsiasi inutile retorica dalla lettura esatta, storicamente fondata, delle opere d’arte. Longhi aveva creato, nell’auletta universitaria di via Zamboni 33, l’atmosfera magica di un’isola felice dove gli studenti vedevano scorrere le immagini proiettate sullo schermo e commentate con attenzione in tutti i loro particolari. Così, diceva Pasolini, era nata la sua attenzione per il cinema: immagini cariche di bellezza che esprimono il “sacro” della realtà.
La luce friulana
A cominciare dal 1943, i soggiorni sempre più frequenti in Friuli portano Pasolini a contatto con un ambiente artistico provinciale ma molto vicino a quella lingua espressiva minore che è il dialetto friulano, adottato per la prima raccolta, Poesie a Casarsa. Pasolini cerca nella pittura qualcosa di simile al dialetto, in modo che i grandi temi dell’arte moderna (espressionismo, cubismo) siano trasportati nella dimensione della provincia. “La pittura è nel Friuli il genere artistico che dà i risultati più brillanti”: così inizia un dettagliato articolo sul “Messaggero Veneto” del 21 settembre 1947, dal titolo La luce e i pittori friulani. Possiamo ritrovare le idee di Pasolini in questa frase, che in qualche modo anticipa una tecnica presente anche nel cinema futuro: “La luce è ancora attiva, dinamica: cadendo sull’oggetto da un dato sempre naturalistico (il sole) lo deforma arricchendolo o corrodendolo”.
A Roma come Caravaggio
Cacciato dalla scuola dove insegnava, dal PCI dove militava, costretto a lasciare Casarsa con il marchio, all’epoca infamante, dell’omosessualità, il 28 gennaio 1950 Pasolini si trasferisce con la madre a Roma. Scopre così la “stupenda metropoli plebea” ma soprattutto il mondo delle borgate che circondano la capitale, un mondo fuori dalla storia e pagano, con un’umanità reietta di esclusi, di ragazzi di vita e di morte che si imporranno alla sua ispirazione di poeta (Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo), narratore (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Alì dagli occhi azzurri) e più tardi di regista (Accattone, Mamma Roma, La ricotta). Un’analogia fra Pasolini e Caravaggio appare quasi inevitabile: entrambi “maledetti”, entrambi ispirati dalla vitalità e dalla morale senza regole dell’universo popolare che pulsa ai margini della società borghese, entrambi decisi a immergersi in quel mondo. Ma non è solo un nesso biografico. Come ha rilevato Francesco Galluzzi, il rapporto è anche un rovesciamento: “Mentre il Caravaggio raffigurava i santi come popolani, Pasolini ambiva a raffigurare i popolani come santi”.
La rabbia
La rabbia è il rifiuto dell’adattamento: adattamento alla normalità dei primi anni Sessanta, alla mediocre democrazia (inquinata da scorie fasciste) che governa l’Italia, alla realtà manipolata e falsificata dai cinegiornali, all’avvento trionfale della televisione. Soprattutto, adattamento all’avvento del neocapitalismo e di una modernizzazione che ha investito brutalmente il Paese. Pasolini vede il profilarsi di una nuova Italia, uscita dagli anni Cinquanta, che sta per essere miracolata dal boom economico. La rabbia costituisce una delle sue prime opere dove la fisionomia reale di questo “nuovo corso” viene stigmatizzata come una falsa chimera di progresso e un effettivo processo di degradazione sociale e culturale.
I manieristi e l’invenzione del colore
All’inizio degli anni Sessanta Pasolini si appropria della nozione di “manierismo” elaborata dagli storici dell’arte. Longhi ne aveva parlato nel 1953 come di “umori balzani, lunatici, spesso introversi”. A cui si accompagnano tecnica raffinata, astrattezza, intellettualismo. Nel 1961 lo studio di Giuliano Briganti (La maniera italiana) sottolinea la bizzarria di questi artisti, il loro modo di stravolgere la tradizione classicistica citandola, l’artificiosità delle pose e dei colori, in altre parole l’intensità di uno “stile” elaborato che si contrapponeva al classico e ancora non era barocco. Pasolini pensa di poter individuare alcuni scrittori che sono riconducibili a questi elementi, in particolare fa il nome di Anna Banti (la moglie di Longhi) e di Giorgio Bassani. Lui stesso si definisce “manierista”, soprattutto nelle composizioni poetiche che confluiranno nella raccolta del 1964, Poesia in forma di rosa. La traccia dei manieristi è molto esplicita nel cinema, specialmente nel passaggio tra Mamma Roma, La rabbia, e La ricotta.
Favole e parabole
Nel 1964 Pasolini realizza un film dal Vangelo di Matteo. Il film vuole riecheggiare la tradizione figurativa dell’arte sacra, come sempre mescolata e sovrapposta. Dopo i toni sublimi del Vangelo, Pasolini muta registro e adotta una leggerezza “mozartiana” per raccontare un film-favola, Uccellacci e uccellini, un apologo sull’Italia degli anni Sessanta, dove sono svaniti gli ideali del marxismo e si sta affermando una nuova società. Sulla linea di una leggerezza favorita dal rapporto tra Totò e Ninetto, Pasolini avrebbe voluto girare un film in vari episodi ma riuscirà a realizzarne soltanto due. Il primo è un apologo sulla condizione umana, La terra vista dalla luna (1966), di cui lo stesso Pasolini disegnò lo storyboard, mentre il secondo, Che cosa sono le nuvole? (1967), gioca con l’Otello di Shakespeare messo in scena in un povero teatrino di marionette, che si interrogano sul rapporto tra verità e finzione.
I volti della borghesia
Dopo il 1966, in concomitanza con la stesura di sei tragedie, Pasolini decise di ambientare testi di teatro, di narrativa e i propri film all'interno di case borghesi e della loro “irrealtà”. Per la prima volta gli odiati borghesi divennero protagonisti delle sue opere: la famiglia costituita dal padre Paolo, la madre Lucia, la figlia Odetta e il figlio Pietro di Teorema, romanzo e film; il marito e la moglie di Orgia; il padre e il figlio di Affabulazione; un altro padre e un altro figlio, Klotz e Julian, il rivale e coetaneo del padre Herdhitze di Porcile, tragedia teatrale e film; i quattro Signori di Salò e l’ingegnere Carlo Valletti del romanzo incompiuto Petrolio.
Il sogno del passato
Tra il 1967 e il 1970 Pasolini progetta e realizza tre film mitologici, Edipo re, Appunti per un’Orestiade africana, Medea. Per quanto riguarda le scelte visive, decide di abbandonare qualsiasi riferimento all’arte occidentale e di spostare tutto in luoghi esotici: il Marocco, l’Uganda, la Tanzania, la Turchia. Una scelta profondamente innovativa rispetto al modo con cui fino ad allora era stato concepito il film in costume. Pasolini rifiuta la Grecia classica, così come per il Vangelo aveva rifiutato i territori israeliani. Viene ignorato qualsiasi riferimento banalmente “realistico”. Pasolini vuole “inventare” il mito a partire da una realtà straniata, non convenzionale, e innestare gli intrecci tragici dentro mondi lontani. Un’operazione simile viene fatta per i costumi, ideati con la collaborazione di Danilo Donati (Edipo) e di Piero Tosi (Medea). Pasolini immagina soprattutto copricapi bizzarri, vagamente ispirati all’arte africana per Edipo, mentre per Medea viene creato un pesante abito di lana scura ispirato alle culture dei Balcani, con grosse collane che risuonano a ogni movimento. Ancora più radicale quanto avviene per l’Orestiade: Pasolini inquadra i visi e i corpi degli africani, commentando direttamente con la sua voce a quale personaggio potrebbero corrispondere.
Le immagini del genocidio
Salò o le 120 giornate di Sodoma viene concepito da Pasolini secondo un progetto visivo molto elaborato. Lui stesso sottolinea che si tratta di un film per il quale ha valutato con attenzione ogni minima scelta, compresi gli oggetti che compaiono anche per pochissimi secondi. I primi minuti del film sono girati in esterno, sul lago di Garda, e hanno colori molto caldi, da pittura veneziana. Pasolini utilizza luoghi diversi per la resa della villa dove si svolge poi l’azione: Villa Aldini a Bologna per la facciata neoclassica da cui si affacciano i Signori e iniziano a dare ordini alle vittime; la stanza interna delle orge viene ricavata dentro Villa Zani di Villimpenta, progettata da Giulio Romano in provincia di Mantova; la settecentesca Villa Riesenfeldt di Pontemerlano offre lo spazio del salone da pranzo e della sala con gli specchi déco. Per girare la sequenza iniziale della selezione, Pasolini usa invece Villa Sorra di Calstelfranco Emilia, di cui viene inquadrata la facciata e viene sfruttato lo spazio a vetri dell’aranciera per la selezione delle vittime maschili.
Non esiste la fine
Negli ultimi mesi Pasolini torna anche al disegno e inizia a considerare la presenza della fotografia all’interno delle sue opere. Nella copertina della raccolta La nuova gioventù viene inserita una foto di Pasolini diciottenne, come ad alludere a un ritorno impossibile del passato. Nell’ottobre del 1975, il giovane fotografo Dino Pedriali realizza un servizio fotografico che si svolge tra Sabaudia e la Torre di Chia. Si tratta ancora una volta di una vera e propria performance nella quale Pasolini si presta a recitare il ruolo di se stesso. Nel grande spazio che usa come laboratorio, vediamo il poeta in ginocchio mentre sta realizzando alcuni disegni a carboncino. Sono ritratti di Roberto Longhi, il maestro conosciuto all’università nel 1942. Pasolini utilizza la foto di Longhi che si trova sul cofanetto del volume che esce nel 1973 e raccoglie i saggi più importanti dello storico dell’arte, curati da Gianfranco Contini. Con questa misteriosa allusione a Longhi (e implicitamente a Contini, che lo aveva scoperto come poeta) Pasolini sembra voler chiudere il cerchio della sua avventura intellettuale, rievocando il maestro al quale risaliva la sua “folgorazione figurativa”. Forse questo è il segno della fine di una fase di sperimentazione e di inizio di una nuova ricerca. Oppure, come dice Nunzio in Porno-Teo-Kolossal, “nun esiste la fine”.
Sottopasso di Piazza Re Enzo Bologna
Pier Paolo Pasolini . Folgorazioni figurative
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