Giovanni Cardone Ottobre 2021
Fino al 12 dicembre 2021 si potrà ammirare la mostra focus che verrà allestita dalla Fondazione Magnani-Rocca nella sontuosa Villa di Mamiano, frazione di Traversetolo, in provincia di ParmaPier Paolo Pasolini Fotogrammi di Pittura di Stefano Roffi e Mauro Carrera. La mostra si fregia del patrocinio e della
collaborazione del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia Pordenone e del Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini Fondazione Cineteca di Bologna. La collaborazione con
la Fondazione AAMOD consentirà la visione in sede espositiva del documentario Pier Paolo Pasolini. Cultura e società" del1967 di Carlo Di Carlo. A pochi mesi dal centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini la mostra focus che verrà allestita dalla Fondazione Magnani-Rocca intende evidenziare la piena apertura del poeta-regista al dialogo fra letteratura, cinema, arti figurative alla ricerca di quelle che furono al centro dell’interesse intellettuale anche di Luigi Magnani, fondatore della Magnani-Rocca, che visse a Roma nello stesso periodo di Pasolini e che ne possedeva le pubblicazioni. Particolare rilievo verrà dato ai riferimenti artistici ed estetici nei film di Pasolini. Il progetto dell’esposizione trae origine dal fatto che Pasolini, pittore egli stesso per tutta la vita, indicava sempre i modelli pittorici come riferimenti per il proprio linguaggio cinematografico, più per stile che per iconografia, spesso costruendo le inquadrature come scene dipinte, senza tuttavia farne citazioni semplicemente estetiche ma esprimendo efficacemente contenuti molto complessi, resi così universalmente comprensibili. L’inquadratura immaginata come un quadro spiega la preferenza di Pasolini per il campo fisso: come se io in un quadro - dove, appunto, le figure non possono essere che ferme - girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari; quindi la pittura risulta un mezzo congeniale per un linguaggio filmico di impronta. La citazione artistica viene espressa attraverso la messa in posa, i lunghi primi piani che sottolineano la ieraticità dei volti di attori presi il più delle volte dalla strada e la ricostruzione di veri e propri tableaux vivants.Posso dire che da una mia ricerca storiografica e scientifica e da una attenta e profonda analisi che ancor oggi la produzione artistica di Pier Paolo Pasolini
è oggetto di disputa all’interno del panorama letterario. Provocatore e visionario dall’animo in costante tumulto, e non estraneo dall’essere oggetto di animate critiche, pensando a Pasolini è inevitabile richiamare alla memoria quanto rispetto ad altri scrittori, o intellettuali in senso lato, egli abbia saputo porsi in contrasto con la ‘norma’ etico-letteraria del proprio tempo. Il contesto storico cui viene fatto riferimento riguarda la parentesi storiografica della neonata Repubblica: dalla prima fase di crescita economica e mutamenti sociali sino al clima sedizioso degli ‘anni di piombo’, volto alla conquista dell’egemonia politica e al soverchiamento delle istituzioni. Non sarà inutile ricordare come l’epoca in cui scrisse Pasolini fosse caratterizzata da crescenti e irrisolte tensioni a carattere politico, sfociate in una prima velleitaria risoluzione da parte di gruppi studenteschi e culminate in episodi di ben maggior entità a matrice terroristica, i cui artefici e
retroscena rimangono ancora sconosciuti o occultati ai più . Un clima di inquietudini sociali e attriti politici che necessitavano risposte. Nel tentativo di arginare la deriva ontologica e lo spaesamento derivanti dalle rapide trasformazioni della società occidentale, Pier Paolo Pasolini tentò di fornire il proprio personale responso alle problematiche avvertite con maggior urgenza.
Occupandoci però in questa sede di una rilettura inevitabilmente parziale della produzione letteraria e saggistica dell’autore, l’attenzione verrà ricondotta sul fatto che ad una distanza di più di quarant’anni le riflessioni formulate dall’intellettuale siano ancora in grado di unire e dividere il mondo accademico. Siffatta cosa non può che essere una riconferma del genio artistico che ancora merita di esser approfondito e se possibile rivisitato, con le dovute precauzioni, alla luce delle contingenze del terzo millennio. Il presente elaborato vuole cominciare esattamente da questo punto: il dibattito critico riguardo il valore della suddetta produzione letteraria. Occupandosi di Pasolini in ambito critico-letterario, la discussione verte sovente non tanto sulla valutazione oggettiva delle singole opere, quanto sul diritto che queste ultime possono arrogare nell’essere accolte nel dominio della letteratura. Come notò Carla Benedetti all’altezza del 1998, l’attenzione dev’essere innanzitutto traslata sul fatto non irrilevante che «l’opera di Pasolini è in conflitto con l’idea di letteratura che è stata dominante in Italia negli ultimi decenni» . Il che in un primo elemento si traduce nel fatto che la letteratura pasoliniana a differenza di altre non può essere letta in un contesto avulso dalla biografia dell’autore. Cosa di per sé perturbante per buona parte della critica, abituata a valutare l’opera letteraria in sé e per sé. La produzione artistica di Pasolini, a contrario, è il fedele specchio della personale metamorfosi ascendente dell’intellettuale, da ‘poeta lirico’ dell’amena Casarsa a ‘corsaro del dissenso’ nell’ultimo periodo, la cui peculiarità principale rimase nel costante dialogo fra uomo e società, fra intellettuale e potere. Una letteratura, dunque, dotata di un sensibile afflato politico, il quale richiama inevitabilmente all’Io dello scrittore, alla sua ideologia e alla sua rappresentazione della realtà. Scindere letteratura e biografia di Pier Paolo Pasolini, sotto molti aspetti ma in particolar modo le circostanze della sua morte - la quale assolutizza il mito dell’intellettuale rendendolo paradossalmente immune alla morte stessa - significa depotenziare e ridurre drasticamente la carica ideologica insita in ogni opera dell’artista. Per tale ragione, prima di affrontare l’arte, prima ancora di comprendere lo scalpore e lo scandalo suscitati da quest’ultima e le dinamiche grazie a cui ciò fu possibile, sarà necessario affrontare l’arista, o meglio: l’intellettuale. Si ripercorrerà brevemente, prestando attenzione a non incappare in una pedissequa sequela di banalità, e a non imbattersi nel principale rischio di chiunque scelga di avvicinarsi a Pasolini, ovvero di soccombere al fascino del ‘mito’, un piccolo scorcio biografico dell’autore. La parentesi temporale in questione riguarda il periodo prossimo alle stampe del romanzo Ragazzi di vita. Per questo motivo, e alla luce di quanto appena esposto, si comprenderà la necessità di alcuni brevi cenni biografici. Pasolini arrivò a Roma nel gennaio del 1950 assieme alla madre. Abituato all’ambiente domestico piccolo-borghese, una volta giunto nella capitale si presentò ai suoi occhi una realtà ben diversa da quelle di Casarsa e Bologna. Roma era - e per molti lo è ancora - una città divina, magica, «la più bella città d’Italia, se non nel mondo» , ma densa di contraddizioni. Nella Roma di Pasolini convivono proletariato e sottoproletariato, piccola e media borghesia, monadi che si agitano nel pulviscolo della capitale creando una fedele riproduzione della società italiana degli anni Cinquanta. In questa città l’intellettuale si immerge, in questa città si abbandona. Convinto avversatore della classe borghese e dei valori da essa rappresentati, e costretto dalle difficoltà economiche riscontrate nel primo periodo del soggiorno romano, Pasolini frequentò gli ambienti più umili esperendo un primo contatto con la classe proletaria in compagnia del poeta Sandro Penna. Assieme a questi cominciarono i primi pellegrinaggi notturni poi proseguiti in solitaria fra le zone di Trastevere e Vicolo dei Cinque, e successivamente più in là ancora verso le borgate di Primavalle e Quarticciolo. Sono i luoghi che da quel momento sempre frequenterà Pasolini, scrivendone con sentimento: egli ripudiò la natia società borghese accostandosi alle problematiche del proletariato. È dunque questa la sua Roma: una Roma proletaria, una città in cui la realtà quotidiana è costellata da analfabetismo e povertà. È in questo primo periodo che comincia a germogliare l’idea di un romanzo ambientato fra le borgate. Tuttavia, narrare la realtà delle borgate - e dunque anche di Roma - non significa limitarsi a descrivere le indigenze e i drammi della classe proletaria: se la città è lo specchio della civiltà cui appartiene, descrivere una città significa ritrarre un’intera nazione se non un’intera cultura . Ecco un primo problema che verosimilmente Pasolini doveva soppesare ancor prima di cominciare Ragazzi di vita, questione affrontata a posteriori denunciando come gli uomini di cultura avessero fino a quel momento trattato in termini approssimativi il problema delle borgate . Le raffigurazioni cinematografiche e letterarie di Roma
antecedenti a Ragazzi di vita avevano finito con l’essere immancabilmente semplicistiche, addirittura fuorvianti, banalizzando concetti sociologici e antropologici di più ampia portata, quasi come se nessuno avesse voluto assumere l’onere di raffigurare con adeguata sincerità la realtà dei fatti e di porsi, se necessario, in aperto dissenso con le istituzioni. Dall’arrivo nella capitale giungiamo al 13 aprile 1955, quando Pasolini invia all’editore Garzanti il dattiloscritto per la prima edizione di Ragazzi di vita. L’autore si accinge dunque a consacrare la propria rappresentazione letteraria di Roma, e nel farlo presta particolare attenzione ad evitare gli stessi vizi denunciati a posteriori. Tale obiettivo si realizzò innanzitutto grazie ad una circostanza: il fatto che Pasolini non nacque immediatamente come prosatore, la sua dimensione naturale fu e probabilmente restò sempre quella della poesia. Esulando dalla dimensione letteraria, oltre che romanziere fu un altrettanto valido critico, nonché saggista, artista poliedrico, cimentatosi nel cinema e grazie ad una recente riscoperta anche nella pittura. A questa circostanza segue una conseguenza: in tutte le opere - comprese quelle letterarie - è possibile intravvedere una coerenza straordinaria nello stile e nell’atteggiamento con cui l’autore sceglie di affrontare gli argomenti narrati.
Vi è come una consapevolezza sullo sfondo, non sempre manifesta, ma primigenia all’afflato letterario stesso: quella di essere un intellettuale. Chiarire cosa intendo mentre affermo che prima ancora di essere romanziere o scrittore o poeta Pasolini è un intellettuale, è prematuro. Per il momento basti ricordare come convenzionalmente all’interno di un’opera letteraria colui il quale parla è il testo e non l’autore. Quest’ultimo potrà ricorrere ad artifici letterari prestabiliti al fine di ingannare la percezione del lettore, facendo credere che narratore, autore e protagonista coincidano . Utilizzando come termine medio la compartecipazione dell’autore all’interno dell’opera letteraria affronteremo un altro scrittore, contemporaneo a Pasolini, il quale a differenza di quest'ultimo sembrò sintetizzare alla perfezione stile e convenienza letteraria richieste al romanzo: Italo Calvino. Questo confronto permetterà di delineare chiaramente il ruolo che Pasolini attribuì alla letteratura e la realizzazione pragmatica del suo ‘essere intellettuale’. Per non ripetere quanto già esposto, e data la potenziale vastità tematica deducibile da questo confronto, ci limiteremo a concordare con l’analisi già peraltro esaustiva compiuta da Carla Benedetti, la quale nota: «chi meglio di lui Calvino può incarnare l’autore discreto che si eclissa dietro la propria opera, che acconsente a dissolversi nella nuvola di finzioni?» . Un impegno intellettuale ragguardevole da parte di Calvino, di diversa accezione rispetto a quello dimostrato da Pasolini, il cui valore non viene qui messo in dubbio. Ma all’estremo opposto si collocherà per l’appunto l’impegno intellettuale dimostrato da Pasolini, il cui ‘Io’ mai si eclissa in favore del testo. Anzi, l’Io pensante dell’autore sempre risulta preponderante all’interno di esso senza scendere a compromessi con l’istanza mimetica. Ora, una vera e propria necessità di rottura nei confronti del canone letterario viene avvertita con maggior veemenza nell’ultimo Pasolini: è con Petrolio che verranno attaccati direttamente i principali tabù letterari. Seppur pertinente al periodo più tardo della produzione pasoliniana, una tale riflessione non può essere valutata singolarmente. La produzione letteraria, saggistica, cinematografica, artistica in toto dell’intellettuale è dotata di una significativa coerenza, pur riconoscendo allo stesso tempo una discreta dose di contraddittorietà riguardo ad alcune posizioni, data dalla continua ricerca dello scandalo. Ciononostante l’elemento che colpisce maggiormente è come il pensiero critico di Pasolini, fatto che può facilmente esser notato da chiunque abbia una certa familiarità con l’intellettuale in questione, per quanto risulti in certi casi contraddittorio non lascia spazio a significativi ripensamenti: sarebbe altrimenti possibile rintracciare i prodromi di un ragionamento, esposto in maniera compiuta a posteriori, in piccole osservazioni partorite fino a dieci anni prima e disseminate nel testo come piccoli tasselli di un mosaico che aspetta di essere ricomposto. Un breve esempio sarà chiarificatore: durante il viaggio in India Pasolini avrà modo di notare come parte della borghesia indiana veneri un particolare ideale estetico, grottesco nelle sue fattezze e dalla chiara somiglianza al canone estetico occidentale. Da questa breve annotazione risalente circa al 1962, e che ne L’odore dell’India occupa appena due pagine, Pasolini trarrà spunto per alcuni fra i suoi saggi più celebri come Acculturazione e acculturazione, oppure l’ancor più celeberrimo Discorso sui capelli, entrambi del 1973 . Pertanto, in virtù della suddetta coerenza, ma con le dovute precauzioni, sarà lecito tracciare un parallelismo fra la deontologia e il rigore etico sottesi nella lettera a Moravia e quelli adottati seppur in forma più mitigata all’altezza del 1955, quando Pasolini dà alla luce Ragazzi di vita. Nel romanzo, seppur l’istanza narrativa adottata sia convenzionale nemmeno avvalendosi di una voce apparentemente ‘camuffata’ Pasolini riesce ad annullare il proprio Io: il suo pensiero pervade ambienti e personaggi in ogni atomo narrativo. Mentre accostarsi all'opera di uno scrittore come Pasolini non è un'impresa semplice. Si ha come l'impressione di trovarsi di fronte ad un gigantesco mosaico, imponente e variegato, brulicante ma perfettamente coerente, di cui a stento si può cercare di intravedere il disegno generale tale è la forza accecante dei tasselli che lo compongono. La complessità e la poliedricità della sua figura e del suo pensiero, la vastità dei temi che ha saputo toccare e la moltitudine di linguaggi che ha sperimentato, lo rendono un'artista a tutto tondo, che è stato capace di cimentarsi nei più svariati ambiti spinto da un costante desiderio di comunicare con quel mondo che spesso gli appariva sordo. Il principale filo conduttore che lega le sue opere è costituito proprio da una costante attenzione alla realtà contemporanea, di cui tratteggia un ritratto drammatico, destinato a diventare sempre più cupo. Pasolini si sforza di rappresentare la tragedia che vede consumarsi di fronte ai suoi occhi, che si ripercuote sul singolo così come sull'intera società, la tragedia della fine di un'epoca segnata dall'avvento di un nuovo potere che sta cambiando la natura stessa dell'uomo. Mosso dalla volontà di rappresentare la realtà del suo tempo, l'autore intraprende un lungo e prolifico dialogo con la tragedia antica e i suoi modelli trovando proprio nel linguaggio tragico il modo per esprimere le contraddizioni che caratterizzano la società del suo tempo. Questo studio si propone di mettere in evidenza il continuo lavoro di recupero erielaborazione del linguaggio tragico nell'opera di Pasolini, dalla pagina scritta alla parola pronunciata nello spazio teatrale, fino a giungere al cinema dove immagini, parole e musiche riescono a condensare passato e futuro e la tragedia trova il proprio spazio e le proprie forme sul nuovo palcoscenico di cellulosa. Il tragico sembra rappresentare per lui l'essenza stessa delle conflittualità intrinseche dell'uomo consentendogli di indagare le trasformazioni che sconvolgono il presente e allo stesso tempo di immergersi in quell'humus primordiale da cui ha avuto origine la nostra storia. Attraverso un fitto dialogo con l'antica tragedia greca, l'autore risale alle radici stesse della cultura occidentale per interrogarsi sulla condizione umana, sulla società, sul presente. Si tratta di un percorso tortuoso che inizia a prendere forma già a partire dalla produzione giovanile dell'autore per poi culminare nella stesura delle opere teatrali modellate sulla tragedia greca e nella realizzazione delle opere cinematografiche ispirate ai testi tragici e ai loro miti. Questo percorso volto alla creazione di un nuovo linguaggio tragico evade dagli spazi della scena teatrale per realizzarsi nel linguaggio del cinema dove la tragedia sembra trovare davvero la forma più idonea per rivivere nella contemporaneità. Come avrò di spiegare durante questa mia trattazione che si delineano i contorni di un vero è proprio curpus tragico che si nutre di questi antichi echi e che con quei miti dialoga in modo vivo, vitale, libero. Il primo capitolo svolge una funzione introduttiva con il compito di inquadrare la posizione di Pasolini nei confronti della tradizione, sottolineando come il passato diventi ai suoi occhi un'arma di contestazione contro i modelli offerti dal presente.
La sua scelta di attingere alla tragedia antica gli permette di sperimentare uno straordinario strumento di lettura del presente e il confronto con le opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide diviene un passaggio indispensabile per andare alle radici del linguaggio tragico alla ricerca dei modi per poterlo esprimere nel mondo moderno. Dopo aver sottolineato i motivi che lo spingono ad intraprendere questo dialogo si passerà ad affrontare il primo incontro di Pasolini con i modelli della tragedia antica: un incontro precoce che risale ai tempi degli studi giovanili, in cui prende vita una prima produzione teatrale che dichiara apertamente la propria ispirazione e anticipa alcune caratteristiche che ritroveremo nelle opere della maturità. Dalle prime tragedie giovanili si passerà a considerare i tentativi di traduzione di testi tragici, ed in particolare, l'importanza della traduzione dell'Orestea di Eschilo, un'esperienza che permette a Pasolini un confronto diretto tra la propria lingua poetica e quella dei modelli antichi. Nel corso del secondo capitolo ci si addentrerà nell'analisi del teatro pasoliniano, un teatro che si rinnova nella tradizione, che guarda come modello alla tragedia greca riprendendone struttura e temi, riconoscendola come la via più autentica per rinnovare il teatro e come la forma capace di esprimere la tragicità del mondo borghese e la sua crisi proprio perché estremamente distante dal presente e dalle convenzioni letterarie imperanti.
Quello proposto da Pasolini è un teatro di poesia che rifiuta la lingua impiegata dalla cultura ufficiale permettendo alla parola di raggiungere il suo più alto grado di espressività attraverso il linguaggio poetico. Lo scrittore crede che il teatro possa essere uno straordinario strumento di riflessione e confronto e, così come lo era stato a suo tempo per gli antichi greci, un “rito” che implichi un coinvolgimento sia emotivo che conoscitivo da parte del pubblico, un momento in cui lo spettatore è chiamato a comprendere la realtà attraverso l'osservazione della sua rappresentazione e un modo per prendere coscienza delle contraddizioni che dominano il suo tempo. Nel teatro egli riscopre uno spazio in cui la parola poetica può tornare a farsi sentire sottraendosi a qualsiasi forma di manipolazione e alle logiche dell'industria culturale e della cultura di massa, un modo per esprimere delle idee rappresentandole attraverso un corpo e una voce capace di farsi spazio nella contemporaneità. Dopo aver presentato la proposta pasoliniana contenuta nel Manifesto per un nuovo teatro, si passerà ad illustrare il modo in cui Pasolini si pone nei confronti dei modelli antichi analizzando i tre testi teatrali in cui la suggestione antica si rivela nelle sue forme più evidenti: Pilade, Affabulazione, e infine Orgia, l'unica tragedia borghese che l'autore deciderà di mettere in scena. Nel terzo capitolo si passerà ad analizzare il modo in cui la tragedia venga trasposta nel cinema, la lingua che l'autore sceglie quando ormai sembra venir meno qualsiasi altra forma di comunicazione, una lingua che si rivela tragica quanto la realtà che cerca di esprimere. Dopo aver sottolineato la sostanziale continuità tra il suo teatro e la sua proposta di un cinema d'élite e aver accennato brevemente alle sue considerazioni sul cinema come lingua della realtà, si passerà ad analizzare le scelte adottate nella realizzazione di Edipo re e Medea presentando i principali tratti che
caratterizzano la sua trasposizione della tragedia sullo schermo e sottolineando così il carattere innovativo dell'operazione pasoliniana. Nel suo cinema Pasolini proietta la tragedia greca in uno spazio atemporale dai tratti primitivi, barbarici, permeati di una sacralità ormai sconosciuta all'uomo moderno. La tragedia antica rivive trovando un nuovo e inedito spazio, avvalendosi di nuove forme e linguaggi. Proprio come nel teatro antico, il presente è rappresentato attraverso l'immagine di un passato lontanissimo. Ciò che Pasolini si sforza di offrirci non è altro che la tragedia della nostra condizione, del nostro tempo, della nostra miseria. È nel cinema che l'autore riesce a trovare il linguaggio per riappropriarsi del passato, per ricreare quel simbolismo arcaico celato nel mito: proprio l'arte più nuova e meno codificata diviene per lui mezzo per riscrivere la tragedia antica, sperimentando un nuovo modo per rappresentarla.
Cercherò infine di dimostrare come questo dialogo con la tragedia antica, attraverso il doppio binario del teatro e del cinema, abbia permesso all'autore la creazione di un vero e proprio linguaggio tragico da impiegare anche per trasporre le sue tragedie borghesi sullo schermo cinematografico. Come avremo modo di vedere, infatti, se gli estremi di questa ricerca espressiva
sono rappresentati dai film Edipo re, Medea, Appunti per un 'Orestiade’ africana, la sua attenzione verso la creazione di nuovi modi per rappresentare la tragedia lo porta a tradurre sullo schermo opere inizialmente concepite per il teatro ‘Teorema’, o a trasporre i propri testi tragici in opere cinematografiche ‘Porcile’. In questo modo egli realizza delle opere in cui, nelle vesti di regista-tragediografo, cerca di fornire una rappresentazione tragica della realtà trovando il modo di trasferirla in una dimensione mitica in cui far emergere la verità che si cela dietro le contraddizioni della società. Lo studio di queste opere permetterà di soffermarsi sulle costanti e sulle evoluzioni delle scelte espressive adottate dall'autore. Questi film possono essere considerati come le varie tappe di un continuo lavoro di sperimentazione formale e stilistica alla ricerca di un linguaggio per esprimere la tragicità che caratterizza il mondo moderno. Lo schermo si trasforma così nel palcoscenico su cui mettere in scena la crisi di un'epoca che precipita inesorabilmente verso la sua fine. Sono arrivato al cinema dopo i quarant'anni, e questo fatto è stato fondamentale: ho girato il mio primo film semplicemente per esprimermi in una tecnica differente, tecnica di cui ignoravo tutto e che ho appreso con questo primo film. E per ciascun altro film, ho dovuto imparare una tecnica
differente e adatta." Fare film gli permetteva di raggiungere un pubblico molto più vasto dei pochi lettori di narrativa e poesia. Usava preferenzialmente attori non professionisti, soprattutto sottoproletari, affinché interpretassero se stessi. Tuttavia si rivolse anche ad attori professionisti eccezionalmente bravi, sublimi anche come persone. A lui si deve il merito di aver scoperto il Totò autentico, non quello dei film da consumo di massa, ma il Totò dolce, intelligente ed impegnato in una comicità d'alto livello culturale. Rifuggiva dal naturalismo, essendo per lui il cinema una ricostruzione del mondo attraverso il montaggio. Si ispirava ai registi Dreyer, Chaplin e Mizoguchi. Aveva un modo di ricostruire le scene che risentiva della sua formazione e passione pittorica. Colgo l'occasione per lanciare un appello: come è stata fatta la raccolta di tutti gli scritti nella collana "I Meridiani" Mondadori, sarebbe opportuno distribuire una raccolta completa di tutte le opere audiovisive (film, documentari, interviste televisive). Tale mancanza ha fatto sì che questa "puntata" del mio saggio si basasse (quasi) sulla sola lettura delle sceneggiature. Pasolini, in fase di montaggio delle immagini, modificava il copione. Il materiale filmico attualmente in vendita copre solo una parte delle sue opere. Possiamo dire che i suoi film come Accattone del 1961 nascono da un momento di sconforto, cioè durante il governo Tambroni appoggiato dai missini quindi Pasolini scrive la sceneggiatura già nel 1960 il film risente del clima politico di spostamento a destra, che fortunatamente ebbe breve vita. Il protagonista è Vittorio, detto Accattone, giovane sottoproletario romano che ha lasciato moglie e prole per vivere con Maddalena, da lui sfruttata come prostituta. Maddalena però finisce in carcere per calunnia e Accattone si ritrova senza soldi e affamato. Cerca allora aiuto dalla moglie, ma questa e la famiglia di lei lo cacciano via. Allora, dopo aver conosciuto una ragazza timida e innocente di nome Stella, tenta di prostituirla ma non ci riesce perché con tutta la buona volontà, è troppo brava ragazza per assecondare il primo (e ultimo) cliente. Intanto in carcere Maddalena viene a sapere dell'altra che l'ha rimpiazzata e denuncia Accattone per istigazione alla prostituzione (non sua, di cui tace, ma di "una povera ragazza"); la polizia comincia a tenerlo sotto controllo. Lui si innamora davvero di Stella, prova a lavorare ma non ce la fa fisicamente, non essendovi abituato. L'ultima risorsa è il furto. Ma la sua prima (ed ultima) esperienza di ladro finisce tragicamente con la morte, mentre cerca di sfuggire agli agenti che lo inseguono. Il mondo sottoproletario romano, ancora autenticamente legato a una cultura distinta da quella della classe dominante borghese, è visto dall'autore in tutta la sua crudezza e crudeltà, determinate socialmente dalla ingiustizia distributiva (col tacito patto tra borghesi, polizia e Chiesa). Non c'è da stupirsi quindi che "il 28 ottobre del1961 al cinema Barberini di Roma, alcuni dimostranti delle “Formazioni nazionali giovanili Nuova Europa” lanciarono volantini, bottiglie di inchiostro e ortaggi contro lo schermo. La sera, al cinema Quattro Fontane, Pasolini venne affrontato da un gruppo di giovani fascisti, che gli gridarono «in nome della gioventù italiana, fai schifo!» e lo schiaffeggiarono." Mamma Roma del1962 interpretata da Anna Magnani, è la storia di una prostituta che riesce ad affrancarsi dal suo protettore Carmine e decide di cambiare vita. Porta a Roma con sé il figlio sedicenne Ettore, che ha sempre ignorato l'attività della madre. Tenta di
fare una vita piccolo borghese, tenendo un banco di frutta nel mercato di Cecafumo. Vive totalmente nella dedizione verso Ettore; dopo aver cercato invano di mandarlo a scuola, essendo negato agli studi, con un sotterfugio riesce a fargli avere un posto di lavoro come cameriere in un ristorante famoso. Però Carmine torna e minacciandola di rivelare tutto al figlio, la costringe nuovamente a prostituirsi. Ettore viene a sapere il mestiere segreto notturno della madre da Bruna, una ragazza madre sempliciotta di cui si approfittano molti ragazzi del quartiere e che lui ha amato; disperato, lascia illavoro e si dà a piccoli furti, fino a quando non verrà arrestato e messo in prigione, dove febbricitante, legato a un tavolaccio a causa della sua inquietudine, muore chiamando la madre. Il fatto di questa morte assurda è reale: il diciottenne Marcello Elisei era morto proprio così a Regina Coeli, e quando Pasolini lo seppe si indignò nei confronti del direttore del carcere, dei secondini e, in ultima analisi, dei governanti che permettevano simili atrocità. Il personaggio di Mamma Roma è uno dei più riusciti dell'autore: è una donna che cerca di capire chi è responsabile di tutto il male che accade ai poveri cristi come lei. E' dubbiosa tra una responsabilità individuale, per cui ciascuno è colpevole per ciò che è e fa, ed una responsabilità sociale, per la quale è la società che crea le condizioni del male. Infatti la sceneggiatura termina col suo grido (dopo che ha saputo della morte del figlio): "I responsabili! I responsabili! I responsabili!" Nel film il grido fu eliminato. Il padre selvaggio (1962) è sotto forma di trattamento (con alcuni dialoghi e scene), ma non reso completa sceneggiatura né girato. La vicenda si svolge nel Congo durante la guerra civile immediatamente successiva all'indipendenza ottenuta nel 1960. In un clima di lotte tribali, che fanno alla fin dei conti gli interessi delle multinazionali neocolonialiste, le quali intendono dividere gli animi e non farli crescere in una reale democrazia, un ragazzo intelligente e sensibile (un po' tenebroso, per la verità) di nome Davidson, è alle prese con un nuovo insegnante (che somiglia al Pasolini degli anni '40, idealista ed educatore disinteressato). Questi è diverso dai suoi predecessori, che per interessi coloniali inculcavano negli alunni neri una cultura nozionistica e non critica. Il giovane insegnante invece vuole renderli liberi, facendogli conoscere la politica e soprattutto i libri di narrativa e poesia, occidentali e africani. Davidson si appassiona un po' alla nuova cultura (reale) ma tornato al villaggio ripiomba nelle crudeltà e irrazionalità in cui è stato educato dal padre selvaggio e finisce per partecipare a un massacro di soldati dell'ONU suoi ex amici. Nuovamente a scuola, si chiude in un silenzio disperato e da psicosi, per un conflitto interiore rimosso da cui però esce maturato grazie al professore che gli mette dinanzi la dura realtà. Diventerà un poeta, guarendo se stesso, anche se prima ha un ultimo raptus durante il quale ferisce l'insegnante. E' evidente il messaggio pasoliniano: solo attraverso la cultura, con una conoscenza storica e artistica, grazie alla ragione (non borghese, che è una ragione malata e classista, ma una ragione che scende a dar luce a tutti i moti dell'animo) possiamo sottrarci al regresso dell'irrazionale o del caos o della follia, facendo di questi ultimi contenuto di espressione: "Esprimersi significa guarire. Non importa se l'espressione è confusa, e se la speranza in fondo all'espressione è solo il «sogno di una cosa», come dice Marx." La ricotta del 1962 del 1963 è un episodio del film RoGoPaG (dalle iniziali dei
suoi registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Durante la lavorazione di un film sulla Passione di Cristo, diretto da un regista (marxista privilegiato in quanto intellettuale) interpretato da Orson Welles, la comparsa Stracci soffre la fame, dopo aver regalato il suo cestino alla famiglia sottoproletaria, e perduto un secondo cestino da lui sottratto con l'inganno ma divorato dal cane di un'attrice; dopo aver venduto il cane a un giornalista venuto per intervistare il regista, con le mille lire appena intascate corre a comprarsi della ricotta, ma lo chiamano per inchiodarlo sulla croce dove interpreta il ladrone buono. La fame aumenta sempre più. Le riprese vengono sospese perché le nuvole hanno coperto il sole e quando riesce finalmente a mangiare, non divora solo la ricotta ma gran quantità di altre vivande offertegli da amici divertiti dalla sua ingordigia. Chiamato di nuovo sulla scena della crocifissione, soffre adesso di una pericolosa indigestione, che lo porterà a morire veramente sulla croce, deludendo regista e produttore che si aspettavano la sua unica battuta, con cui doveva pregare Cristo di ricordarsi di lui quando sarebbe andato nel regno dei cieli. L'episodio fu sequestrato e incriminato per vilipendio della religione di Stato: Pasolini, inizialmente condannato a quattro mesi di reclusione con la condizionale, fu assolto in appello, poi la Cassazione annullò la sentenza di appello, pur dichiarando il reato "estinto per amnistia". Un altro capitolo assurdo nella storia della giustizia italiana e in quella personale dell'autore. La rabbia del 1962 e del 1963 è un film di montaggio di immagini tratte da cinegiornali e documentari, con commento in prosa e in versi, a rappresentare gli avvenimenti decisivi della storia dalla fine della seconda guerra mondiale sino alla morte di Marilyn Monroe, suicida a Hollywood il 4 agosto 1962. Alla parte pasoliniana segue quella di Giovanni Guareschi, che non piacque assolutamente a Pasolini per la sua mediocrità e il suo qualunquismo. Infatti il film fu un fiasco e determinò una controversia tra Guareschi, che accusava il nostro di essere un marxista conformista, e Pasolini che gli rinfacciava la sua facile demagogia. In effetti tutta la lotta politica e ideologica di Pasolini era rivolta contro il conformismo, sia di destra che di sinistra, con i suoi effetti di colonialismo, fame, razzismo e infine neocapitalismo con la cultura di massa e la televisione in particolare, a provocare
la "morte dell'anima". Anche la cultura, non superficiale, fondata sul formalismo e priva di anima, fatta per accontentare il gusto estetico degli sfruttatori, è un prodotto di rinuncia all'impegno reale. Il mondo sembra votato alla distruzione e Marylin Monroe, forse, col suo suicidio ha indicato una strada possibile per controbattere all'alienazione massmediatica, che ha reso volgare la sua bellezza, prima umile e quindi autentica. Oppure saranno i voli cosmici a rendere fratelli gli uomini, donando loro l'unica rivoluzione ormai praticabile, che è quella del rinnovamento dello spirito, attraverso l'abbandono della violenza e della guerra. Dobbiamo comprendere che l'autore non aveva il dono della prescienza; tentava, con l'ausilio della ragione, analisi di previsione su più strade (di qui la sua voluta ambiguità politica, tra marxismo e simpatie per i radicali italiani, in particolare Pannella: tuttavia non smise mai di dichiararsi marxista). Altri vedono in lui contraddizioni
insanabili, che invece una "ontologia dell'attualità" potrebbe chiarire, nel senso che non si dà verità se non nella storia, a seconda dell'epoca in cui si opera e si vive, e le verità, inoltre, sono plurali e prospettiche, come le previsioni sul futuro: la perentorietà di talune affermazioni del nostro nascono da una esigenza di persuasione nei confronti di un lettore o spettatore che deve maturare. Comizi d'amore (1963) è un film-inchiesta sulla sessualità degli italiani, con interviste a persone di ogni età e cultura appartenenti a classi sociali diverse, intercalate da interviste a gente della cultura e dello spettacolo. L'immagine che se ne trae è quella di una Italia divisa in due, non ancora unificata dal consumismo: nei settentrionali c'è più apertura mentale anche se non manca una certa confusione rispetto al sesso; nei meridionali invece permane l'idea della donna che deve arrivare vergine al matrimonio e del cornuto che deve lavare col sangue l'offesa al suo onore. La gente dello spettacolo ha col sesso un rapporto improntato al godimento (più o meno nascosto) e al successo, mentre gli uomini di cultura (intellettuali e poeti) sono gli unici in fondo ad avere risolto la scissione tra carne e spirito, grazie alla loro consapevolezza. Infatti, è proprio in nome della conquista di una maggiore consapevolezza che Pasolini termina il film augurando a una giovane coppia che sta per sposarsi: "Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore." Il Vangelo secondo Matteo (1963-4) riproduce fedelmente il testo sacro di duemila anni fa. L'occasione nasce dall'entusiasmo suscitato dal cattolicesimo progressista di papa Giovanni XXIII, che favorì il dialogo tra credenti e non credenti, tra cristiani e marxisti. Il regista andò personalmente in Palestina per conoscere i luoghi in cui visse e operò Cristo (da questa esperienza il documentario Sopraluoghi in Palestina). Il paesaggio gli sembrò totalmente mutato, modernizzato, inadeguato alle scene del Vangelo, che fu girato quindi nell'Italia meridionale (tra gli altri posti, nei mitici Sassi di Matera). Si servì della consulenza di sacerdoti cattolici della Pro Civitate Christiana di Assisi, in particolare di don Andrea Carraro. Scrisse su "Il Giorno" del 6 marzo 1963, nell'articolo intitolato Una carica di vitalità: "la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all'uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione." Uccellacci e uccellini (1965-6) è una favola ideo-comica che
vede due protagonisti in Totò e Ninetto Davoli. Il primo episodio, tagliato poi nel film, rappresenta la crisi del razionalismo di fronte alla realtà più assoluta del Terzo Mondo ancorato al mito e alla religione (quindi all'irrazionale). Un domatore di circo tenta invano di civilizzare un'aquila (che rappresenta l'irrazionalismo terzomondista) ma finisce per convertirsi lui alla visione più ampia e libera che gli insegna tacitamente l'animale, sino a volare via come se fosse lui stesso aquila. Il film come è in realtà, narra metaforicamente di due eventi importanti in quegli anni: 1) il rapporto della religione nei confronti della lotta di classe (e qui vediamo Totò e Ninetto che impersonano due umili fraticelli mandati da San Francesco a portare la novella evangelica a falchi (i prepotenti) e a passeri (gli umili); dopo varie difficoltà la predicazione viene recepita, ma non messa in pratica, perché i due frati vedono la loro gioia iniziale per il successo avuto annullarsi di fronte all'episodio di un falco che uccide un passero: tornano dal santo, che dice loro di riprendere la predicazione e non cessarla mai); 2) l'altro evento rappresentato è la crisi del marxismo (il marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta), che non può far fronte alle novità del mondo, soprattutto all'omologazione del linguaggio. Tutti devono per forza parlare allo stesso modo per non essere esclusi dalla società, e quindi si comportano tutti come consumatori di prodotti (inutili) che gli tolgono l'anima. E' il corvo (che simboleggia Pasolini stesso) a voler portare alla coscienza di due popolani, Totò e Ninetto, padre e figlio, la crudeltà del nuovo mondo universalmente imborghesito; inoltre c'è il problema dell'esplosione demografica e della fame nelle aree sottosviluppate. Cosa deve fare un marxista? Rinnovarsi, fare della non-violenza (come volevano Gandhi e papa Giovanni XXIII) lo strumento migliore per rispondere all'altrui violenza; capire inoltre l'urgenza di una risacralizzazione del
mondo (attraverso la cultura non superficiale e il mito), contro la volgarità desacralizzante del neocapitalismo. I due uomini, scocciati dalla "predica" di questo mite corvo, lo divorano dopo averlo arrostito: "Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l'intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l'«assimilazione» di quanto di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all'umanità [...]." Viene da pensare che Pasolini, scrivendo queste righe, prevedesse, almeno come possibilità, la sua fine cruenta. La terra vista dalla luna (1966) è il terzo episodio del film di più registi Le streghe. Attori protagonisti sono Totò (Ciancicato, il padre), Ninetto Davoli (Baciù, il figlio) e Silvana Mangano (Assurda, la nuova moglie di Ciancicato). Subito dopo la tumulazione del cadavere della prima moglie, Ciancicato, d'accordo col figlio, comincia la ricerca affannosa di una sostituta, una Donna Ideale; dopo vari tentativi, la trova in Assurda, una bellissima sordomuta, che sposerà e si rivelerà perfetta donna di casa. Ma i due, diabolicamente, non si accontentano della situazione economica e, per reperire i soldi necessari per una nuova casa, convincono Assurda a fingere una minaccia di suicidio, a causa della miseria, da sopra il Colosseo, al fine di far accorrere gente; così Ciancicato, con l'aiuto del figlio e di alcuni compari, organizza una colletta tra la folla, impietosendola con il racconto delle sventure di povertà della moglie. Succede però l'imprevisto: Assurda, mentre rappresenta a gesti il simulato dolore, scivola su una buccia di banana e muore cadendo. Nuovamente al cimitero, per seppellire anche quest'altra moglie, i due sono disperati. Tuttavia, al loro ritorno a casa, troveranno il fantasma di Assurda. Superato il terrore iniziale, convinti dai gesti di quella che spiega che lei è in tutto e per tutto come era da viva, buona moglie madre e casalinga, ritornano felici. L'episodio termina con queste parole scritte su un cartello: "Morale: essere vivi o essere morti è la stessa cosa" come a dire che chi sceglie di dare preminenza alla vita materiale rispetto a quella spirituale, è come se fosse morto. Che cosa sono le nuvole? (1967) è il terzo episodio del film di più registi Capriccio all'italiana. Totò e Ninetto impersonano rispettivamente Jago e Otello. E' una rivisitazione in chiave tragicomica dell'Otello di Shakespeare, interpretato in una finzione da teatro di burattini. Alla fine il pubblico, indignato dalla cattiveria di Jago e dalla dissennatezza di Otello, impedisce a quest'ultimo di strozzare Desdemona (Laura Betti); poi uccide sia Jago che Otello, consola Desdemona e porta in trionfo l'altro personaggio, Cassio (Franco Franchi), bello e innocente. I due uccisi vengono portati via nel "mondo esterno", nel dolore generale di tutti gli altri burattini. L'immondezzaro (interpretato da Domenico Modugno) li trasporta a una discarica, cantando la famosa canzone scritta da Pasolini che ha lo stesso titolo dell'episodio. Qui i due si accorgeranno, vedendo le nuvole, della bellezza delcreato. Morale (non detta) della favola è secondo me che non bastano le parole per guarire da un folle amore (cui si riferisce la canzone) ma occorre una esperienza di "morte", il passaggio forse doloroso da una vita a un'altra, una totale conversione dell'anima. Edipo re del 1967 è la storia di Edipo, tratta dalle tragedie di Sofocle. Nonostante i riferimenti autobiografici, nel film, ai luoghi di infanzia dell'autore, dobbiamo concludere inaspettatamente che il complesso edipico non appartenesse, almeno nella maturità, alla persona Pasolini ma al personaggio che lui interpretava. E' come se prendesse su di sé mali e complessi non attribuibili tanto a lui (che evidentemente li aveva superati con un lungo lavoro introspettivo, anche grazie al coraggio della sua indipendenza), ma a noialtri; e lo facesse per stimolarci a diventare consapevoli di quei mali e complessi per superarli. Sono costretto a contraddirmi (rispetto alle idee che mi ero fatto prima) alla luce di queste parole illuminanti: "Non ho mai sognato di fare l'amore con mia madre. Neanche sognato. Se mai potrei rimandare i due o tre lettori, che mi son rimasti fedeli, ad alcuni versi dell'Usignolo della Chiesa Cattolica, ...il sogno in cui mia madre / s'infila i miei calzoni. Ho piuttosto sognato, se mai, di fare l'amore con mio padre (contro il comò della nostra povera camera di fratelli ragazzi), e forse anche, credo, con mio fratello; e con molte donne di pietra." Cosa si evince da tutto ciò? Millenni di violenze (soprattutto sulle donne) hanno creato, per contrasto, nell'inconscio degli uomini una femminilizzazione (Pasolini che fa l'amore in sogno con i componenti maschi della sua famiglia; cfr. anche PASOLINI AUTORE DI TEATRO, quando parlo della tragedia Affabulazione) mentre le donne si sono via via mascolinizzate (Pasolini che sogna la madre che s'infila i suoi calzoni; le donne di pietra). E' questo passato violento che ci fa nascere già in una condizione di colpa, con un destino assurdo come quello di Edipo, e un "destino oltre il destino" che ci chiede di porre rimedio, ognuno come può, a un male di cui ignoriamo la nostra responsabilità. Appunti per un film sull'India (1967-8) è un breve filmato in cui l'autore presenta la sua idea di un film sull'India e intervista vari personaggi per capire come farlo: vuole trattare dei temi della fame, della sovrappopolazione e della religione, destinata forse ad essere distrutta dall'industrializzazione o forse no se gli indiani sapranno mantenersi a livello della loro millenaria cultura. Nel finale dice che l'India dà tutto; e si chiede: "Ma che cosa?" Azzardo una risposta affermando che l'India può insegnare a noi occidentali a rinunciare alla prepotenza, alla volontà di potenza. Il film, che doveva narrare le vicende della famiglia di un maharaja, non fu realizzato. Teorema del 1968 è la versione cinematografica del romanzo omonimo . Al solito l'autore e regista ebbe guai giudiziari che si risolsero con l'assoluzione. La sequenza del fiore di carta del 1967- 1969 è il breve episodio pasoliniano del film Amore e rabbia girato da più registi separatamente. Si ispira al racconto evangelico del fico maledetto e fatto di colpo seccare da Gesù perché non aveva frutti (v. Matteo 21,18-22). Il protagonista è un sottoproletario di nome Riccetto colto in una sua innocente passeggiata per le strade di Roma.
Dio gli parla ma lui non vuole ascoltarlo. Dio parla lo stesso e gli dice che non può rimanere inconsapevole di fronte ai mali del mondo, alle guerre e alle ingiustizie. Allora, giacché Riccetto continua ad ignorarlo, lo fa morire proprio come Gesù ha fatto col fico.
Porcile (1968-1969) è un film con due episodi ("Orgia" e "Porcile") che si intersecano, mentre nella sceneggiatura sono nettamente distinti. Il primo parla di un emarginato al tempo del Medioevo, che vaga per la campagna cibandosi di bisce, vermi, erbacce e radici, fino a quando non si imbatte in un soldato, lo uccide e dopo averne staccato la testa e averla buttata nella bocca di un vulcano, si ciba della sua carne; altri si aggregano a lui e formano una piccola tribù di cannibali, con relativa prole. Il Re della zona (non precisata) manda i soldati per catturare la banda servendosi di un'esca umana (un ragazzo e una ragazza completamente nudi). I colpevoli vengono quindi processati e condannati a morte: la società dei normali vuole presto dimenticare questa vicenda angosciante per l'ordine sociale, considerata la sua carica di contestazione globale sul piano esistenziale.
L'ingresso della democrazia formale nel Continente nero, al posto delle vecchie istituzioni tribali tiranniche e irrazionali, viene da lui visto come un dono della Ragione, che inoltre trasforma l'irrazionalità da distruttiva a fonte di "liberazione del simbolico" attraverso poesia, fantasia e sentimento. L'irrazionalità, che è retaggio del nostro passato animale e preistorico, non va rinnegata,
ma deve convivere con la ragione. Le tradizioni culturali arcaiche, pur nate in un clima di ingiustizia e arbitrio, dovranno rimanere nella memoria degli africani, a difenderne la specifica identità contro ogni tentativo di omologazione da parte dell'Occidente. Medea (1969), interpretata dalla eccelsa Maria Callas, intima amica del nostro, riprende l'omonima tragedia di Euripide. Giasone deve conquistare il Vello d'oro, la mitica pelle di caprone simbolo dell'assolutezza e della perennità del regno umano. Organizza una spedizione, detta degli Argonauti, e giunge nella Colchide dove si trova il Vello. Aiutato da Medea, la figlia del re, che per amore di lui tradisce la sua essenza magico-religiosa arcaica, sottrae il Vello e torna con i compagni e con la donna in patria. Qui però ha altri guai e devono fuggire a Corinto, dove vivranno con i due figli che sono intanto nati. Ma l'ambizioso Giasone vuole sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e quindi ripudia Medea. Quest'ultima per vendetta, ucciderà Glauce fingendo di regalarle una veste di nozze in realtà intrisa di un veleno scorticante, e i due figli, pugnalati, con i cui cadaveri brucerà nella casa sotto gli occhi impotenti di un Giasone a cui non resta ormai più niente al mondo. Medea rappresenta la civiltà religiosa arcaica, mentre Giasone l'ateo successo mondano. Sono due mondi incompatibili, che possono stare insieme solo per atto di amore, di vero amore, a cui verrà meno Giasone a causa della sua ambizione, scatenando così la terribile regressione di Medea al suo passato arcaico e sanguinario (che non ha mai superato, in realtà). San Paolo (progetto, tra il 1968 e il 1974, per un film non girato) traspone la vicenda della predicazione dell'Apostolo dei gentili nel
XX secolo, a cominciare dalla Parigi degli anni 1938-44, durante l'occupazione nazista: Paolo è un collaborazionista appartenente alla ricca borghesia reazionaria, fanatico e ingenuamente crudele, con una punta di disperazione nell'animo, che lo porterà a convertirsi sulla strada di Barcellona, chiamato da Gesù; si farà cristiano e apostolo, laddove i cristiani equivalgono ai partigiani della Resistenza. Le parole del santo sono le stesse delle sue Lettere. L'attualizzazione della vicenda vuole significare che Paolo è a noi contemporaneo, sia come santo (e qui il giudizio di Pasolini è positivo, in quanto il nascente cristianesimo distrugge la società schiavista romana) sia come organizzatore di chiese (e qui il giudizio, invece, è negativo, perché la religione istituita è fatale che scenda a compromessi con il potere e diventi ipocrita). Dice Paolo: "Il nostro è un movimento organizzato... Partito, Chiesa... chiamalo come vuoi. Si sono stabilite delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L'opposizione è un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una forza che prende il potere: e come tale sarà un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci - il vecchio ineliminabile uomo, meschino, mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni, e di convenzioni rassicuranti. Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione. Noi stiamo fondando una
Chiesa." E' stato Satana a imitare la voce di Dio e a mandare Paolo a fondare la Chiesa. Prova di ciò sono tutti i delitti che durante la storia ha commesso questa istituzione: papi criminali, compromessi col
potere, soprusi, violenze, repressioni, ignoranza, dogmi, e da ultimo il delitto più grave, cioè l'accettazione passiva del potere consumistico irreligioso che non sa che farsene di religione e morale e riduce la Chiesa a folclore, rispettandola solo come alleato politico e potere finanziario. Il messaggio autenticamente religioso (di santità) di Paolo non viene accettato da nessuno, in fondo, e chi lo accetta o è un santo pure lui o è un ipocrita che lo accetta solo apparentemente; gli intellettuali, sia di destra che di sinistra, col loro razionalismo, non hanno capito niente di religione, ignorando che la vera sapienza viene da Dio, data in premio a chi vive concretamente d'amore. Il Paolo pasoliniano è destinato ad essere ucciso da un sicario nella New York neocapitalistica, che rappresenta la versione contemporanea dell'originario potere imperiale romano dell'epoca in cui visse il santo. Il potere non cambia mai essenza, è sempre spietato, qualunque nome esso si dia, e finisce sempre con l'uccidere in mille modi coloro che si oppongono ad esso. "Trilogia della vita": Il Decameron (1970-1), I racconti di Canterbury (1971-2) e Il Fiore delle Mille e una notte (1973-4). Elogio della vitalità del sesso, gioioso e liberatorio, specie se visto con l'occhio rivolto al passato, quando la sessualità veniva repressa dal potere e quindi poteva essere realmente goduta come vitale scandalo, leggerezza e felicità. I popolani (ed anche alcuni borghesi) di Boccaccio o di Geoffrey Chaucer (autore dei Racconti di Canterbury) e alcuni principi e principesse arabi rappresentano un modello di comportamento che, più della cultura o della politica, ha del rivoluzionario, in quanto esso contraddice l'ipocrisia della classe dominante. Quando però Pasolini si accorge che i suoi tre film vengono strumentalizzati e imitati in versioni pornografiche, capisce che tutto è finito anche nel mondo del sesso, capisce che il sesso è divenuto un obbligo sociale voluto dal potere neocapitalistico che non sa più cosa farsene di Chiesa e moralità. Il regista così smette di fare film sul sesso liberatorio e girerà Salò, sul sesso come rapporto sadomasochistico tra vittime e carnefici, entrambi colpevoli. Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) è la trasposizione al tempo della Repubblica di Salò della vicenda narrata da Sade nel suo famoso romanzo, in cui parla di quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore) che riducono a cose dei giovani prigionieri maschi e femmine, seviziandoli per eccitarsi. Questo ultimo film girato da Pasolini vuole dire due cose: 1) il sesso è divenuto obbligo sociale (imposto dal consumismo) e quindi non è più gioioso e liberatorio, ma triste e cattivo; 2) il sesso è metafora del rapporto tra potenti (carnefici) e sfruttati (vittime): è chiaro che né i carnefici né le vittime sono innocenti, perché appartengono alla stessa educazione all'avere, al possedere e al distruggere, non quindi all'amare e all'essere. Infatti le vittime nel film, salvo rare eccezioni, non hanno scrupoli nel tradirsi a vicenda per evitare le punizioni, regolamentate dai quattro perversi. Queste alcune "perle" dalla trascrizione delle battute dei quattro privilegiati: "Tutto è buono quando è eccessivo." "Non c'è nulla di più contagioso del male..." "In tutto il mondo non c'è voluttà che lusinghi più i sensi che il privilegio sociale..." A questo fascismo crudele e volgare, Pasolini non può che contrapporre i versi di Ezra Pound dai Cantos (canto 99°): "La parola paterna è compassione; / filiale, devozione; / la fraterna, mutualità. / Del tosatel la parola è rispetto." Porno-Teo-Kolossal (solo progettato a livello di trattamento tra il 1967 e il 1975, ma mai sceneggiato né girato) avrebbe dovuto essere l'ultimo film di Pasolini, che poi si sarebbe occupato solo della scrittura del romanzo Petrolio. Ma non fece in tempo a realizzarlo, dopo Salò, perché morì ammazzato. Il protagonista, Epifanio (Eduardo De Filippo), è un moderno Re Magio, cioè uno che si intende di calcoli astronomici legati ad eventi della storia. Egli vive a Napoli con la sua famiglia, proprio quando si annuncia la venuta del Messia per portare felicità e pace nel mondo. Trovata conferma della notizia nei suoi calcoli astronomici, si mette in viaggio col servo romano disincantato Nunzio (Ninetto Davoli), seguendo la Stella Cometa che indica la direzione del nord. Arrivano a Sodoma, una città rappresentata dalla Roma degli anni cinquanta. Questa città incarna l'Utopia della mitezza: tutto scorre tranquillo e non ci sono violenze, anche se c'è già una prima
assurdità: i cittadini sono quasi tutti omosessuali, e i pochi eterosessuali vengono tollerati ma in realtà relegati a un solo quartiere. Un solo giorno all'anno, durante la Festa della Fecondazione, maschi e femmine si uniscono per dar vita a nuovi figli. Per il resto dell'anno, solo rapporti omosessuali (eccetto la minoranza di eterosessuali). Fatto sta che l'ordine viene violato da un ragazzino e una ragazzina che, prima omosessuali, scoprono ora misteriosamente l'attrazione l'uno per l'altra e si uniscono nel loro amore proibito. Scoperti, vengono arrestati e processati: saranno condannati a una pena non mortale ma comunque esemplare: lei dovrà essere posseduta dalle tre lesbiche più calorose della città; mentre lui dai tre giovani più superdotati. In seguito nella casa di Lot avvengono cose che contraddicono la mitezza della città: un gruppo di teppisti omosessuali pretende di sodomizzare degli ospiti dell'eterosessuale Lot. Questi si oppone, offrendo le sue figlie alle lesbiche. Nascono tafferugli. La Cometa si sposta ed Epifanio e Nunzio fuggono via, seguiti da Lot e le figlie, mentre Sodoma brucia distrutta dai fulmini mandati in punizione da Dio. In treno, le tre ragazze ubriache si approfittano del padre Lot, altrettanto ubriaco, mentre lui ripete loro di non voltarsi indietro. All'arrivo a Gomorra (una Milano della metà degli anni settanta), in stazione un gruppo di teppisti costringe le tre a voltarsi per possederle in quella maniera, e le ragazze sono trasformate in statue di sale. Gomorra rappresenta l'Utopia della violenza e dell'erotismo eterosessuale estremo: le donne vengono violentate per strada. Le situazioni di violenza costringono i cittadini a girare armati, e un napoletano offre in vendita delle armi anche ai nostri due protagonisti. In città non si ammette alcuna diversità, specie quella omosessuale, repressa nel sangue. Anche qui avviene misteriosamente una trasgressione: un operaio è attratto improvvisamente da uno studentello; i due si appartano nel bagno di un cinema ma scoperti vengono arrestati e condannati a una morte orrenda: il ragazzo ad essere seppellito vivo, l'uomo invece viene legato a una corda appesa a un elicottero, ucciso con un colpo di pistola alla gola e poi elevato sulla folla in modo che essa venga bagnata dal suo sangue. Dio si adira e colpisce la città con la peste, che fa morire tutti, tranne Epifanio e Nunzio che fuggono via seguendo la Cometa che si sposta ancora verso nord. Giunti a Numanzia (Parigi), sono fermati dall'esercito tecnoclericofascista che assedia la città, governata da un socialismo democratico. I fascisti destinano i fermati a campi di concentramento, ma i due vengono salvati da un napoletano, cuoco del Capo militare, che li sceglie come sguatteri. La Cometa si sposta verso il centro della città. I due, per seguirla, fuggono ed entrano a Numanzia, dove vengono arrestati dalle truppe resistenti. Mentre sono chiusi in prigione, un poeta propone il suicidio collettivo di tutti i cittadini per non finire schiavi dei fascisti. Dopo un referendum che mette ai voti la proposta, tutti si uccidono tranne - paradossalmente - il poeta, che non ne ha il coraggio, ed Epifanio e Nunzio rinchiusi in prigione. I tre vengono accolti dai fascisti. Il poeta diventa amico del Capo di questi ultimi, mentre Epifanio e Nunzio sono promossi a camerieri. Accade però l'imprevisto: il poeta litiga col Capo fascista per una questione di puntiglio e viene giustiziato. La Cometa ora si sposta verso oriente. I due personaggi prendono l'aereo diretti a Ur (il luogo dove finalmente dovrebbero trovare il Messia). Qui però vengono depredati (dal solito napoletano furbo) del dono per il Bambino (un presepio di valore) e alla fine scoprono che è passato troppo tempo: la spelonca in cui è nato Cristo è vuota e il Messia è già morto e dimenticato. Epifanio, stremato e deluso, muore. Un angelo si separa dal corpo di Nunzio e porta con sé l'anima del defunto in cielo, ma qui non trovano nemmeno il Paradiso. I due guardano la Terra sotto di loro ed Epifanio comprende che "è stata una illusione quella che l'ha guidato attraverso il mondo - ma è stata quell'illusione che, del mondo, gli ha fatto conoscere la realtà..." La realtà non è riducibile ad alcuna ideologia né politica né religiosa, ma è caotica, assurda e imprevedibile. Dalla Terra provengono ora canti rivoluzionari. Epifanio fa: "«Maaaaaa... e mo'?». Nunzio si è, chissà perché, un po' racconsolato: «Embè, sor Epifà» risponde. «Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà»." 4.3. Altre opere per il cinema 38 38 Compose commenti per diversi documentari girati da altri registi. Qui ricordiamo solo il finale di Caschi d'oro (1960) di Mario Gallo, in cui rivolgendosi ai giovani figli dei ricchi, dice: "Ah, ma è inutile parlarvi. La vostra vita, che voi credete così realistica, è una continua fuga dalla realtà, che è coscienza e luce di pensiero, e non avido conformismo. E' inutile parlarvi, tanto è chiaro che non mi risponderete mai." Nel 1974, nello Yemen per girare Il Fiore delle Mille e una notte, gira pure un documentario in forma di appello all'UNESCO, Le mura di Sana'a, per la salvaguardia dell'antica città. In Italia, dice, si può fare ben poco ormai: i paesaggi architettonici del passato sono irrimediabilmente rovinati dalle strutture moderne, ma nel Terzo mondo c'è ancora possibilità di impedire lo scempio urbanistico voluto sia da agenti neocapitalistici sia da quelli comunisti sulla base di una falsa idea di benessere; la tutela del patrimonio artistico, invece, è una risorsa non solo come rispetto della cultura del passato ma anche in vista di profitti turistici. L'UNESCO nel 1984 dichiarò Sana'a "patrimonio dell'umanità" e negli anni successivi, col contributo del Fondo Pasolini di Roma, lanciò una campagna internazionale per la conservazione e il restauro della città. Pasolini si impegnò anche come sceneggiatore per film di altri registi: La donna del fiume (1954) di Mario Soldati; Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini, che gli chiese di scrivere i dialoghi in dialetto romano e le parti che trattano della malavita; Viaggio con Anita (1957-8), trattamento per Federico Fellini, ma il film lo fece solo nel '78 Mario Monicelli aggiornando il materiale pasoliniano; La notte brava (1959) di Mauro Bolognini; Puzza di funerale (1959), ma il titolo del film fu poi Morte di un amico diretto da Franco Rossi (Pasolini ritirò la sua firma dalla sceneggiatura, a causa delle modifiche che vi apportarono, e mantenne solo quella per il soggetto); La nebbiosa (1959-60), collaborazione alla sceneggiatura, da cui solo nel '63 i registi Gian Rocco e Pino Serpi ricavarono il film violento Milano nera; Il bell'Antonio (1960), sceneggiatura tratta dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, per il regista Mauro Bolognini; La dolce vita (1960), alcuni episodi rielaborati da Pasolini su richiesta del regista Fellini, che poi però non ne fece granché uso nel suo famoso film; La giornata balorda (1960) di Mauro Bolognini; Ostia (1970) di Sergio Citti; L'histoire du soldat (1973), un film che avrebbe dovuto dirigere Giulio Paradisi, ma poi rimase irrealizzato, con una sceneggiatura scritta a più mani (Pasolini, Sergio Citti e Giulio Paradisi), avente come tema la "mutazione antropologica" degli italiani ad opera della televisione; Storie scellerate (1973) di Sergio Citti.In mostra sontuosi costumi realizzati per i film, prestati dallo CSAC di Parma, e indossati da celebri attrici, come Silvana Mangano, locandine originali dei film, al tempo spesso considerati scandalosi e quasi sempre vietati ai minori di 18 anni, rare fotografie d’epoca e la galleria fotografica delle opere d’arte che Pasolini ebbe come riferimento, in accostamento alle scene tratte dai film. Particolarmente nel suo primo film Accattone del 1961 emerge l’influenza del celebre studioso e critico d’arte Roberto Longhi, del quale Pasolini fu allievo all’Università di Bologna, e delle sue lezioni sul Romanico, su Masaccio e su Caravaggio. Sulla scelta del protagonista del suo secondo film Mamma Roma del1962, spiegava Pasolini. Ho visto Ettore Garofolo mentre stava lavorando come cameriere in un ristorante dove una sera ero andato a mangiare, esattamente come l’ho rappresentato nel film, con un vassoio di frutta sulle mani come la figura di un quadro di Caravaggio la drammatica immagine finale del ragazzo, sconvolto dalla rivelazione del della madre, morente e legato nell’infermeria della prigione, riprende il Cristo morto del 1485 di Andrea Mantegna, in una evidente sovrapposizione del sacrificio di Cristo con le sofferenze dei miseri.Ne La ricotta, episodio daRoGoPaG del 1963, Pasolini attraverso i dettami di Orson Welles, nel ruolo di un regista suo alter-ego che dirige un film sulla Passione di Cristo, ricostruisce a tableau vivant, due opere di manieristi toscani: la monumentale Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino del 1521 e l’altrettanto imponente pala, di analogo soggetto, del Pontormo . Numerosi sono i riferimenti pittorici anche ne Il Vangelo secondo Matteo del 1964 e Teorema del 1968 in particolare Piero della Francesca e Francis Bacon , poi ne Il Decameron del 1971 col regista che dichiara il suo debito verso Giotto e Velázquez; ma la grande arte è presente nella concezione estetica di tutti i film di Pasolini, fino all’ultimo, lo scandaloso quanto lucidissimo e profetico Salò o le 120 giornate di Sodoma. L’estremo tableau vivant è la morte caravaggesca del regista a Ostia il 2 novembre 1975. Il catalogo della mostra edito da Silvana editoriale presenta saggi di Roberto Chiesi Mauro Carrera e Stefano Roffi.
Fondazione Magnani – Rocca
Pier Paolo Pasolini Fotogrammi di Pittura
dal 11 Settembre al 12 Dicembre 2021
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00 - Lunedì Chiuso