di
Rita RANDOLFI
Di
Giuseppe Tenerani,
fratello del più noto Pietro (fig 1), si conosce quasi unicamente ciò che è riferito da
Oreste Raggi nel 1880, ma grazie al reperimento di alcuni documenti è possibile avere un’idea più precisa della sua attività
[1].
Nasce a Torano nel 1793 e viene a Roma in cerca di fortuna nel 1818 con un altro fratello,
Carlo Geremia, anch’egli scultore. Purtroppo quest’ultimo si ammala e
Giuseppe, dopo averlo riaccompagnato a casa
[2], dove
Carlo Geremia morirà prematuramente, torna a Roma nel 1819, ospite di Pietro. Il vincolo di
profondo affetto che unisce i due Tenerani si evince immediatamente dall’atteggiamento di Pietro, che lo spinge a intraprendere gli studi classici, sotto la guida dell’amico
Orazio Carnevalini, per portare a compimento la sua specializzazione da “ornatista”, e lo introduce nell’atelier del
Thorvaldsen, all’interno del quale lui riveste un ruolo importante
[3].
Giuseppe esegue, su modello del maestro, il
san Tommaso destinato alla
Vor Frue Kirke, ed il danese gli dona i bozzetti originali non solo del
san Tommaso, ma anche del
san Giacomo Maggiore, quest’ultimo ereditato successivamente da Pietro e ancora oggi nella
Gipsoteca Tenerani in deposito presso il
Museo di Roma di palazzo Braschi
[4].
Tra il danese ed i due toscani si instaura un rapporto di reciproca fiducia e stima, che si svela anche in un gesto apparentemente banale: il 15 maggio del 1822 Giuseppe accompagna il “
Fidia nordico” a Orvieto allo scopo di riportare Pietro, colto da febbre, a Roma
[5]. La premura nei confronti di Pietro e la decisione di coinvolgere Giuseppe non solo dimostrano
la delicatezza e la sensibilità di Thorvaldsen, che in ogni caso aveva i suoi interessi, visto che Pietro gli aveva disbrigato diverse situazioni a dir poco “imbarazzanti” con alcuni committenti, ma anche la consapevolezza di quanto i due fratelli fossero uniti e si sostenessero a vicenda.
Pietro, già pienamente inserito nell’Urbe, accoglie Giuseppe sin dal suo arrivo in città nella propria abitazione di
via delle Quattro Fontane ai nn. 173-175 fino al 1840, anno in cui quest’ultimo si trasferisce in un appartamento sulla stessa strada, ma al civico 172
[6]. Il motivo di questa “separazione” si deve al matrimonio di Pietro con
Lilla Montobbio. Tuttavia il più accreditato scultore non smette di preoccuparsi per il fratello, per il quale paga la pigione dell’alloggio prossimo all’edificio in cui pure lui dimora e quella dello studio di scultura ubicato dietro «
Alla Consulta»[7].
Pietro inoltre offre lavoro al fratello, affidandogli la replica di alcune sue opere, nonché la direzione della realizzazione di alcune parti di monumenti particolarmente impegnativi
[8]. Dunque Giuseppe vive un po’, per usare un’espressione arcinota tra gli studiosi di storia dell’arte, “all’ombra” di Pietro.
L’11 luglio del 1866
Giuseppe viene a mancare
[9]. Dall’inventario inedito dei suoi beni si deducono una serie di notizie, che in parte confermano il giudizio piuttosto negativo espresso su di lui da
Oreste Raggi
[10], che lo definisce «di natura accidiosa nell’operosità, nello studio, nello amore della storia», in parte colmano le lacune circa la sua produzione, e, infine, raccontano di un affetto fraterno mai scalfito, nonostante i caratteri assolutamente agli antipodi dei due protagonisti
[11].
Giuseppe non roga un testamento, motivo per cui
Pietro, da persona corretta ed onesta come le fonti tramandano, ne fa redigere l’inventario dal
notaio Pietro Fratocchi, pubblicando la notizia sul
Giornale di Roma e, come di consueto, tramite avvisi affissi in diversi luoghi della città, per accertarsi della possibile esistenza di creditori. Non essendosi presentato alcun “pretendente”
il rigattiere Enrico Balmas, fratello di Francesco, che redigerà anche
l’inventario di Pietro, e che ha il suo negozio
in via della Colonna n. 48, il 10 luglio del 1866 procede alla stima degli oggetti appartenuti al defunto, partendo da quelli conservati nell’appartamento di
via delle Quattro Fontane n. 172.
Scorrendo il documento ci si rende conto che il
tenore di vita di Giuseppe non deve essere stato troppo modesto. Sono infatti menzionati libretti della cassa di risparmio
[12], servizi in argento, anelli con diamanti, orologi, occhiali da teatro, e
crediti contratti con i Muti Papazzurri e
con Achilleo Agostini, che potrebbero essere stati suoi committenti. Il fatto che egli abbia nascosto nella fodera di un cappello la somma di quattrocento scudi e otto napoleoni fa pensare ad una persona accorta, che amministra con attenzione il suo patrimonio, cercando di non spendere tutto e subito.
Nello studio, oltre agli attrezzi del mestiere, come scale, cavalletti, un leggio per statue, squadre, che poi saranno trasferiti negli atelier di Pietro, si trovano anche il
Fauno seduto che suona una zampogna,
menzionato dal Raggi, che si rammarica fosse stato realizzato in gesso, considerata la sua «vaghezza e semplicità», probabilmente derivate dai modelli che
Pietro aveva elaborato per
il conte Franz Erwein von Schönborn[13], e un altorilievo con
Nettuno e la ninfa Amimone ripreso da un bozzetto del fratello per una fontana del
cortile di palazzo Torlonia in
piazza Venezia a Roma
[14]. Nel documento si trovano elencati anche alcuni gessi come: un bassorilievo con
l’Angelo della Resurrezione, forse ripreso da quello ideato da Pietro per il monumento sepolcrale della duchessa
Maria Colonna Lante in
Santa Maria sopra Minerva[15],(fig. 2) replicato almeno altre quattro volte e nuovamente modellato da Giuseppe stesso per
l’Accademia di Ferrara[16], e un altro per il
monumento di Gregorio XVI Cappellari
[17].
Raggi ricorda
due copie del busto del pontefice, uno per la camera di commercio di Roma e l’altro per il comune di Tivoli
[18], e due busti mai citati prima d’ora, uno rappresentante
Telemaco. È chiaro come Giuseppe abbia vissuto sotto le ali protettrici del fratello, tuttavia va precisato che nella biografia scritta su di lui dal
Raggi sono ricordate anche due opere non menzionate nel suo inventario dei beni: si tratta di una statua di
Mercurio collocata nel
teatro di Tordinona per volontà degli stessi
Torlonia, e del monumento a
Teresa Pelzer, nella
cappella di Antonio Ceresa in
Santa Maria del Popolo, erroneamente creduta di
Pietro (fig. 3)
[19]. Raggi afferma che
il tedesco Stefano Pelzen commissiona il monumento in onore della
consorte Teresa, morta di parto nel 1852 ad appena ventisei anni, direttamente a
Giuseppe, che consegna l’opera nel 1856, data riportata persino sulla lapide sepolcrale. Lo scultore prende a modello il monumento di
Maria Colonna Lante in
S. Maria sopra Minerva, licenziato da
Pietro entro la fine di ottobre del 1847, inserendosi in quel dibattito alla moda circa il linguaggio e l’iconografia dei primitivi a cui ispirarsi
[20].
Teresa giace sdraiata sul letto con la testa appoggiata su due cuscini,
come Maria Colonna Lante, e stringe al petto il suo bambino, che pare dormire sereno. Le pieghe del vestito cadono in maniera più morbida rispetto a quello della nobildonna romana, rivelando la maestria del suo artefice e la capacità di rendere, nella semplicità delle forme, i sentimenti più intimi. Il monumento è persino firmato e datato dall’artista, come si legge sulla

lastra in alto a destra “G. Tenerani faceva 1857”, ad ulteriore conferma dell’esattezza della citazione del Raggi.
Potrebbe risultare strano che
Giuseppe non designi alcun erede neanche tra i nipoti, ma sicuramente era conscio del fatto che morendo sarebbe subentrato il generoso fratello, al quale, in fondo, doveva tutto, l’appartamento, lo studio, il vitto, le commesse e con il quale, a giudicare dai contemporanei, aveva sempre mantenuto un rapporto di grande affetto.
L
’inventario dei beni di Giuseppe in conclusione, più che aggiungere dettagli sulla carriera artistica di uno scultore finora piuttosto trascurato, racconta piuttosto di un legame familiare forte, che perdona le fragilità e va oltre, restando fedele a se stesso, nonostante le difficoltà.
di
Rita RANDOLFI
Roma 22 / 1 / 2017
Appendice
ASR., Trenta Notai Capitolini, notaio Pietro Fratocchi, uff. 21, vol. 837, 20 luglio 1866
Inventario dei beni ereditari lasciati dal fu Giuseppe Tenerani, cc. 102-112
Regnando il sommo pontefice Pio IX.
Il giorno undici corrente cessò di vivere in Roma Giuseppe Tenerani senz’aver fatto alcun testamento, od altro atto di sua ultima volontà, ed alla intestata sua eredità è succeduto per ministero di legge suo fratello Sig. Commendatore Pietro Tenerani, il quale volendo agire con ogni cautela ha risoluto adirne l’eredità col beneficio della legge, e dell’inventario non avendosi certezza, che vi siano creditori da intimarsi a forma di legge, nel giorno 16 corrente sono stati affissi pubblici avvisi nei luoghi soliti della città inserendone copia nel giornale di Roma del giorno 17 corrente n. 161 con i quali atti si è reso a notizia di chiunque potesse avere interesse in detta eredità …
In esecuzione di che io Pietro Fratocchi Notaro del Pubblico Collegio … mi sono recato in casa del defunto mentre visse abitata posta in via delle Quattro Fontane n. 172, piano terzo ove giunto ho rinvenuto l’IIl.mo sig. Commendatore Pietro T. domiciliato in Roma via Delle Quattro Fonane n. 173 (nonostante non si sia presentato nessuno e constata la contumacia dei parenti, Pietro vuole che sia ugualmente redatto l’inventario)
Dichiara inoltre il sullodato ill.mo Commendatore che dall’anno 1819, epoca in cui Giuseppe Tenerani venne in Roma, è stato alloggiato in casa di esso dichiarante, dove pure ha ricevuto dal medesimo il mantenimento, che nell’anno 1840 circa il suddetto Giuseppe andò ad abitare nella casa ritenuta in affitto da Tito Barbi, ove ha cessato di vivere, ed esso dichiarante ha pagato a questo del proprio il subaffitto da detta epoca a tutto oggi in scudi tre mensili, che dalla detta epoca 1840 a tutt’oggi gli ha pagati ancora la pigione dello studio i scudi trentatre annui …
Quindi coll’opera del sig. Enrico Balmas, figlio del fu Benedetto, pubblico perito rigattiere patentato, avente il negozio in via della Colonna n. 48, è stato descritto quanto esistente in una camera del terzo piano di via delle Quattro Fontane n. 172 abitata dal sig. Tito Barbi e che il medesimo subaffittava al defunto
Vestiario
c. 104v.
Sei cucchiari, sei forchette, sei coltelli il tutto d’argento
… Piccola cassetta d’albuccio con entro molti ferri da lavoro da scultore, il tutto s. 1
[1] R. Randolfi
, Gli inventari dei beni di Pietro e Giuseppe Tenerani: documenti per datare e scoprire nuove opere, in “Ricche Minere”, 5, 2916, pp. 124-132.
[2] Qui Carlo Geremia muore prematuramente. Cfr.
, O. Raggi,
Della vita e delle opere di Pietro Tenerani, del suo tempo, Firenze 1880, p. 482.
[3] R.M. Galleni Pellegrini,
Spese sostenute da Pietro Tenerani per il cugino Nicola Marchetti, in “Bollettino dei Musei comunali di Roma, 13, 1999, pp. 121-146 in partic. p. 127.
[4] L. Skiøthaug in S. Grandesso,
Bertel Thorvaldsen (1770-1844), Cinisello Balsamo 2010, p. 278, numeri 271 e 273, p. 279, numero 277.
[5] H. Thiele,
Der danskee Billedhugger Bertel Thorwaldsen og hans Værker. Anden Deel, København, 1832, III, pp. 98; 129.H. Tesan,
Thorvaldsen und seine Bildhauerschule in Rom, Köln, Weimar, Wien 1998, p. 231.
[6] L’appartamento gli viene affittato da Tito Barbi, talmente amico di Pietro da occuparsi, alla sua morte, di far aggiungere annotazioni al catalogo delle opere, nonché ricordi di famiglia. Sul rapporto tra Pietro ed il Barbi si veda: Raggi 1880, p. 366. Altre notizie su Giuseppe sono state fornite da R.M. Galleni Pellegrini,
La famiglia Tenerani, in
P. Tenerani,
Centodieci lettere inedite. Archivio privato Carlo Agostino Marchetti, Massa 1998; Ead.,
Spese sostenute da Pietro Tenerani per il cugino Nicola Marchetti, … cit., 1999, p. 127 e nota 12. Pietro ha due fratelli, Carlo Geremia, (1798-1818) al quale l’artista è talmente affezionato, da chiamare il primogenito con lo stesso nome, e Giuseppe, che dal 1847 al 1849 fa parte della Guardia Civica.
[7] L’ubicazione degli atelier di Pietro e Giuseppe Tenerani è confermata anche da:
Il Mercurio di Roma: ossia grande raccolta di indirizzi e notizie de scultori a Roma, Roma 1843, p. 295, che riferisce gli studi del primo a via delle Colonnette Barberini n. 33 e a piazza dei Cappuccini 83, e quello del secondo: «Alle rimesse del Papa, 2». Cfr, R. Randolfi,
Di padre in figlio: genesi della gipsoteca di Pietro Tenerani, in
Abitare il Museo. Le case degli scultori, a cura di M. Guderzo, Atti del terzo convegno internazionale sulle gipsoteche, (Possagno 4-5 maggio 2012), Crocetta del Montello (TV) 2014, pp. 193-201.
[8] ASR., Trenta Notai Capitolini, notaio Pietro Fratocchi, uff. 21, vol. 837, 20 luglio 1866, Inventario dei beni ereditari lasciati dal fu Giuseppe Tenerani, ff. 102-112. Cfr. Appendice. Per alcune notizie su Giuseppe si veda anche: L. Scardino,
Alcune lettere ferraresi di Pietro Tenerani, «Labyrinthos», 41-42, 2002, pp. 84-85.
[9] J.B. Hartmann,
La nascita di un monumento Neoclassico eseguito a Roma ed eretto a Monaco di Baviera, in
Thorvaldsen a Roma, a cura di J.B. Hartmann, Roma 1959, p. 36, nota 57.
[10] Raggi, 1880, p. 484:«Passò la maggior parte della vita in quel dolce far nulla che io direi amarissimo».
[11] ASR., Trenta Notai Capitolini, notaio Pietro Fratocchi, uff. 21, vol. 837, 20 luglio 1866, Inventario dei beni ereditari lasciati dal fu Giuseppe Tenerani, ff. 102-112. Testimone della parte di inventario relativo all’appartamento di Giuseppe è, ancora una volta, Tommaso Cardelli.
[12] Tra i libretti della cassa di Risparmio ve ne è anche uno intestato a Pietro Bonanni, anch’egli scultore e allievo di Pietro. Cfr. Raggi 1880, pp. 410-411.
[13] Sul successo di questa composizione si veda. S. Grandesso,
Pietro Tenerani (1789-1869), Cinisello Balsamo 2003, p. 79.
[14] Questa fontana faceva pendant con un’altra, sempre ideata da Pietro, ma scolpita da Giuseppe Obici, con
Numa Pompilio e la ninfa Egeria. Raggi 1880, p. 483.
[15] R. Randolfi,
Pietro Tenerani e i monumenti Colonna-Lante in Santa Maria sopra Minerva: nuovi documenti, «Neoclassico», 29, 2006, pp. 72-81.
[16] Scardino 2002, p. 86.
[17] O. Raggi,
Opere di scultura di Pietro Tenerani raccolte nella Galleria del Palazzo Tenerani in via Nazionale n. 359, Roma 1875, p. 17, n. 122, nomina due repliche dell’effigie del Papa, realizzate da Pietro una per la Camera di Commercio di Roma ed una per il Comune di Tivoli.
[18] Raggi 1875, p. 2 n. 122. Due versioni si trovano citate anche in Raggi 1875, pp. 575, 576;
[19] Raggi 1880, pp. 142; 482- 484; Galleni Pellegrini 1999, p. 127, nota 12; Grandesso 2003, p. 176.
[20] Randolfi 2006, p. 77.