In un epoca come la nostra, in un Paese come il nostro, nel quale i processi penali aventi ad oggetto reperti archeologici (in sempre crescente ascesa) terminano - per la loro complessità e la lentezza della macchina giudiziaria - molto spesso con una sentenza di declaratoria della prescrizione del reato, ci si chiede se sia o meno scontato che i reperti in sequestro (in quanto ritenuti - secondo l’originaria prospettazione accusatoria - di provenienza illecita) debbano essere restituiti o meno a colui il quale li possedeva prima del sequestro penale o se, invece, si possa de plano procedere alla confisca degli stessi, realizzando in tal modo lo Stato l’acquisizione di un reperto archeologico “a costo zero” in sostanziale danno del privato che lo possedeva.
In altri termini, quale sarà la sorte dei reperti archeologici sequestrati nell’ipotesi (tutt’altro che infrequente) di proscioglimento per prescrizione da imputazioni per “furto d’arte” o ricettazione archeologica?
Possono tali reperti essere restituiti all’originario possessore o saranno confiscati in favore dello Stato?
Su tali quesiti, dottrina e giurisprudenza, si sono interrogati per anni.
Oggi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione – partendo dal condivisibile presupposto per cui è possibile procedere a confisca solo in presenza di una sentenza di condanna (e tale non è quella di prescrizione) – è oramai consolidata nel senso di ritenere che, in assenza del presupposto costituito da una pronunzia di condanna, non possa essere disposta la confisca (di cui all’art. 240, I comma, c.p.) di reperti archeologici sottoposti a sequestro.
Del pari non sarà possibile procedere neanche alla confisca prevista dal II comma, n. 2, dell’art. 240 c.p., in quanto i reperti archeologici non rientrano fra le cose intrinsecamente illecite (quali, ad es., gli esplosivi o gli stupefacenti), per i quali – invece – secondo tale ultima disposizione (II comma, art. 240 c.p.) è disposta la confisca anche in caso di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione.
Chiarito che non è possibile procedere a confisca dei beni in sequestro nell’ipotesi di proscioglimento per intervenuta prescrizione, è necessario adesso rispondere alla seguente, fondamentale, domanda: se non è possibile procedere a confisca, a chi dovranno essere restituiti tali reperti?
Sul punto, nonostante una “favorevole” giurisprudenza delle Corti d’appello romane e bolognesi secondo cui “nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato di ricettazione di oggetti archeologici, gli stessi, qualora sequestrati, possano e DEBBANO essere restituiti al detentore” (ammettendo, quindi, una restituzione de plano in favore di colui il quale li deteneva all’atto del sequestro), la giurisprudenza maggioritaria ritiene, invece, che i reperti in sequestro debbano essere restituiti al soggetto che - in base alla normativa civilistica generale ed a quella speciale in materia di beni archeologici - dimostri di esserne il legittimo proprietario.
In altri termini, secondo tale orientamento (più restrittivo), per poter ottenere la restituzione dei reperti in sequestro non basterebbe dimostrare di esserne il legittimo detentore, dovendosi - invece - fornire la dimostrazione di esserne il legittimo proprietario (cosa diversa dalla mera detenzione), con evidente aggravio dell’onere probatorio a carico del privato.
A questo punto, la domanda da porsi diventa la seguente: come e quando è possibile ritenere che il bene in sequestro sia di legittima proprietà del detentore e che, quindi, questi abbia diritto alla restituzione?
Tralasciando le ipotesi nelle quali non possa revocarsi in dubbio la proprietà di un reperto (il caso del buon padre di famiglia che meticolosamente conserva fatture e ricevute d’acquisto che dimostrino che il reperto sia stato “scavato” prima del 1909), nella maggior parte dei processi penale per reati cd. “archeologici”, tale prova “regina” manca (si pensi al classico “coccio” o all’anforetta ricevuta in eredità o per regalo dai nonni, che si detiene in casa propria da anni!).
In tali casi, il privato – al fine di poter dimostrare di esserne il legittimo proprietario – dovrà dimostrare che (a) il reperto non sia stato rinvenuto in data successiva al 1909 (data a partire dalla quale i reperti archeologici presenti nel sottosuolo nazionale sono de iure di proprietà dello Stato) e che (aa) il bene gli sia pervenuto sulla base di validi titoli.
Tale prova, molte volte, risulta una vera e propria probatio diabolica, difficile da raggiungere, per mancanza di testimoni, per mancanza di pubblicazioni (com’è noto, solo i pezzi più pregiati assurgono alla dignità di stampa), per mancanza di documenti o di altri fonti di prova che possano attestare il rinvenimento del reperto in data antecedente al 1909.
Quanti di coloro i quali detengono in casa reperti archeologici sono effettivamente in grado di dimostrarne il rinvenimento in data antecedente al 1909 (ovvero, oltre 100 anni orsono)?
Statisticamente, sulla base dell’esperienza processuale degli ultimi anni, solo il 40% degli imputati.
La forte difficoltà, a volte vera e propria impossibilità, di fornire tale prova induce chi scrive a ritenere che – aderendo a tale orientamento giurisprudenziale più rigoroso – si privi de facto il detentore del reperto della possibilità di provare il legittimo possesso (rectius, proprietà) del reperto, minando – in tal modo – il suo diritto di difesa (che non può non attenere anche tale aspetto), in violazione del dettato dell’art. 24 Costituzione in materia di diritto di difesa (effettivo).
In poche parole: chiedere al privato di dimostrare l’indimostrabile (tale è il chiedere al privato di ricostruire la “storia” di un reperto dal 1909 ad oggi, in assenza di tecniche “scientifiche” che possano aiutare il privato in tale “impresa”) equivale – nella sostanza - a privarlo del diritto di difendersi.
Ed è proprio per ovviare a tale paradosso, che – a nostro avviso – debbono guardarsi con favore i recenti arresti giurisprudenziali che, partendo dal presupposto in virtù del quale “anche in materia di possesso di beni archeologici vigono le normali regole processuali, secondo le quali l'onere della prova incombe sulla pubblica accusa ed il detentore non è tenuto a dare la prova contraria della legittimità della provenienza degli oggetti detenuti”, garantiscono il rispetto degli artt. 24 e 42 della Costituzione, evitando al privato di dover fornire una vera e propria prova diabolica.
Avv. Prof. Francesco Emanuele Salamone
Professore a c. di Diritto Penale dei Beni Culturali
Università della Tuscia di Viterbo
Lemme Avvocati associati
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