Giovanni Cardone Ottobre 2022
Fino al 26 Febbraio 2023 si potrà ammirare al Palazzo Reale di Milano la mostra Max Ernst a cura di Martina Mazzotta e Jürgen Pech. La prima retrospettiva in Italia dedicata a Max Ernst pittore, scultore, poeta e teorico dell’arte tedesco, poi naturalizzato americano e francese. La mostra, promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura e da Palazzo Reale con Electa, in collaborazione con Madeinart.  In esposizione oltre Quattrocento opere tra dipinti, sculture, disegni, collages, fotografie, gioielli e libri illustrati provenienti da musei, fondazioni e collezioni private, in Italia e all’estero, tra questi: la GAM di Torino, la Peggy Guggenheim Collection e il Museo di Ca’ Pesaro di Venezia, la Tate Gallery di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, il Museo Cantini di Marsiglia, i Musei Statali e la Fondazione Arp di Berlino, la Fondazione Beyeler di Basilea, il Museo Nazionale Thyssen-Bornemisza di Madrid. Il lungo lavoro di studio e d’indagine compiuto dai curatori ha permesso di includere tra i prestiti, che vantano la presenza di un’ottantina di dipinti, anche opere e documenti che non venivano esposti al pubblico da parecchi decenni. L’immensa vastità di temi e sperimentazioni dell’opera di Ernst si spalma su settant’anni di storia del XX secolo, tra Europa e Stati Uniti, sfuggendo costantemente a una qualsivoglia definizione. Pictor doctus, profondo conoscitore e visionario interprete della storia dell’arte, della filosofia, della scienza e dell’alchimia, Max Ernst viene presentato in questo contesto quale umanista in senso neorinascimentale. Se André Chastel affermava di rinvenire in Ernst una sorta di “reincarnazione di quegli autori renani di diavolerie tipo Bosch”, Marcel Duchamp vi aveva rintracciato “un inventario completo delle diverse epoche del Surrealismo”. Come afferma Giuseppe Sala Sindaco di Milano : “Milano ha l’onore di ospitare la prima retrospettiva su Max Ernst mai organizzata in Italia. La mostra, promossa e prodotta dal Comune di Milano con Electa, ripercorre tutta la carriera di questo genio multiforme, nato in Germania alla fine dell’Ottocento, e poi vissuto a lungo in Francia e negli Stati Uniti, dove si era rifugiato dopo esser stato internato dai nazisti. Max Ernst è stato uno degli artisti più innovativi del Novecento, secolo che ha contribuito a rivoluzionare guidando movimenti quali il dadaismo o il surrealismo. Attraverso le oltre quattrocento opere esposte a Palazzo Reale, provenienti da prestigiosi musei, fondazioni e collezioni private italiani ed esteri, i visitatori saranno coinvolti in un percorso carico di innovazioni artistiche così come di sguardi illuminanti sulle tragedie del Novecento, come la Prima, la Seconda guerra mondiale e il nazismo, vissute in prima persona da Ernst. La carrellata di innovazione e visionarietà offerta dalle opere di Max Ernst rappresenta un appuntamento imperdibile per chi ama l’arte, la storia e vuole comprendere la realtà attraverso il genio umano. Questa mostra dà ancora più lustro alla proposta di Palazzo Reale, e rende Milano e il suo sistema museale sempre più protagonista della cultura italiana.” In una mia ricerca storiografica sulla figura di Max Ernst apro il mio saggio dicendo : Max Ernst studiò filosofia a Bonn  e si formò alla pittura nell'ambito dei movimenti tedeschi d'avanguardia; nel 1913 partecipò alla esposizione del gruppo "Der Sturm", nel 1918 fondò a Colonia, con J. Th. Baargeld e H. Arp, un gruppo dadaista dal 1922, a Parigi, ebbe una parte rilevante nel movimento surrealista. Illustrò i poemi di P. Éluard, collaborò a Littérature, compì, con Breton, Crevel, Éluard, Picabia e altri, i primi esperimenti di "scrittura automatica". Oltre ai molti collages, ai frottages ai romanzi-collages  e alle sculture e agli objects trouvés, spesso pieni di allusioni ironiche, dipinse paesaggi fantastici e composizioni, un mondo di immagini che riflettono la sua ansia per la degenerazione della civiltà moderna, serie sul tema della Forêt, della Ville, del Jardin gobe-avions, dei Barbares marchant vers l'ouest, ecc.. Nel 1938-39 eseguì sculture e affreschi per la sua casa a Saint-Martin d'Ardèche  ad Avignone. Nel 1939 fu internato in campo di concentramento; raggiunse gli Stati Uniti nel 1941 e vi restò fino al 1949, mantenendo contatti con i surrealisti ivi rifugiati curò con M. Duchamp e A. Breton la rivista VVV, dipingendo opere come Europe after the rain II  dal 1940 al 1942, Wadsworth Atheneum, Hartford i seguito il  Napoleon in the wilderness del 1941,  Euclid  del 1945 e realizzando nella sua casa di Sedona di Arizona una delle sue sculture più significative il gruppo monumentale Capricorne del 1948 esemplare in bronzo. Stabilitosi di nuovo a Parigi, continuò a elaborare con sensibilità assai ricca verso la materia, composizioni in cui gli elementi intellettualistici del surrealismo si sciolgono in associazioni e dissociazioni dettate da un acuto sentimento poetico. Posso dire certezza che il surrealismo è un movimento letterario e artistico attivo per circa quaranta anni tra il 1919 e il 1960. Da Parigi si diffonde in tutta Europa fino alle Americhe e al Giappone. Il gusto surrealista per il poetico e il meraviglioso apre nell’arte del Novecento una importante alternativa al cubismo e all’astrattismo. André Breton scrive nel Manifeste du surréalisme  del1924 che l’idea centrale del movimento è liberare i poteri creativi dell’inconscio per “risolvere le condizioni contraddittorie di sogno e realtà in una realtà assoluta, una surrealtà”. Ecco dunque il tratto fondamentale, la speranza positiva di cogliere il punto sublime dove la realtà è magica e la magia è reale. Nella prima fase il movimento ha una forte componente letteraria. Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault , fondano la rivista “Littérature” nel 1919. Breton, studente di medicina, durante la guerra viene coinvolto nelle prime applicazioni della psicanalisi alla cura dei soldati con traumi postbellici. Appassionato lettore di Arthur Rimbaud, scrive poesie e riconosce in Paul Valéry un maestro e una guida. La rivista fondata dai tre è vicina all’avanguardia dada che, attorno al 1920 a Parigi è la novità del giorno. Tristan Tzara, figura centrale del dadaismo giunto a Parigi da Zurigo, anima performances, spettacoli e azioni dimostrative che Breton e i suoi amici seguono da vicino. Essi amano dei dadaisti la potenza dissacratoria verso la morale borghese e le manifestazioni multiformi (pièces teatrali, conferenze, versi, collage, provocazioni per le strade) ma non ne condividono la visione nichilista. I giovani di “Littérature” trovano nelle teorie di Sigmund Freud una strada per oltrepassare la provocazione dada. Breton scrive poesie come Champs Magnétiques  del 1920, Clair de terre  del 1923 o L’air de l’eau  del1934 dove spinge all’estremo il potere analogico della metafora per evocare un grado di realtà dove, d’improvviso, il meraviglioso entra nel quotidiano. Nadja  del 1928, la sua opera più riuscita, è un récit dove una flânerie, una passeggiata senza meta, con una donna alienata proietta il protagonista in un mondo immaginifico che si manifesta interamente solo ai folli. Il procedimento della scrittura automatica, basato su associazioni inconsce e casuali, funziona da reagente per la creatività dei surrealisti che partono da questo espediente per ricreare immagini e suoni altamente poetici. Inoltre in Nadja Breton introduce il tema della bellezza convulsa, un tipo di bellezza che scardina le percezioni, e con la sua forza conturbante conduce il soggetto all’amore folle. L’amour fou scritto nel 1937 è un collage di esperienze montate in ordine cronologico intessute di riflessioni e divagazioni sul tema dell’incontro, delle coincidenze, dell’amore unico come esperienza rivelatrice. Il motivo dell’amore domina anche la poesia di Paul Éluard che pubblica la raccolta Capitale de la douleur nel 1926, nel 1929 Amour la poésie, nel 1932 Vie immédiate. Dopo una strettissima adesione al gruppo Éluard se ne distaccherà nel 1935-1936 in occasione di divergenze politiche riguardo alla guerra civile spagnola. Dagli anni 1928-1929 il movimento surrealista conta numerosi artisti tra le sue fila. Max Ernst gode di tutta la stima di Breton che lo cita tra i pittori surrealisti già nel Manifeste du surréalisme del 1924. Tra il 1912 e il 1921 Ernst aveva aderito all’avanguardia dada di Colonia, influenzata dall’opera metafisica di Giorgio de Chirico. Realizza collages e soprattutto serie di objets trouvés, come Frutto di una lunga esperienza (1919, Ginevra, collezione privata) nel quale assembla manufatti d’uso quotidiano (utensili, fili metallici…) dissimulandone poi le funzioni per rivestirli di un nuovo significato artistico (objet trouvé aidé). Nei primi anni Venti arriva a Parigi e frequenta il gruppo surrealista. Ernst diventa l’interprete più ispirato di una tra le poetiche più provocatorie del surrealismo, le hasard, l’evento casuale che irrompe nella realtà quotidiana e fatalmente la trasforma. Inventa così tecniche pittoriche che partono da una coincidenza casuale come il raclage (“raschiatura”) e soprattutto dal 1925 il frottage (“strofinamento”). Ne Il bacio  del1927 Ernst applica quest’ultima tecnica e dipinge due esseri avvinti in un abbraccio, a partire dalla posizione fortuita assunta da una corda caduta sulla tela. L’individualità dei due personaggi è fusa in un gruppo unitario dai contorni fragili e ondulati dove toni intensi del cielo e della terra permeano le figure. Ernst esplora a più riprese il tema dell’amore erotico come in La vestizione della sposa (1939-1940, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim). Il soggetto, fantastico e sconcertante (un uomo uccello, una donna uccello e un essere con quattro seni), è dipinto seguendo schemi figurativi tradizionali come il pavimento a scacchiera tipico dell’arte tedesca del XVI secolo, la prospettiva e anatomie impeccabili. Le tinte sature e smaltate ricordano i dipinti di Gustave Moreau e le atmosfere irreali di Fernand Khnopff, entrambi amatissimi dai surrealisti. Nel dipinto compare un elemento ricorrente nell’arte di Ernst, l’uccello, una sorta di alter ego che ricorre come una firma dai collages giovanili, alla splendida serie delle città (La città pietrificata, La città immaginaria, La città intera, 1935-1937) fino al grande romanzo per immagini del 1934 Une semaine de bonté ou Les sept éléments capitaux. Roman (Parigi, Aux Éditions Jeanne Bucher). Ernst lavora sulle incisioni popolari di un modesto romanzo d’appendice Les damnés de Paris (1883) di Jules Mary, e inserisce frammenti ritagliati (come uomini uccello) che innescano un effetto straniante. Ernst stravolge il senso originario delle scenette incise e dà avvio a una moltitudine di libere associazioni, di investigazioni psicologiche, di paradossi. Penso che il tentativo di individuare i contorni di un tardo stile nell’opera di Max Ernst, una tra le più complesse e variegate del Novecento, costringe a confrontarsi con una serie di problematiche, alcune delle quali sono strettamente connaturate alle difficoltà che si manifestano nel cercare di inquadrare la stessa nozione generale di “tardo stile”. A partire dalla celebre massima di George-Louis Leclerc, comte de Buffon, “Le style, c’est l’homme même”, Ludwig Wittgenstein sottolinea in Culture and Value come questa espressione ci proponga lo stile come “un’immagine” (Bild) dell’uomo, ciò che effettivamente ci resta da osservare per cercare di comprendere l’artista, in un dato momento della sua parabola. In modo ancora più radicale, secondo Arthur Danto, “il legame tra lo stile e la personalità è talmente forte che potremmo invertire l’acuta massima di Buffon: l’homme, c’est le style même”, da cui consegue che “stile e artista sono tutt’uno” . Da una considerazione di questo tipo sembrerebbe conseguire che, prendendo in considerazione il tardo stile di un artista, esso non possa che avere una connotazione di tipo ordinale, identificando le opere realizzate da una certa età in poi insomma una fase creativa strettamente legata al processo di invecchiamento, non a caso definito da Gottfried Benn “un problema per artisti” (Altern als Problem für Künstler, 1954). Nel suo noto testo Spätstil Beethovens, Theodor W. Adorno sembra muovere da un assunto analogo nell’attribuire al pensiero della morte il dominio dello stile tardo di Beethoven, informando il “gesto impetuoso” con cui la soggettività abbandona l’opera d’arte come “un paesaggio in sfacelo” . Adorno è tuttavia consapevole che sull’associazione vecchiaia-stile tardo si può fondare un paradigma che rischia di essere troppo poco inclusivo, non comprendendo quegli artisti il cui stile tardo non si fonda precipuamente sulla senilità o sulla prossimità alla morte, ma su motivazioni spirituali per esempio Franz Liszt, il cui stile virtuosistico cede a una ricerca più intima, spinta fino alla dissonanza e all’assenza di impianto tonale dopo la svolta religiosa del 1865 o ideologiche potrebbe essere il caso di Kazimir Malevi?, la cui repentina svolta figurativa è attribuita da una parte della critica alla necessità di un ritorno alle forme di un realismo ideologico e propagandistico, su contaminazioni culturali Maurice Ravel, il cui stile impressionista si contamina di stilemi jazzistici dopo il suo soggiorno negli Stati Uniti, o Igor Stravinskij, il cui periodo dodecafonico ha inizio un ventennio prima della morte, anch’esso in seguito al trasferimento in America o ancora su un intreccio di circostanze storiche, politiche, personali e psicologiche, come sembra nel caso di Ernst. Particolarmente utili, ai fini della nostra riflessione, sembrano essere le considerazioni di Edward W. Said; muovendo dal testo di Adorno, egli propone un concetto di stile tardo che, trascendendo gli aspetti puramente formali, si presenta come espressione di una scelta etica oltre che estetica: come una sorta di “esilio autoimposto”, l’esito “inconciliato” e inconciliante di una visione intransigente indisponibile ai compromessi col proprio tempo . A partire da questa considerazione di Said si cercherà di analizzare l’evoluzione dell’opera di Ernst dall’ultima in ordine cronologico tra le svolte che ne hanno segnato la carriera artistica, situabile a metà degli anni Cinquanta, in corrispondenza di un importante punto di saldatura tra la sua vicenda personale e il succedersi degli eventi globali: dopo essere stato costretto a fuggire dall’Europa, come molti altri artisti e intellettuali, a causa della guerra, gli anni Cinquanta sono segnati dalla fine dell’esilio negli Stati Uniti, durato un decennio, e dalle difficoltà incontrate nel reinserirsi nella scena artistica europea, che non gli perdona l’allontanamento e sulla quale avanzano, con sempre maggior forza, nuove tendenze artistiche. Ernst rientra definitivamente in Europa cinque anni dopo il termine del conflitto, nel 1950, quando la maggior parte degli artisti europei in esilio, tra cui Breton, Masson, Arp, Matta, Péret, sono già tornati da tempo. Stabilitosi di nuovo in una Parigi che sta vivendo un intenso rilancio dell’attività artistica e letteraria, Ernst porta con sé il bagaglio di un decennio di ricerca segnata dallo sviluppo di tecniche già sperimentate in precedenza in particolare la decalcomania, il frottage, il grattage, il collage, cui si aggiunge il dripping. A titolo di esempio, in questi anni ha preso corpo, sulla tela di Ernst, lo stupefacente mondo in rovina di L’Europe après la pluie II (1940-1942)  e di L’œil du silence (1943/44) , inquietanti visioni di un mondo ridotto a una sterminata palude pietrificata (realizzata con la tecnica della decalcomania) in cui sopravvivono strani uomini-uccello, ibridi arborizzati e bizzarri animali. Il trauma della guerra, della prigionia e dell’esilio hanno poi materializzato immagini frammentate, spezzate, come in Jour et nuit (1941-1942) , in cui frammenti di visione diurna si sovrappongono, come a evocare la tecnica del collage, all’oscurità di una scena notturna. “Ciò che ho fatto dopo il 1939 è quasi sconosciuto qui”, scrive in una lettera a Julien Levy , augurandosi di riuscire a dare di nuovo visibilità al suo lavoro. Nel gennaio 1950 inaugura alla libreria-galleria La Hune una prima mostra dedicata all’opera grafica, caldeggiata da André Breton e ricca di lavori realizzati tra gli anni Venti e Trenta, cui segue a marzo l’occasione di una grande mostra dedicata alla recente opera pittorica, nella prestigiosa Galerie René Drouin di Place Vendôme: “Avrò una grande esposizione in marzo 1950 alla Galerie Drouin (finalmente!). Il momento è propizio qui, la stampa non mi è mai stata più favorevole (grande differenza con il pubblico newyorkese)”, scrive ancora, entusiasta, a Julien Levy, che per l’occasione invia dagli Stati Uniti alcune delle recenti tele in suo possesso. Tra le sessantaquattro opere in mostra, accanto alle tele appartenenti al periodo americano, spicca la presenza di alcuni lavori concepiti dopo il rientro in Europa, tra cui il celebre Printemps à Paris  del 1950  realizzato sviluppando una maniera di dipingere già messa in pratica durante gli anni dell’esilio ovvero stesura di colori forti e luminosi su cui Ernst interviene con la famosa tecnica del grattage sulla quale sviluppa una costruzione geometrizzata del quadro fondata e sull’accostamento di forme plastiche e bidimensionali. La presenza delle due opere più indicative degli ultimi anni, L’Europe après la pluie II, realizzato all’inizio dell’esilio americano, e Printemps à Paris, che ne segna la fine, rappresenta secondo Julia Drost “l’emblema del cambiamento allora in corso nell’opera di Ernst e mostra un artista che, negli anni dell’esilio, ha avuto accesso a una nuova identità” . Le reazioni di stampa e critica, seppur non particolarmente numerose, sono per lo più entusiaste: André Chastel definisce Ernst “uno dei più notevoli rappresentanti del surrealismo”, Michel Tapié celebra “le stupefacenti invenzioni dell’epoca eroica, che ci rivelano con una vena inesauribile la fauna e la flora  di un mondo del quale, fino ad allora, avevamo a stento osato sognare” , Pierre Descargues si spinge a scrivere che “Parigi aveva bisogno di Max Ernst, e questa esposizione giunge a ricordare la ricchezza del mondo degli occhi chiusi a coloro che tenderebbero a dimenticarlo, per paura di se stessi”. Nell’entusiastica prefazione al catalogo della mostra, infine, Joë Bousquet magnifica le “realtà eruttive” sprigionate dall’immaginazione dell’amico . L’accoglienza positiva della mostra da parte della critica, tuttavia non risulta sufficiente per attirare un pubblico nutrito alla Galerie Drouin: soltanto uno dei quadri in mostra finisce venduto, a un collezionista di Zurigo. I lavori di Ernst destano inoltre perplessità anche nella nuova generazione di artisti parigini, che pur riconoscendo il valore fondativo dell’opera del maestro tedesco tendono a rivolgere altrove il proprio interesse: “Siamo andati nell’elegante Galerie Drouin in Place Vendôme” ricorda il pittore Karl Otto Götz “dove erano appesi i quadri di Max Ernst . Ma non siamo entrati per questo. Abbiamo voluto  vedere  altri quadri” La scena artistica del dopoguerra vede infatti rivitalizzarsi la diatriba tra arte figurativa e arte astratta in particolare l’arte “informale”, termine coniato da Michel Tapié in occasione di una mostra di Camille Bryen nel 1951, che fin dagli anni Quaranta preoccupava Breton al punto da spingerlo a scrivere a Ernst, nel 1947: “L’astrattismo è estremamente minaccioso da ogni parte: ci sono passati quasi tutti i vecchi surrealisti scandinavi, tra gli altri”. Già dieci anni prima, in seguito alla pubblicazione del celebre testo La querelle du réalisme di Jean Cassou, Ernst aveva voluto dal canto suo difendere l’arte surrealista, figurativa, sostenendo la capacità delle immagini psiche che, interiori, di formulare verità collettive: a partire da questi anni, segnati dal sopravanzare di nuove tendenze artistiche e dall’apparente perdita di vitalità delle avanguardie storiche, la ricerca artistica di Ernst sembra trovare nuova linfa sul terreno di confronto con l’astrazione, attivando un nuovo processo di contaminazione e contrapposizione che si rivelerà estremamente fecondo. Negli Stati Uniti assistite al successo dell’espressionismo astratto, movimento che ha ricevuto una spinta propulsiva, paradossalmente, proprio dal contatto con gli artisti europei in esilio: il collezionista e gallerista Sidney Janis, nel suo Abstract and Surrealist art in America  racconta delle frequenti visite che Ernst riceveva nel suo atelier newyorkese da parte di giovani artisti desiderosi di apprendere la sua nuova tecnica pittorica, il dripping, ottenuto attraverso l’oscillazione del pennello o di un contenitore di vernice forato al di sopra della tela. Tra loro c’erano Mark Tobey, Mark Rothko, Franz Kline, Jackson Pollock. Occorre, certo, puntualizzare che non sembra sussistere una forte parentela tra il dripping utilizzato da Ernst e la tecnica sviluppata in seguito da Pollock, se non in termini di influenza dell’artista tedesco sulla generazione del giovane collega americano come nota Gérard Duruzoi, Pollock “elabora la sua tecnica del dripping sotto l’influenza dei pittori surrealisti ma è chiaro che le sue tele  non hanno più molto a che fare con il surrealismo. Più che una dettatura del pensiero è in effetti una dettatura del corpo, o del braccio, che determina le ripartizioni dei colori, i movimenti, l’ampiezza degli schizzi etc.” . Lo stesso Ernst, d’altra parte, definisce il dripping “nient’altro che un altro modo per giungere più velocemente a quelle macchie di colore nelle quali, come rimarcava Leonardo da Vinci, un pittore scopre dei temi per i suoi quadri e può, ricorrendo al caso, provocare l’ispirazione” , sulla falsariga di quanto dichiarato a proposito della decalcomania: “l’operazione che può sembrare la più casuale, la mano è guidata da non si sa quale intuizione verso una forma somigliante, ma non somigliante a qualcosa, bensì alle forme che mi infestano e che io infesto” . La stella polare dello sperimentalismo ernstiano rimane dunque l’automatismo, tanto caro ai surrealisti: in Le Surréalisme et la peinture del 1942 una delle opere più note di questo periodo Ernst rappresenta uno strano essere ibrido, un metamorfico uccello policefalo, che dipinge una tela dando una dimostrazione della tecnica dell’oscillazione. L’accostamento dell’essere-uccello tema classico dell’opera di Ernst alla tecnica del dripping, unito all’evidente riferimento del titolo all’omonimo scritto programmatico di Breton del 1925 nel quale si tracciavano le linee fondamentali di una pittura del caso oggettivo, sembrano configurare quest’opera quasi come una sorta di nuovo manifesto, un tentativo di rilanciare la pittura surrealista in opposizione alle nuove tendenze che vanno occupando gli avamposti dell’arte americana ed europea.
La proposta idealmente lanciata, tuttavia, trova scarso credito presso il gruppo surrealista e il suo leader Breton, il quale, preoccupato per la tenuta del movimento di fronte alla forza d’urto dell’arte astratta, si rassegna presto a una posizione di compromesso, attuando una strategia inclusiva: “Sotto il concetto sufficientemente largo di nouveau mythe, Breton riuniva allora abilmente, e anche con una certa leggerezza, delle opere di Kandinskij, Paul Klee e Mondrian; difenderà poi più tardi provocando la collera di Max Ernst l’arte dei tachistes, di artisti come Degottex”. Il raffreddamento dei rapporti tra Ernst e il gruppo surrealista culmina in rottura in occasione della XXVII Biennale di Venezia del 1954, che vede assegnato il Primo Premio per la pittura, inaspettatamente, proprio a Ernst. Incalzato dalle pressioni di alcuni nuovi membri del movimento, Breton scrive un comunicato nel quale sancisce l’allontanamento dell’artista tedesco, che “si è posto da solo al di fuori del surrealismo” per aver “negato in modo flagrante il non-conformismo e lo spirito rivoluzionario di cui si era, fino ad allora, fregiato”. Accusato insomma di aver ceduto a compromessi per ottenere un facile successo, Ernst si ritrova dunque escluso dal movimento di cui era stato assoluto protagonista, e che tanto era debitore alla sua forza visionaria. L’espulsione dal gruppo segna un momento cruciale nella vita personale e artistica di Ernst, e rappresenta per noi l’evento decisivo in relazione alla nostra riflessione sullo sviluppo del suo stile tardo l’amico Sarane Alexandrian, nel ricordare le circostanze dell’esclusione, sembra confermare il ruolo di spartiacque dell’episodio definito non senza una punta di amarezza “tragicomico”, che “ha influito sul resto della sua evoluzione, per i successivi ventidue anni” rappresentando “una ferita che non cicatrizzò mai completamente” . Amareggiato dalla sua espulsione, che percepisce come un’ingiustizia dovuta alle invidie dei nuovi membri del gruppo alcuni tra i detestati tachistes Ernst decide di lasciare Parigi scegliendo la strada dell’allontanamento volontario da quell’ambiente nel quale dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, non era mai davvero riuscito a ritrovare una collocazione: con il denaro del Primo Premio veneziano acquista un vecchio casolare (poi battezzato “Le Pin perdu”) nel cuore della regione della Touraine (l’attuale Indre et Loire), a Huismes, poco distante da Amboise, il luogo dove Leonardo trascorse i suoi ultimi anni di vita. Il ritiro nella tranquillità della valle della Loira rappresenta l’occasione per “un ripiegamento sul proprio lavoro. Lontano dall’attualità artistica della capitale  che segue con scetticismo l’artista lavora alla sua opera tarda, singolare e indipendente dalla scena artistica dell’epoca. Il ritiro degli artisti astratti nella ‘libertà’ resta per lui incomprensibile”. Se, da un lato, nell’auto-esilio Ernst ritrova una dimensione creativa nuovamente libera e feconda, lontana dai contrasti della capitale, dall’altro non sembra sopirsi il confronto a distanza con l’arte astratta, che rappresenterà il punto di partenza per l’elaborazione dello stile di questi anni: incalzato da Édouard Roditi, nel corso di una nota intervista, Ernst rimarca con forza la sua posizione. La frase conclusiva riprende in parte il titolo di una delle opere più significative degli anni Sessanta, Le Monde des flous – refus absolu de vivre comme un tachiste del 1965  l’opera si compone di piccole macchie di colore che a uno sguardo più attento si rivelano essere piccoli segni geroglifici accostate tra loro con una tecnica vicina al divisionismo dell’amato Seurat, all’interno di sezioni geometriche. Applicati sulla tela, mediante la tecnica del collage tuttavia più in analogia ai primi papiers collés cubisti che ai raffinati montaggi ernstiani degli anni Venti-Trenta, si notano una piccola griglia di legno circolare, a rappresentare il Sole, una foglia di felce e due harpes éoliennes, oggetti composti da legnetti fissati parallelamente che ricordano contemporaneamente uno strumento musicale suonato dal vento e una gabbietta per uccelli. L’obiettivo di quest’opera, come suggerisce umoristicamente il titolo, è dimostrare la possibilità di “disporre delle macchie colorate in modo da creare un universo organizzato”  al di là dell’evidente intento polemico espresso dal titolo, Ernst inaugura qui una pittura che assume una funzione creativa assoluta, potremmo dire cosmopoietica. Generare l’universo intorno a sé, trasformando l’autoesilio dalla capitale in un autoesilio dal mondo, che l’artista sostituisce con uno di propria creazione, analogamente a quanto fa l’uccello giardiniere di cui Ernst ama raccontare le tecniche di corteggiamento.
Il giardino, metonimia del mondo, rappresenta lo spazio all’interno del quale poter affermare la propria soggettività; impossibile non pensare al celeberrimo Les Jardins de la France del 1962 , omaggio di Ernst alla terra che lo ha accolto, in cui l’Indra e la Loira profondono liquide carezze al corpo femminile tratto da La Naissance de Venus (1863) di Alexandre Cabanel che abita il lembo di terra tra i due fiumi. Sembra qui trovare compimento per Ernst, anche se in modo del tutto peculiare e certamente lontano dalla concezione sviluppata da Said, quell’ “esilio autoimposto”, “esito inconciliato” di un confronto con il proprio tempo che non può tradursi in compromesso. Ernst sceglie di ritirarsi nella sua pittura, in uno spazio mentale, in un universo che costruisce per se stesso infinitamente grande o infinitamente piccolo, come testimonia l’alternarsi di opere di ispirazione cosmologica e microbica: ne sono un perfetto esempio Naissance d’une galaxie (1969)  e Rien ne va plus (1973) , in cui corpi celesti e cellule ingrandite a dismisura, macrocosmo e microcosmo, si confondono in un’unica visione. Queste ultime opere vengono realizzate utilizzando una modalità inedita per la pittura di Ernst, e che la avvicina alla pratica incisoria: l’artista lavora la tela non in verticale, sul cavalletto, ma in orizzontale, su una sorta di telaio costruito appositamente, permettendo così un preciso intervento sui materiali di base, applicati sulla tela, attraverso la tecnica del grattage. La lavorazione in orizzontale permette di condurre una doppia operazione: da un lato lo stravolgimento delle strutture preesistenti attraverso l’asportazione del materiale dall’altro il passaggio da una visione orizzontale, terrena, a un’elevazione verticale, celeste , una volta terminato il quadro e collocato a parete. In Le Monde des naïfs del 1965 la visione cosmica, ottenuta attraverso il consueto incrocio di tecniche (grattage e frottage, nello specifico), è frazionata in una serie di piani disuguali tra loro, all’interno dei quali Ernst inserisce dei frammenti testuali, composti da segni grafici appartenenti a una sorta di alfabeto geroglifico di sua invenzione: questi segni rimandano da un lato allo stile compositivo curvilineo dei soggetti di alcune tra le ultime opere, come Au moindre bruit 1972 , dall’altro a composizioni che sembrano stressare all’estremo il confine con l’astrattismo come L’air lavé à l’eau (1969), in cui il segno si densifica al punto da generare quasi campiture cromatiche omogenee, nella direzione di uno stile che sembra poter ricordare certe opere di Rothko, o di Klein. A partire dalla inaugurale missione umana nello spazio, condotta da Yuri Gagarin nel 1961, Ernst tematizza con sempre maggiore frequenza, nelle sue opere, l’interesse per l’astronomia: nel 1963, rielaborando un suo collage del 1931, realizza La Terre vue de Maximiliana , un insieme di ipotetiche vedute della Terra da diversi pianeti, tra cui quello che diverrà l’oggetto del suo ultimo capolavoro, il pianeta Maximiliana. Oggetto delle ricerche congiunte di Ernst e del poeta-editore georgiano Ilia Zdanevitch (detto Iliazd), il pianeta Maximiliana è un corpo celeste (il pianeta 65) scoperto l’8 marzo 1861 dall’astronomo tedesco dilettante Ernst Wilhelm Leberecht Tempel, che così lo battezzò in onore del Kaiser Massimiliano II di Baviera. Le coincidenze onomastiche (Maximiliana, Ernst) sono troppo evidenti per non stimolare la curiosità di Ernst, che ritrova poi nella biografia di Tempel un parallelismo stretto con il proprio vissuto: nato in Germania (allora Prussia), l’astronomo dilettante si era visto costretto a emigrare in cerca di lavoro, prima a Venezia poi in Francia, a Marsiglia, da dove fu costretto a fuggire a causa della guerra franco-prussiana del 1870. Rifugiatosi a Firenze, riuscì a ottenere un posto di lavoro all’osservatorio di Arcetri, dove osservando il cielo a occhio nudo scoprì, oltre a Maximiliana, la nebulosa della costellazione delle Pleiadi, utilizzando la litografia per fissare le sue osservazioni. Tuttavia le sue scoperte non vennero mai prese sul serio, anzi gli valsero derisione e sberleffi perché nessuno credette che un astronomo dilettante, privo di formazione scientifica, potesse addivenire a scoperte tanto importanti a occhio nudo senza la preparazione di un astronomo competente. Il pianeta Maximiliana così venne scoperto solo una sessantina di anni più tardi prendendo il nome di Cibele. La vicenda non fortunata di Tempel che colpisce Ernst che si rispecchia dell’incomprensione che ne aveva segnato in parte la sua vita .
A Tempel, rivoluzionario a suo modo della visione, Ernst dedica così, in collaborazione con Iliazd, il libro d’artista Maximiliana ou l’exercice illégal de l’astronomie del 1964, che non esita a definire il suo capolavoro ciononostante, è singolare constatare che quest’opera è pressoché sconosciuta fuori dall’ambito specialistico in esso accanto alle invenzioni tipografiche di Iliazd confluiscono i frutti della ricerca artistica degli ultimi anni, dalla pittura cosmologica all’utilizzo della scrittura geroglifica organizzata in colonne verticali che sembrano richiamare la scrittura cinese è interessante il confronto tra i segni grafici prodotti qui da Ernst e alcuni inchiostri di Henri Michaux, che circa un decennio dopo, nel suo Idéogrammes en Chine, reinterpreterà la corsività ideogrammatica in chiave astratta, e i singoli segni come tratti autonomi che non rinviano che a se stessi, prodotti da un’energia individuale che si scarica nel gesto. Negli ampi spazi dedicati alle incisioni si muovono strani esseri marini e aerei, la stilizzata fauna del pianeta Maximiliana, mentre la disposizione dei segni tipografici “mette in scena delle costellazioni, agglomerati di lettere e di parole, polvere d’astri che si dispiega come un firmamento stellato, di cui ci resta da scoprire la misteriosa organizzazione. Là dove giocano i chiaroscuri, ci si sente a metà strada tra le tenebre e la luce, tra microcosmo e macrocosmo”. Maximiliana può senza dubbio rappresentare efficacemente la sintesi dell’ultima fase dell’opera di Ernst, che tuttavia continuerà a dipingere fino al termine della sua vita, nel 1976, con la stessa passione di sempre. Al piano nobile di Palazzo Reale i visitatori potranno immergersi in un avvincente itinerario che ripercorre l’avventurosa parabola creativa dell’artista, segnata dai grandi avvenimenti storici del XX secolo e costellata di amori straordinari, nonché di amicizie illustri. Il percorso narra le vicende biografiche di Ernst raggruppandole in quattro grandi periodi, a loro volta suddivisi in nove sale tematiche che dischiudono approcci interdisciplinari alla sua arte. Un’ampia, ideale biblioteca, quella dell’artista, fatta di libri illustrati, manuali per lo studio, fotografie, oggetti e documenti, si snoda attraverso tutto il percorso della mostra, invitando i visitatori ad attivarsi in giochi di rimandi e corrispondenze tra le fonti d’ispirazione e le opere stesse. All’ingresso delle sale espositive il pubblico viene subito invitato a cimentarsi con un capolavoro che compie quest’anno un secolo, Oedipus Rex (1922). Le prime due sale, intitolate 1. La rivoluzione copernicana 2. All’interno della visione, la prima parte della biografia di Ernst, Germania: 1891-1921. Vi si narrano gli anni dell’infanzia e della formazione in Germania, fonti di memoria e ispirazione per tutta la vita dell’artista; la Grande Guerra, combattuta in prima persona ed equiparata a un periodo di morte; la risurrezione, il ritorno alla vita, il matrimonio e la nascita del figlio Jimmy, l’avvento rivoluzionario di Dada e l’invenzione del collage, la prima mostra in Francia e il proto-surrealismo. La seconda parte della biografia - Francia, 1922-1940 - accompagna le due sale successive. Nella numero 3. La casa di Eaubonne, ripropone una ricostruzione, integrata con frammenti originali, della casa affrescata in cui Ernst visse il ménage a trois con Gala e Paul Éluard. Il ruolo centrale dell’amore, dell’amicizia e dell’erotismo nelle sue scelte e nella sua poetica diventa poi protagonista della sala 4. Eros e metamorfosi. Tra le opere presenti nelle prime 4 sale: Crocifisso (1914), Fiat Modes Pereat Ars (1919), I Cormorani (1920), Les Malheurs des Immortels (1922, nell’unica edizione acquarellata), i frammenti della casa di Eaubonne (1923), Il bacio (1927), Gli uomini non ne sapranno nulla (1927). La mostra prosegue raccontando gli anni trascorsi da Ernst a Parigi e in Francia, l’affermarsi del Surrealismo, il secondo matrimonio con Marie-Berte e poi l’amore con Leonora Carrington, le amicizie profonde, gli scambi e le collaborazioni con tanti protagonisti delle avanguardie, i viaggi e le sperimentazioni, l’avvento della Seconda Guerra, la prigionia da “artista degenerato” ricercato dai nazisti. L’esilio negli Stati Uniti, organizzato grazie al supporto del figlio Jimmy e soprattutto di Peggy Guggenheim, che l’artista sposerà per un breve periodo, introduce alla parte della biografia America, 1941-1952. L’inserimento nella scena internazionale di New York, il grande amore e poi il matrimonio con Dorothea Tanning, il trasferimento a Sedona, in Arizona, nella casa costruita e decorata dagli artisti, introducono alle successive sale: 5. I quattro elementi (foreste/terra, uccelli/aria, mare/acqua, orde/fuoco), 6. Natura e visione, 7. Il piacere di creare forme (Gestaltungslust) - il piacere dell’occhio (Augenlust). Qui emerge in particolare il ruolo che la natura e il paesaggio ricoprono nell’invenzione di tecniche (frottage, grattage, decalcomania e dripping), nella creazione di filoni del fantastico e del meraviglioso che investono anche la scultura e l’oreficeria, riflettendo una costante tensione dialettica tra parola e immagine, tra spirito e materia. Tra le opere presenti in queste sezioni, si segnalano Histoire Naturelle (1925), Monumento agli uccelli (1927), La foresta (1927-28), Uccello-testa (1934-35), Un orecchio prestato (1935), La città intera (1936-37), Un tessuto di menzogne (1959), La festa a Seillans (1964). Il ritorno in Europa, 1953-1976, prosegue con la sala numero 8.Intitolata Memoria e Meraviglia, che raccoglie opere dei diversi decenni e illustra come la storia della cultura, il ritorno dell’antico diventino fonti d’ispirazione e oggetto dell’arte meravigliosa di Ernst: un’arte che intrattiene con il passato e la memoria un rapporto intimo e consapevole. Tra le opere presentate: Pietà o La rivoluzione la notte (1923), L’antipapa (ca.1941), L’angelo del focolare (1937), Sogno e rivoluzione (1945-’46), Progetto per un monumento a Leonardo da Vinci (1957), Tra le strade di Atene (1960), Hölderlin, Poemi (1961), Il Romanticismo (1964), Ritratto di un antenato (1974). Un gran finale, con lo sguardo rivolto alle stelle, è rappresentato dalla sala 9. Intitolata Cosmo e crittografie. Negli anni che precedono lo sbarco dell’uomo sulla Luna, arte e scienza dialogano nelle opere di Ernst. Negli anni che precedono lo sbarco dell’uomo sulla Luna, arte e scienza dialogano nelle opere di Ernst dischiudendo sguardi inediti sul cosmo e coinvolgendo l’astronomia come l’antropologia, la fisica come la patafisica. Opere, libri e cinema introducono alle straordinarie scritture segrete dell’artista, a quelle crittografie che si spingono oltre ai linguaggi codificati e si rivolgono a coloro che sono capaci di svelare i misteri del cosmo. Tra le opere esposte: Il mondo dei naives (1965), Il mondo dei confusi. Rifiuto assoluto di vivere come un tachiste (1965), Maximiliana o l’esercizio illegale dell’astronomia (1964). Come in una grande Wunderkammer, e in analogia con l’universo di Max Ernst, la mostra e il volume che l’accompagna sfidano i visitatori a cimentarsi in affascinanti e intriganti giochi di percezione tra stupore e meraviglia, ove logica e armonia formale si accompagnano a enigmi impenetrabili, ove opere, tecniche e costellazioni di simboli conducono oltre la pittura. La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito da Electa.
Palazzo Reale di Milano
Max Ernst
dal 4 Ottobre 2022 al 26 Febbraio 2023
Dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Chiuso il Lunedì
Per tutte le foto dell’ Allestimento Mostra Max Ernst credit ©  Lorenzo Palmieri