La “Trasfigurazione” di Raffaello è l’opera nella quale, più che in qualsiasi altra, aleggia lo spirito dell’artista, vuoi per la tristissima circostanza della dipartita che lo sorprende mentre ancora vi lavora e, forse a maggior ragione, perché il dipinto riassume, in un’ampissima e significativa sintesi, le doti eccelse del “pennello divino”. Benché completata, ”nel piano terra”, da Giulio Romano, la tavola esprime, al massimo grado, l’eccellenza del Sanzio nella pittura rinascimentale, capace di superare, in raffinata eleganza, l’aristocratica e a volte enigmatica pittura di Leonardo e, nella superba maestria figurativa, quella di Michelangelo.
 
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       «Fra gli elogj che si fecero a questa pittura che furono senza fine e universalmente grandissimi, ci pare che non sia da trascurarsi quello di Orazio di Domenico Alfani , celebre pittore perugino, il quale giunto in Roma poco dopo la morte del Sanzio, e portatosi ad ammirare la Trasfigurazione , proruppe in caldissime lagrime di maraviglia, ed a gran fatica lasciossi togliere dalla presenza del quadro!» (Quatremere de Quincy, “Istoria della vita e delle opere di Raffaello Sanzio da Urbino”, Milano, Sonzogno, 1829). 
 
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 Al primo impatto visivo, davanti a questa tavola di notevoli dimensioni (4,10 x 2,79 m) sei catturato dal fulgore che esplode in alto nel cielo, a cui segue la messa a fuoco dell’immagine del Cristo che levita con a lato i due profeti Mosè, che imbraccia le Tavole, ed Elia con il librone delle sue divinazioni. E non puoi fare a meno di rilevare che un vento, piuttosto impetuoso, fa vela coi mantelli dei tre personaggi. Il vento deve essersi levato dopo che una voce,  portentosamente udi-ta dalla nube,  aveva proferito. «Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho posto la mia compiacenza: ascoltatelo!».
La vista sosta sul pianoro del monte Tabor, ove, secondo l’evangelista Matteo, gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni  appaiono atterriti dall’evento, sopraffatti dal bagliore che proviene dal loro Maestro.  
La luce, d’altra parte, maestra di volumetrie, qui è protagonista e, anche se  distesa nelle predominanti tinte fredde dell’azzurro va via via illuminandosi fino a raggiungere l’apice del suo splendore al centro, ove la maestà di Cristo  è, però, splendente di suo.
Un particolare non può essere taciuto. È l’incantevole rosato del tramonto che occhieggia, barlume di speranza, alla destra della tavola, al livello della cima del Tabor.
 
Al piano più basso un concitato agitarsi di gesti, suppliche e grida circoscrivono una schiera di persone e soprattutto colpisce la vista di un ragazzotto, le braccia spalancate, gli occhi sbiechi, sorretto verosimilmente dal padre: è il giovane ossesso, posseduto dal demonio, destinato ad essere guarito dal Cristo una volta disceso dal monte. La scena è tutta in fieri. La schiera è suddivisa in due raggruppamenti: a sinistra i nove apostoli, che, alle implorazioni di soccorso supplicate a gran voce dai familiari del ragazzo, oppongono, privi del Maestro, la loro inanità per qualsiasi salvifico intervento. Al centro dei due schieramenti e, tra loro posta a mo’ di collegamento visuale, inginocchiata e implorante come forse solo una madre sa fare, sta una donna: appare sontuosamente abbigliata e soverchiamente illuminata per creare – la supposizione è lecita – un pendant  col chiarore del piano più alto. Le fattezze del volto la dicono subito lunga. E così, in quella turba inquieta di echi sovrapposti, l’occhio incredulo dell’osservatore intravvede, per un attimo, in questa donna le sembianze della Fornarina, l’amata del Sanzio. Ma è solo una volatile istantanea subito sommersa dall’incalzare delle altre  montanti suggestioni del dipinto.
La composizione della tavola, a ben scrutare, si sviluppa - come s’è cercato di dire - su ben tre piani visivi: il più alto si squaderna in verticale rispetto a chi osserva e quella che, dapprima, tradisce un che di teatrale, si ricompone in una visione di riconciliata e assoluta visione mistica:  Cristo, in posizione ravvicinata rispetto a chi guarda, e i due profeti che lo incalzano in volo sospeso, sono compresi nella struttura di una visione piramidale, che, nella sua estatica sublimità, non teme eguali nell’arte pittorica. La perfezione delle forme qui appare totale, impreziosita, tra l’altro, dal fluttuare delle vesti agitate dal vento. La soffusa luminosità che sbalza le figure in controluce e che, per questo, dovrebbero apparire abbuiate, da ciò sono invece affrancate da un altro e contrapposto riverbero.
Le due figure, al margine sinistro del dipinto, che siano i santi Felicissimo e Agabito ovvero i santi Giusto e Pastore – questi ultimi protettori di Narbone, alla cui cattedrale il cardinale Giulio de’ Medici aveva in origine destinato il lavoro di Raffaello – in questo contesto non hanno alcuna attinenza col contenuto dell’opera, rappresentando solo un significato liturgico per la mera circostanza della ricorrenza celebrativa dei santi il 6 agosto, la stessa data della solennità della Trasfigurazione.
Il piano mezzano, che ospita lo sbigottito atterramento degli tre apostoli più vicini a Gesù, è da vedersi nella superficie piana fortemente scorciata rispetto al punto di vista dell’osservatore. Esso funge da intermezzo, parentesi non solo simbolica tra la trascendente immagine celeste e il sottostante quadro delle tristezze che opprimono l’umanità.  Gli studiosi più attenti, inclini a scorgere significati anche nei particolari più minuti hanno altresì visto nelle vesti dei tre apostoli i colori della fede, della speranza e dell’amore.
Il “piano terra”, infine, contrassegnato da un forte dinamismo, si sviluppa prospetticamente ad un livello più basso rispetto al punto di vista di chi guarda. In pratica, i tre piani, così strutturalmente costruiti e rappresentati, realizzano una gradazione frontale di tutto rispetto. Il che, tra l’altro, salvaguarda, evidenziandole, l’unità e l’armonia dell’opera. E, per Raffaello, dovendo affrontare due scenari - l’uno in moto nel cielo con tutte le sue sacre valenze, e l’altro, all’opposto, sulla terra, drammaticamente ricolmo d’angosce -  non è stata impresa di poco conto. Aveva inoltre l’urbinate l’assillo dei “tiri” di Michelangelo, che, per quanto narrano le cronache, offriva, a danno e dispregio dell’antagonista, le sue mentite “assistenze” a Sebastiano del Piombo, alle prese con  la “Resurrezione di Lazzaro”, del pari destinata alla cattedrale di Narbone.
Alla “Trasfigurazione”, accanto a lodi infinite e universali, non sono state lesinate critiche. Una per tutte:
 
 «Il contrasto di due episodi d’origine opposta nello stesso quadro urta ed è forzato. Nella parte inferiore il colorito prende più vigore, ma si fa duro, le figure hanno atteggiamenti teatrali e pensano allo spettatore, il sentimento e la naturalezza cedono allo studio di far impressione e produrre effetto; qui Raffaello può sfidare i maestri che verranno dopo di lui e mostra tutto il suo sapere, ma non più il suo genio» ( Francesco Wey,  “I musei del Vaticano”,  Fratelli Treves  ed., Milano, 1874).
Lontani, come si è, dall’affrontare una simile diatriba, si lascia volentieri a latere questa questione. A chi scrive, come si usa dire e sperando nella benevolenza del lettore, basta così, lasciando agli eruditi il compito di analisi le più estese e approfondite. Non si vuole pensare, infatti, di contestare la benché minima e sola nota “dissonante” a chi, fino all’appagamento, ha colmato di delizie visive,  lo sguardo, il sentimento e l’animo dell’osservatore d’ogni tempo.
Aprile 2021 Luigi Musacchio
 
Fig. 1. La Trasfigurazione è un dipinto a tempera grassa su tavola (410x279 cm) di Raffaello, databile al 1518-1520 e conservato nella Pinacoteca vaticana.
Fig. 2. Particolare fig.1