di
Massimo FRANCUCCI
La serie di terremoti che ha colpito di recente
Amatrice e
Norcia con pesanti perdite in termini di vite umane, di infrastrutture e di ricchezze storico artistiche, ha evidenziato, privandoci di una parte di esse, l’importante ruolo, unico per centralità e varietà, svolto da questo territorio di confine, punto d’incontro di culture diverse. Le
Marche si prestano in effetti molto bene a interpretare un ruolo paradigmatico quale crocevia di un incessante movimento di idee e flusso di culture, avendo dato i natali ad alcuni tra i maggiori talenti di ogni tempo –
Raffaello e
Maratta sono i nomi più immediati – lasciando che divenissero celebri altrove, ma accogliendo altresì artisti così come opere d’arte delle più diverse scuole. Acclarata l’importanza della dorsale adriatica per questa frontiera dello
Stato pontificio, alquanto refrattaria invece ai possibili stimoli provenienti dal
regno di Napoli, come certifica il fatto che vi soggiornarono a lungo i veneziani
Carlo Crivelli e
Lorenzo Lotto qui giunti alla ricerca di un’affermazione lavorativa e sociale mancata altrove (per
Lotto rimasta un miraggio, almeno in vita) come pure la presenza di almeno un capolavoro, peraltro piuttosto giovanile, realizzato da
Tiziano per i
Gozzi di Ancona.
Ancora di là da venire, ma allo stesso modo auspicabile, è la ricostruzione complessiva delle testimonianze emiliane e bolognesi in particolare, che rivelerebbero una presenza ben più capillare di quanto comunemente ritenuto; mentre solo di recente si è finalmente dato conto degli scambi culturali intervenuti con la
Toscana[1].
Arezzo e il suo territorio sono d’altra parte confinanti con le
Marche e dunque più prossimi a
Urbino che alla stessa
Firenze e sono innumerevoli gli scambi intercorsi con quella terra, ma anche dal resto della
Toscana si contano presenze importanti come quella del fiorentino
Andrea Boscoli, del pisano
Gentileschi e del senese
Francesco Vanni: non casualmente almeno una delle loro opere si può rintracciare a
Fabriano, vero centro nevralgico di questi territori. Vi si possono inoltre ammirare ancora oggi, limitandosi al secolo barocco, lavori di
Salvator Rosa, Andrea Sacchi, Giacinto Brandi, del
Guercino e di
Giuseppe Puglia che, intorno al 1627, ha lasciato il capolavoro della sua breve esistenza nella
cappella del Suffragio della
cattedrale di San Venanzo.
Francesco Vanni apparteneva alla generazione più anziana dei pittori ora nominati, essendo nato a Siena nel 1563 e morto, ancor giovane, nel 1610 e con l’essere firmato e datato 1607 il
Cristo adorato da San Silvestro Guzzolini e una santa che decora la cappella di patronato della
‘Confraternita della lana’ nella
chiesa di San Benedetto a
Fabriano (fig. 1) appartiene all’ultima fase della sua carriera artistica. È facile credere che anche in questo caso, come altre volte successo a
Fabriano, ad esempio con la commissione del dipinto di
Orazio Gentileschi per l
’oratorio di Santa Maria Maddalena, il nome del pittore fosse stato suggerito da
Roma, dove nello stesso anno
Vanni si era impegnato a dipingere due quadri, non ancora identificati, per le benedettine di
Santa Cecilia[2], che riecheggiavano l’apprezzamento per il pittore del
cardinale Paolo Emilio Sfondrato, titolare di quella chiesa, primo estimatore romano di
Guido Reni a sua volta interessato a
Vanni nei suoi anni giovanili
[3]. Nonostante si tratti dell’unica opera presente nelle
Marche, per il pittore poteva sembrare un ritorno alle origini, visto il profondo influsso esercitato su di lui dall’urbinate
Federico Barocci, del quale è infatti uno dei migliori e più raffinati epigoni. Ne consegue un dipinto di forte impatto cromatico ed emotivo, in cui spicca il caldo rosso del manto con cui la figura del Salvatore si staglia sul blu dominate la tela, sebbene questa rimanga ancorata a usi e pratiche di maniera, come il riutilizzo di figure e invenzioni già sperimentate altrove. Un bozzetto in chiaroscuro e con poche lievi varianti è in
collezione Chigi Saracini a Siena.
Se questa è una situazione nota ai più, è passata sorprendente inosservata la presenza nella stessa chiesa fabrianese di un dipinto riferibile al
figlio di Francesco,
Raffaello (Siena 1595-1673), figura centrale del barocco senese e uno dei principali artisti chigiani a Roma. I rapporti con i discendenti di
Agostino erano infatti molto stretti non solo per la comune origine senese, ma anche perché
Fabio Chigi, dal 1655
papa Alessandro VII, era stato battezzato con
Francesco Vanni come padrino.
Lo sfallo attributivo aveva avuto origine a causa dell’autorità di
Venanzo Benigni che, nel suo
Compendioso ragguaglio delle cose più notabili di Fabriano a (p. 28), citava il bel dipinto della
Trinità adorata da San Giovanni di Matha e San Felice di Valois che decora la
cappella dedicata alla Santissima Trinità (fig. 2) nella
chiesa di san Benedetto riferendolo a
Giacinto Brandi, un parere in seguito accettato da
Molajoli e dalla critica successiva, che però si trovava a dover giustificare l’evidente difformità rispetto ai modi propri del pittore romano supponendo un largo intervento della bottega
[4]. Passavano invece in sordina le menzioni che del dipinto avevano

fatto
Francesco Graziosi nelle sue
Memorie Istoriche della Città di Fabriano, compilate nel 1733 «
Il quadro della S.S. Trinità è di Michelangelo, o di Raffaello suo fratello, figli di Francesco Vanni Senese», e il
canonico Costanzo Gilli che col
capitano Silvestro Guerrieri nelle
Memorie di Fabriano aveva scritto: «
il quadro della Santissima Trinità è del figlio del Cavalier Vanni»
[5].
Il dipinto, si vedrà, può essere agevolmente accostato a quelli realizzati da
Raffaello Vanni negli anni del
pontificato Chigi un elemento ulteriore questo per ipotizzare un arrivo del dipinto a
Fabriano da
Roma. I documenti certificano poi un contatto, e siamo al 1664, tra il procuratore generale degli
Scalzi della Trinità a Roma e i confratelli marchigiani, volto ad elencare le numerose grazie concesse da più pontefici all’ordine stesso
[6]. Non sarà poi un caso che
San Giovanni di Matha, protagonista del dipinto, sia stato canonizzato proprio durante il pontificato di
Alessandro VII e precisamente nel 1666, fornendo così un termine di riferimento per la datazione del dipinto. Il nome di
Michelangelo Vanni, fratello di dieci anni più anziano rispetto a
Raffaello, tirato in ballo da
Graziani, era artista anch’egli ma di minor talento, celebre più per avere inventato una tecnica per colorare il marmo, che come pittore e ciò che gli si suole attribuire non regge il confronto con questa pala nella quale non può aver avuto un ruolo importante
[7]. Vi si riconoscono invece i modi di
Raffaello che, soprattutto negli anni romani e chigiani, increspa il rigoroso dettato classicista sotto la spinta del linguaggio cortonesco e, anche, berniniano, fino a svaporarlo in un dipingere ricco e, allo stesso tempo, composto e spumeggiante. Si osservi ad esempio il ricorrere dello stesso
ductus pittorico nel dipinto chigiano datato 1664 realizzato dal pittore per
San Martino a Siena e dedicato a
Sant’Ivo con San Sebastiano e Sant’Agata (fig. 3), i panneggi e la visione celeste con il Padre eterno sulle nubi sono sostanzialmente sovrapponibili. Il
San Tommaso da Villanova di Ariccia (fig. 4), dipinto nel 1665, mostra la stessa fisionomia del San Giovanni di Matha del dipinto fabrianese, il cui disegno giunge a descrivere perfino identiche pieghe nel panneggio. Allo stesso modo è agevole confrontare le figure del Cristo in entrambe le pitture. Un medesimo turbinio di figure di contorno, angeli e santi, si trova infine nella
Estasi di San Francesco di Sales del
duomo di Siena (fig. 5), 1668, con angeli e cherubini affaccendati a soccorrere il santo nel suo deliquio e ad assistere la Vergine e Dio padre.

Nella sagrestia della
cattedrale di Narni si conserva ancora oggi un bel dipinto raffigurante il
Martirio di San Giovenale (fig. 6), il primo vescovo della città cui il santuario è dedicato, che è stato correttamente attribuito alla mano di
Raffaello Vanni[8] sebbene mostri, rispetto alle opere fin qui citate, una mano più giovanile: vi si riscontra una vena di sensibile realismo e di gestualità teatralizzanti, memore del primo
Cortona, che lo distingue dalla vaporosa e ricca fastosità degli anni romani. Ma nella stessa chiesa, al centro dell’abside e dunque in posizione preminente, parzialmente occultata solo dal ricco altare barocco, vi è una pala volta a celebrare la
Gloria di San Giovenale (fig. 7) che, dopo essere stata proposta a
Trevisani, molto attivo nella stessa chiesa, è stata infine ritenuta di
Girolamo Troppa, pittore sabino di cultura molesca e gaulliana
[9].
Negli anni della sua lunga attività il pittore di
Rocchette in Sabina fu in grado di cambiare più volte stile e registro col risultato che spesso le sue opere sono state attribuite ai pittori più diversi
[10], ma in questo caso le differenze con le opere certe sembrano alquanto insormontabili, mentre, al contrario, assonanze e confronti si possono più agevolmente istituire con le realizzazioni di
Raffello Vanni, anche in questo caso quelle dei felici anni del
pontificato Chigi. Sono poi le indicazioni documentarie ad appoggiare, così sembra, una datazione che ricada nel settimo decennio del secolo, quando del rinnovamento della zona presbiteriale fu incaricato il potente architetto domenicano
Giuseppe Paglia, calabrese, ma attivo in parecchi cantieri romani tra i quali quello dell’
Elefantino della
Minerva, quando ebbe a ridire del
Bernini stesso
[11].

Quanto fin qui delineato sostiene l’ipotesi di una committenza giunta al pittore ancora una volta dall
’Urbe così come i raffronti più convincenti supportano la datazione prospettata, del settimo decennio del secolo. La
Gloria di Sant’Ivo, con i Santi Sebastiano e Agata di
Siena soccorre ancora una volta a sostenere il riferimento al pittore: in entrambe le tele si osserva lo stesso modo di trattare i due distinti piani del dipinto, con in alto le figure di Cristo, della Vergine e, in un caso, del Padreterno, rese in modo da apparire eteree e sfuggenti. Simile è inoltre la gestualità dei due santi rinfrancati dalla visione celeste, così come l’andamento dei panneggi, fino ad elementi più “morelliani” come la resa delle dita. Per il suadente svolazzare degli angeli, sembra utile richiamare alla mente il dipinto di
Vanni per
Santa Croce in Gerusalemme a Roma, parte di un ciclo che vedeva all’opera anche il neovenetismo di
Giovanni Bonatti, il classicismo di
Carlo Maratta, la scaltrezza di
Giuseppe Passeri e il composto barocco di
Luigi Garzi. Nel
Sogno della madre di San Roberto di Molesme, allestito come una sorta di insolita ‘Annunciazione’, sia i putti che giocano con il giglio, sia quelli che sorreggono il santo neonato possono essere difficilmente distinti dai biondi angeli che accorrono pregando o che reggono il pastorale al cospetto di San Giovenale.
Il riferimento di queste due pale d’altare a
Raffaello Vanni apre la via a nuove ricerche sulla presenza del pittore nelle
Marche, dove fino ad ora sue opere non erano state rintracciate e ne conferma l’importanza nel ricco territorio umbro, ribadendo ancora una volta come nella sua lunga e alacre vita artistica non faticò mai a trovare commissioni, né si peritò di rifiutare, nel momento di maggior grazia e fama, incarichi provenienti dalla provincia, da città che allora come oggi rappresentano l’ossatura del Paese e la base della sua identità.
di
Massimo FRANCUCCI
(Ringrazio per il loro aiuto e apporto
Daniele Benati e
Francesco Petrucci).
[1] Marche e Toscana. Terre di grandi maestri tra Quattro e Seicento, a cura di S. Blasio, Pisa, 2007.
[2] M. Ciampolini,
Pittori senesi del Seicento, Siena, 2010, III, p. 915.
[3] Per concludere i rapporti di parte bolognese si ricordi anche come Agostino Carracci scelse le opere di Francesco Vanni come modello per alcune delle sue incisioni ribadendo la fortuna goduta dal pittore in diversi ambienti ecclesiastici e collezionistici. Si veda D. De Grazia,
Le stampe dei Carracci. Con i disegni, le incisioni, le copie e i dipinti connessi. Catalogo critico, Bologna, 1984.
[4] V. Benigni, 1728, ma Fabriano 1924, p. 28; B. Molajoli,
Guida artistica di Fabriano, 1936, p. 122; A. Pampalone, per Giacinto Brandi, in “Bollettino d’Arte”, 1973, 2/3, p. 136; F. Fraternali,
La cappella della SS.ma Trinità, in
La chiesa di San Benedetto a Fabriano, a cura di B. Cleri, G. Donnini, Foligno, 2013, pp. 150-155; G. Serafinelli,
Giacinto Brandi 1621-1691. Catalogo ragionato delle opere, Torino, 2015, II, p. 176 E2.
[6] F. Fraternali,
La cappella… cit., p. 150.
[7] Su Michelangelo Vanni si rimanda a M. Ciampolini,
Pittori senesi… cit., pp. 1017-1028.
[8] M. Ciampolini, Op. cit., p. 1048; B. Toscano, in
Ricerche in Umbria 1, Treviso, 1976, p. 68, nota 66, p. 110, n. 65; C. Strinati,
recensione a Ricerche in Umbria 1, in “Antologia di belle arti”, 1978, p. 159.
[9] La prima proposta in favore di Troppa risale alle Ricerche in Umbria 1,; di recente, in un interessante contributo dedicato alle “addizione barocche alla cattedrale” Salvatore Enrico Anselmi ha nuovamente riferito il dipinto al pittore di Rocchette (
Addizioni barocche nella cattedrale di Narni: Giuseppe Paglia, Nicola Michetti e Girolamo Troppa, in “Storia dell’arte”, 139, 2014, pp. 84-102).
[10] A Troppa sono stati dedicati negli ultimi tempi numerosi studi, si segnalano in particolare quelli di Erich Schleier (
Altre aggiunte a Girolamo
Troppa pittore e disegnatore, in “Studi di storia dell’arte”, 26, 2015, pp. 215-228;
Integrazioni e nuove proposte per Girolamo Troppa disegnatore e qualche aggiunta a Troppa pittore, In “Arte cristiana”, 2013, 875, pp. 83-98;
Nuove proposte per Girolamo Troppa pittore, in “Arte cristiana”, 2012, 870/872, pp. 245-256) e Francesco Petrucci (
Considerazioni su Girolamo Troppa: un "tenebrista" del tardo Seicento romano, in “Prospettiva”, 2012, pp. 88-102).
[11] Sull’intervento di Paglia a Narni si rimanda a S. E. Anselmi,
Addizioni barocche… cit., pp. 85-90.
Didascalie immagini
Fig. 1, Francesco Vanni,
La Vergine adorata da San Silvestro Guzzolini e una santa, Fabriano, San Benedetto
Fig. 2, Raffaello Vanni,
La Trinità adorata dai Santi Giovanni di Matha e Felice di Valois, Fabriano, San Benedetto
Fig. 3, Raffaello Vanni,
Sant’ Ivo in gloria, Siena, San Martino
Fig. 4, Raffaello Vanni,
La morte di San Tommaso da Villanova, Ariccia, Santa Maria Assunta
Fig. 5, Raffaello Vanni,
L’ estasi di San Francesco di Sales, Siena, Cattedrale
Fig. 6, Raffaello Vanni,
Il martirio di San Giovenale, Narni, Cattedrale di San Giovenale
Fig. 7, Raffello Vanni,
San Giovenale in Gloria, Narni, Cattedrale di San Giovenale