Villa Poniatowski

Dal 1° aprile la villa apre al pubblico

con orari regolari e biglietto integrato con il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
di
Nica FIORI
 
Villa Poniatowski, acquisita dallo Stato Italiano nel 1988 per l’ampliamento del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, cui è contigua, è stata inaugurata qualche anno fa dopo un lungo e complesso lavoro di restauro, ma di fatto è stata chiusa al pubblico, tranne in rare occasioni. Finalmente si è deciso di aprirla con orari regolari a partire dal 1° aprile 2017 e fino al 24 febbraio 2018, con un biglietto unico condiviso con il Museo di Villa Giulia. Un’occasione da non perdere perché i visitatori possono ammirare, oltre ai capolavori dell’arte etrusca ed italica, ben due ville storiche di eccezionale bellezza.
Nata come dependance della villa di papa Giulio III Ciocchi del Monte su via dell’Arco Oscuro (odierna via di Villa Giulia), in un’ampia zona verde non lontana dal Tevere, Villa Poniatowski deve il suo nome al nipote dell’ultimo re di Polonia, Stanislao Poniatowski, che, trasferitosi a Roma verso la fine del Settecento, scelse questo edificio cinquecentesco per farne la sua dimora. I lavori di risistemazione furono affidati a Giuseppe Valadier, celebre architetto neoclassico che proprio dal mondo antico trasse ispirazione per la realizzazione delle sale principali. La villa ebbe in seguito altri proprietari, in particolare la famiglia Riganti che nell’antico “giardino di delizie” realizzò una conceria. Tutta l’area è andata poi incontro a un lungo periodo di abbandono e di progressivo decadimento, con insediamenti di abitazioni, di officine, di studi artistici.
 

Alla villa si accede da un portone cinquecentesco che introduce in un piccolo giardino.

Una rampa conduce al cuore del museo. È difficile riconoscere l’impianto del XVI secolo, profondamente modificato dalla travagliata storia che ha investito la villa. Nei lavori di restauro sono stati riportati alla luce gli stemmi della famiglia Cesi, che vi aveva soggiornato alla fine del ‘500. Sono riemersi anche parte degli affreschi originari, raffiguranti paesaggi e grottesche, che erano stati occultati da controsoffitti. Sono pitture tardorinascimentali, di autore ignoto ma ascrivibili alla cerchia di Antonio Tempesta e di Daniele da Volterra.
La sala Egizia, o delle Colonne doriche, si presenta ora come la più grande e la più scenografica del piano nobile, grazie al grande affresco ottocentesco con scorci di paesaggio nilotico di Felice Giani, cui fa da pendant dall’altro lato la vista sul Colle dei Parioli, ancora ricco di verde. La suddivisione dello spazio data dalle colonne affrescate crea l’illusione di una loggia sulle sponde del Nilo, ricche di obelischi, sfingi e piramidi, secondo quel gusto egizio che a Roma fu rilanciato da Piranesi (basti pensare alla piazza dei Cavalieri di Malta e alla decorazione dello scomparso Caffè degli Inglesi). Le colonne dipinte imitano il granito rosso, mentre i riquadri dello zoccolo sottostante ricordano i rivestimenti parietali di porfido e serpentino dell’antica Roma.

L’altra sala celebre del piano nobile è quella Indiana, affrescata sempre da Felice Giani, con paesaggi di chiara ispirazione esotica (si riconoscono la veduta del Gange a Benares e le tombe Moghul), intramezzati da colonne arabo-indiane e tendaggi esotici sui toni bianchi e rossi. Felice Giani, pur essendo un pittore neoclassico, crea in questo caso un’ambientazione tutt’altro che algida, colorata e un po’ bizzarra.
Oltre a questi ambienti di rappresentanza dell’edificio valadieriano, sempre al piano nobile troviamo la sala dei Busti, decorata con busti dipinti all’interno di medaglioni, alternati a riquadri con grottesche, mentre al piano terra troviamo la sala dell’Ercole Farnese, così chiamata perché vi era una copia della celebre statua del Museo Archeologico di Napoli, raffigurante l’eroe nudo che si appoggia a una clava. La passione per il mondo antico traspare in questa sala dal calco in gesso del rilievo della Processione dell’Ara Pacis (in origine erano due) e dalla volta a finti lacunari, realizzati precedentemente rispetto all’intervento del Valadier.

Le collezioni museali sono di grande interesse e sono dislocate in nove sale.

Al piano terra sono stati collocati i reperti dell’Umbria, che documentano le diverse fasi artistiche delle popolazioni che abitavano la valle tiberina. Provengono da Terni, Nocera Umbra, Gualdo Tadino e Todi, le cui necropoli in particolare hanno restituito corredi di altissimo livello (V-III secolo a.C.), come nel caso della tomba degli Ori appartenuta a una dama di alto rango (particolare è la collana a bulle decorata con teste di Medusa, come pure lo specchio con rappresentazione del giudizio di Paride). La tomba del Guerriero (fine V secolo a.C.), oltre ad aver restituito un consistente apparato da banchetto in bronzo e numerose ceramiche attiche figurate, si distingue per l’elmo da parata di tipo attico, in bronzo ageminato in argento e decorato a sbalzo con scene di combattimento, di produzione vulcente.
Tra i reperti più originali sono dei barilotti lignei con fasciature di bronzo, provenienti da Gualdo Tadino. Dovevano servire al trasporto di liquidi come acqua e vino, com’è raffigurato anche in un’incisione della notissima Cista Ficoroni, conservata a Villa Giulia.
Al piano nobile troviamo i tesori del Latium Vetus, con importanti resti di edilizia sacra e di materiale tombale. Dal Santuario di Diana a Nemi provengono offerte votive e rivestimenti architettonici in bronzo dorato, da Tivoli manufatti miniaturistici che vanno dall’VIII al II secolo a.C. Riveste carattere di dono eccezionale il modellino fittile di edificio, probabilmente templare, con tetto a doppio spiovente, recuperato a Velletri. Da Gabii proviene un altro manufatto rarissimo: un monumentale sarcofago di legno ricavato da un tronco (VII secolo a.C.). Ricordiamo tra gli altri i reperti relativi a Lanuvio (tempio di Giunone Sospita, 500 a.C.), Segni (tempio di Giunone Moneta), e soprattutto Satricum e Palestrina. Da Satricum provengono le terrecotte architettoniche del celebre santuario dedicato a Mater Matuta, la divinità italica che era preposta alla luce del giorno (“matutina”) e alle nascite. Da Palestrina, invece, provengono i ricchissimi corredi di stile orientalizzante della tomba Bernardini (straordinari un piatto d’argento decorato con motivi egizi e una splendida coppa blu forse assira) e della tomba Barberini, con avori intagliati e straordinarie oreficerie.
Molto fiorente a Palestrina (Praeneste in età romana) è la produzione locale di oggetti di bronzo, che tocca il suo apice tra il IV ed il III secolo a.C., grazie al contatto con le maestranze artigianali etrusche, alcune certamente operanti in loco.
In esposizione troviamo un trono, armi e suppellettili da tavola, ma sono alcuni oggetti femminili a colpire maggiormente la nostra attenzione, come le ciste di bronzo, contenitori da toeletta di varie forme e grandezze, realizzati con scene mitologiche o di genere sul corpo e con manici e piedi figurati. Sempre alla vanità femminile si riferiscono gli specchi metallici con un lato decorato e l’altro accuratamente lisciato in modo che l’immagine si riflettesse sulla superficie, come pure delle scatoline in legno a forma di colomba, cerbiatto, anatra, internamente suddivise in piccoli reparti per conservare le polveri colorate per il trucco.
di
Nica FIORI                            Roma  30 / 3 / 2107
 
Apertura di Villa Poniatowski
Dal 1° aprile 2017 al 24 febbraio 2018: sabato pomeriggio (ore 15-18 con ultimo ingresso ore 17,15) e giovedì mattina (ore 10-13 con ultimo ingresso ore 12,15).
Mese di Agosto 2017: mercoledì e giovedì pomeriggio (ore 15-18 con ultimo ingresso ore 17,15).