di Andrea Dusio
Con “Albrecht Dürer. Il privilegio dell’inquietudine” (fino al 19 gennaio 2020) il Museo Civico delle Cappuccine di Bagnacavallo (Ravenna) torna a dedicare una monografica a un grande incisore, dopo le mostre incentrate sull'opera grafica di Francisco Goya e Max Klinger. Il progetto curatoriale di Diego Palizzi e Patrizia Foglia rilegge 120 opere provenienti da collezioni pubbliche e private (per lo più italiane) alla luce di una scansione tematica che mira a mettere a fuoco i filoni principali dell'artista di Norimberga, considerato a tutti gli effetti la personalità che per prima ha saputo innalzare l'attività incisoria a espressione pienamente autonoma. Al giudizio di Klinger, fatto proprio dai curatori (“Un’opera grafica di Dürer non si riferisce né a un quadro replicato, né traduce sensazioni di colore in forme estranee alla tecnica adottata. È compiuta in se stessa e definitiva, priva solo di quanto l’idea, eternamente inarrivabile, rifiuta alle possibilità di ogni artista”), si può in tal senso premettere quello di Erasmo da Rotterdam, pubblicato a Basilea alla fine di marzo del 1528, all'interno del “De recta Latini Graecique sermonis pronunciatione”, e dunque vergato pochi giorni prima della morte del pittore e incisore, avvenuta il 6 aprile di quello stesso anno. Il brano, che di fatto costituisce il pendant letterario del bulino del 1526. in cui Dürer ritrasse Erasmo desumendone l'aspetto da un disegno realizzato qualche anno prima, oggi conservato al Louvre, è un documento straordinario della fama che l'artista aveva raggiunto nella cerchia dei maggiori intellettuali del suo tempo. “Riconosco che Apelle è stato un principe della sua arte, al quale nessun pittore poté muovere altro rimprovero che quello di non sapersi mai staccare dai propri dipinti, il che rappresenta uno splendido rimprovero”, scrive Erasmo (il testo originario è in latino, la traduzione è quella riportata nel catalogo della mostra milanese del 2018, nel saggio di Bernard Aikema e Giovanni Maria Fara sull'attività incisoria). “Ma Apelle era assistito dai colori, e per quanto fossero pochi e modesti erano pur sempre colori. Dürer invece, oltre a essere ammirevole per tanti altri riguardi, cosa non seppe esprimere coi suoi monocromi, cioè con le sue linee nere! Luce, ombra, splendore, rilievi, profondità: e sebbene derivati alla posizione di una singola cosa, molti aspetti si rivelano agli occhi dell'osservatore. Dürer segue rigorosamente le regole della proporzione e dell'armonia. C'è di più, egli ritrae tutto ciò che non può essere ritratto. Il fuoco, i raggi di luce, il tuono, i lampi, le folgori, o, come si dice, le ombre sul muro; e poi tutte le emozioni e le sensazioni; e per finire tutto lo spirito dell'uomo come si riflette negli atteggiamenti del corpo, e quasi la stessa voce. Dürer sa offrire ai nostri occhi tutte queste cose impiegando le linee adeguate, quelle nere, di modo che se si volesse aggiungervi il colore si guasterebbe l'opera. Non è dunque meraviglioso ottenere senza la blandizie del colore quei risultati che Apelle raggiungeva solo grazie ad esso?”.
Va detto che, a fronte di quanto scrive Erasmo, l'abitudine di colorare le incisioni di Dürer si diffuse rapidamente dopo il 1570. I monocromi erano infatti difficili da collocare nelle kunstkammern e nelle prime wunderkammern nordiche. Ma il punto d'intersezione tra questo elogio e la mostra di Bagnacavallo è un altro. La complessa personalità dell'artista tedesco, che era assieme scienziato e artigiano, umanista e gotico, osservatore della natura e devoto al classicismo italiano, è spesso stata amplificata dalla tendenza a leggere in chiave esoterica e misterica alcuni dei suoi capolavori incisori, quasi che la comprensione dell'artista dovesse passare dall'interpretazione delle immagini che ci ha lasciato. È quanto succede, nell'ambito della pittura italiana, per Giorgione, e, in misura minore, anche per Lorenzo Lotto. L'esposizione, l'una accanto all'altra di incisioni come quelle del ciclo dell'Apocalisse, de “Il cavaliere , la morte e il diavolo”, del Sant'Eustachio, del “San Girolamo nello studio” e naturalmente della “Melanconia” consente allora di tornare su quest'ambiguità irriducibile di Dürer, per provare a separare intellettualismo ed esoterismo. Nei più recenti contributi storiografici prevale infatti, a partite ancora dagli apporti di Bernard Aikema, la tendenza a riconsiderare l'enigmaticità di queste immagini, ipotizzando che la ricchezza di particolari e l'ambiguità del tema fossero volute, perché la fruizione era destinata ad ambiti in cui le opere venivano discusse collettivamente, all'interno di eventi sociali, e non osservata ed esperita individualmente. Sempre con maggior convinzione si parla in tal senso di conversation pieces, opere aperte alla libera lettura di gruppi di intellettuali, che amavano dialogare tentando di interpretare la complessità di queste raffigurazioni. E che l'intenzione dell'artista sia resa con grande efficacia lo dimostra il fatto che, come per la “Melanconia” di Dürer e per la “Tempesta” di Giorgione, il dibattito è ancora aperto, e ogni anno puntualmente c'è qualcuno che afferma di essere approdato a una lettura che scioglie definitivamente il mistero. È possibile in tal senso circoscrivere una serie di artisti: nel mondo tedesco oltre a Dürer probabilmente Altdorfer, nel Veneto Giorgione, Loto e anche Previtali, e nelle Fiandre Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel, che appassionano ancora per la complicata interpretazione di dipinti, disegni e stampe, non perché non si sia ancora trovato il bandolo della matassa, ma in ragione di un'intenzione originaria, che era quella di produrre opere che fossero autentiche foreste di simboli spinti a un certo grado di ambiguità, così da poter dar vita a pubbliche dissertazioni.
C'è però un secondo motivo di grande interesse nella mostra ravvenate. A partire dal 14 dicembre tornerà infatti nella sede dove era originariamente conservata la “Madonna del Patrocinio”, che sino al 1969 è stata nel monastero delle Clarisse Cappuccine, ora convertito a Museo Civico di Bagnacavallo. Rinvenuto nel Secondo Dopoguerra da monsignor Alberto Savioli, che lo ritenne di scuola leonardesca, questo dipinto venne sottoposto a Roberto Longhi, che nel 1961 la riconobbe come opera di Dürer. Echi e riflessi di quest'immagine si possono osservare in alcuni artisti romagnoli operanti a Cotignola, e in particolare in Francesco Zaganelli e nel fratello Bernardino. Si è parlato di un influsso già sulla lunetta del “Cristo in pietà” che fa parte della pala per la chiesa dei Francescani di Cotignola, che è opera segnata 1499. Ma in realtà una vera e propria derivazione dall'immagine di Dürer si osserva nell' “Immacolata Concezione”, opera di collaborazione dei due fratelli, che sta ai Musei Civici di Vicenza, e che è datata 1505. La questione di questi influssi travalica la problematica della ricezione emiliana e romagnola di Dürer (per esempio la “Madonna di Bagnacavallo”, come viene per lo più chiamato il dipinto, non è mai citata da Amico Aspertini, che pure Longhi immaginava tra coloro pronti ad accogliere il pittore tedesco al suo arrivo a Bologna nel 1506, come ha notato in un suo studio Raffaella Zama) e va ad impattare sul problema dei soggiorni italiani dell'artista di Norimberga. Se infatti la storiografia mainstream insiste nel riferire di un primo viaggio di Dürer in Italia, da fissarsi allo scadere del XV secolo, nel 1495 o immediatamente dopo, si va affermando ora una tesi secondo cui questo primo soggiorno non documentato se non con pochi appigli delle carte, tutti di lettura ambigua- per usare un eufemismo- non sarebbe mai avvenuto. Il viaggio cominciato nel 1505 sarebbe dunque a tutti gli effetti il primo in Italia di Dürer. Le implicazioni storiografiche e critiche di quest'acquisizione sono molteplici, a partire dal superamento dell'idea che nel primo viaggio l'artista tedesco si sia limitato a imitare la pittura italiana, per poi sublimarla nel secondo. Oggi la “Madonna del Patrocinio”, che nel 1969 le clarisse cedettero alla Fondazione Magnani Rocca, è ancora datata per lo più ante 1505, come a significare che appartiene a un primo soggiorno ancora da documentare. È indubbio comunque che la fisionomia della Vergine derivi dai modelli di Giovanni Bellini, artista che nel 1505 Dürer (nelle lettere lo chiama Sambellin) stimava essere ancora il primo tra i veneziani, nonostante la veneranda età. Ma va altresì detto che datando la “Madonna Haller” ora alla National Gallery of Art di Washington, al 1498, la storiografia è ancora allineata nel ritenerla un riflesso della pittura del Giambellino osservata direttamente nel 1495 (anche se la conoscenza dei prototipi del Bellini poteva venire anche dalle stampe). Il problema resta dunque aperto, e la “Madonna del Patrocinio” rappresenta uno- non certo il solo- dei passaggi obbligati per chi intenda risolverlo.
ottobre 2019
fig. 1 Melanconia; 2 Il rinoceronte; 3 San Girolamo nello studio; 4 Uomo dei Dolori. In copertina Madonna di Bagnacavallo.